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EDITORIALE
tratto dal n. 07/08 - 1999

Per tre giorni Leningrado



Giulio Andreotti


«Malgrado gli sforzi compiuti per divulgare l’opera dell’Osce, non si è ancora manifestata una sufficiente consapevolezza e comprensione degli impegni e dei princìpi di questa organizzazione da parte delle autorità governative competenti e del pubblico in generale, specialmente nei Paesi in transizione».
Con questa realistica constatazione il deputato statunitense Alcee Hastings (Florida) ha iniziato il suo rapporto all’Assemblea parlamentare dell’Osce riunita a San Pietroburgo, con il suggestivo impegno programmatico di ricerca di modelli per far progredire nel XXI secolo la sicurezza comune e la democrazia. In effetti, nella coesistenza con altre organizzazioni e aggregazioni europee (Unione europea, Unione dell’Europa occidentale, Consiglio d’Europa, Ocde, Nato), l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione sembra un po’ la Cenerentola, in un contesto forse troppo caricato. Ma c’è di più. L’ampliamento dell’Unione e della Nato rischia di creare una discriminazione all’interno del continente verso gli Stati che restano fuori. Mentre non si utilizza a dovere la storica opportunità di potenziare il contesto che comprende tutta l’Europa ed in più gli Stati Uniti d’America e il Canada.
Il segretario generale del Pcus Leonid Breznev e il presidente americano Gerald Ford si stringono la mano davanti all’ambasciata Usa a Helsinki il 30 luglio 1975. Alla loro destra c’è Henry Kissinger e alla loro sinistra Andrej Gromyko

Il segretario generale del Pcus Leonid Breznev e il presidente americano Gerald Ford si stringono la mano davanti all’ambasciata Usa a Helsinki il 30 luglio 1975. Alla loro destra c’è Henry Kissinger e alla loro sinistra Andrej Gromyko

La storia dell’Osce è di grande importanza. Quando nel 1975 fu approvato l’Atto finale di Helsinki non mancavano posizioni di malcelata ostilità e specialmente di scetticismo. Aldo Moro, che firmò nella doppia veste di capo del governo italiano e di presidente di turno della Comunità, rispose in modo esemplare a chi rilevava la contraddizione tra l’adesione sovietica e la ribadita dottrina di Breznev sulla sovranità limitata dei Paesi socialisti: «Il signor Breznev passerà» disse «e i semi che noi oggi gettiamo produrranno gli effetti sperati».
Nel 1990 l’Atto finale divenne un vero e proprio trattato internazionale, recuperando anche l’Albania, fino a quel momento chiusa nel suo isolamento tutt’altro che splendido. La Carta di Parigi si chiamò «per la Nuova Europa». E vide sancire meccanismi singolari a difesa dei diritti civili e specialmente delle minoranze (etniche e religiose). Si obietta che alla novità della reciproca tutela di questi diritti non corrispondono mezzi coercitivi per riportare all’ordine gli inadempienti. È un rilievo giusto, che proprio quello che è accaduto nel Kosovo induce a meditare con particolare impegno. Forse è prematuro parlare di una polizia europea, qualificata ad intervenire per il ripristino, senza un mandato specifico dell’Onu, di regole fondamentali violate. Credo però che in prospettiva questo debba essere l’obiettivo da perseguire. La via militare, utilizzata con un costo così massacrante nel Kosovo, ha lasciato, del resto, senza risposta quesiti di fondo sulla liceità dell’uso debordante di strumenti destinati solo alla difesa territoriale e per di più nel mero ambito dei Paesi associati. La risposta alle istanze umanitarie e alle esigenze di sicurezza può trovare proprio nello schema Osce la sua sede sicura e garantita.
A San Pietroburgo si è parlato dei problemi, spesso angosciosi, della prevenzione dei conflitti, della gestione delle crisi e della ricostruzione post-conflittuale. Come già per Helsinki nel 1975, gli scettici obiettano che è inutile illudersi di modificare la natura competitiva dei popoli; anche se nessuno nega il valore indotto dall’instaurazione e dal potenziamento di ordinamenti democratici.
A questo proposito l’Osce ha tra i suoi compiti la sorveglianza della regolarità delle operazioni elettorali; e di fatto ha compiuto molte missioni di monitoraggio. C’è chi osserva, non senza fondamento, che ad evitare discriminazioni sarebbe più equo fissare una presenza magari simbolica dell’Organizzazione in tutti i Paesi, senza classificazioni di maturità piena o semipiena di uno Stato rispetto ad altri.
Nei mesi prossimi continuerà la redazione della Carta per la sicurezza europea che dovrebbe evitare, come ha detto l’onorevole Hastings, una ripetizione pura e semplice degli esistenti impegni Osce, «e cercare invece di far leva sulle realizzazioni dell’Organizzazione fornendo la struttura per una regione maggiormente pacifica, democratica e prospera estesa dall’Atlantico all’Asia centrale».
Nelle assemblee interparlamentari ci si domanda spesso se si possa fare qualcosa di più per servire la causa della pace; e se davvero il ricorso alla forza sia in alcuni casi inevitabile. Dovremmo studiare – alla luce delle esperienze negative vissute – se ci si debba rassegnare alla impraticabilità delle sanzioni economiche e degli embarghi. Stiamo oggi curando le ferite provocate nella Iugoslavia e tutto attorno dal mancato rispetto, appunto delle sanzioni che furono irrogate per richiamare all’ordine il governo di Belgrado. Forse dovrebbe invocarsi il “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, ma quel che conta è far riflettere sul tragico costo che ha comportato la elusione dei blocchi di terra, di mare e di cielo.

Ero stato a Leningrado nel 1972 ed è incancellabile l’impressione che mi provocò la visita al Memoriale dei terribili anni di guerra sofferti dalla città assediata. Non so come abbiano fatto giuridicamente, ma ripristinando il nome della vecchia capitale di San Pietroburgo hanno lasciato per tre giorni l’anno l’intitolazione a Lenin. Proprio perché non si dimentichi l’assedio di Leningrado.
Negli appunti del ricordato viaggio ho ritrovato note ministeriali perché fossi cauto sul tema del divisato accordo di cooperazione Est-Ovest. In effetti Kosygin e Gromyko ne parlarono con calore, ma mi sorpresero con l’augurio che nelle vicine elezioni americane vincessero Nixon e Kissinger, con i quali avevano un rapporto “corretto e leale”.
Tante cose sono cambiate da allora. Ma la felice intuizione della formula Osce rimane in tutta la sua validità.
Il richiamo ad una maggiore attenzione fatto dall’onorevole Hastings merita di essere accolto, al di qua e al di là dell’Atlantico.


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