Solo lo stupore conta
Brani di Charles Péguy da Véronique. Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle
Brani di Charles Péguy: Véronique. Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle di Gianni Valente
Tra i tanti aspetti che
rendono unico Charles Péguy, il poeta francese nato nel 1873 e morto
nel 1914 nella prima battaglia della Grande guerra, ce n’è uno
che lo contraddistingue rispetto ai grandi scrittori cattolici francesi
della sua generazione, ai quali viene spesso accomunato (Bloy, Claudel,
Bernanos). Tutti costoro sono preoccupati di suggerire il modo in cui la
Chiesa deve rapportarsi al moderno, se in termini di contrasto o in un
tentativo di inseguirne le istanze.
Péguy non ha questo problema psicologico. Tutta la sua vicenda personale, le amicizie, il suo itinerario esistenziale sono immersi di fatto nella modernità, e così non ha il problema psicologico di come entrare in rapporto con la modernità.
Giovane militante repubblicano e socialista, fondatore di una rivista, i Cahiers de la Quinzaine, frequentata da atei, agnostici e liberi pensatori, quando Péguy ritrova la fede cristiana, non vive questo fatto come un’abiura della propria vita fino ad allora trascorsa in partibus infidelium. Scriverà di questo suo itinerario: «È per un approfondimento del nostro cuore sul medesimo cammino, e non è affatto per un’evoluzione, né per un ripensamento, che abbiamo trovato la strada del cristianesimo. Non l’abbiamo trovata grazie a un ritorno. Piuttosto, l’abbiamo rinvenuta al termine. Ed è per questo, occorre che lo si sappia bene dall’una e dall’altra parte, che non rinnegheremo mai un solo atomo del nostro passato».
Per Péguy la fede cristiana è un inizio di grazia. Un fatto che si può solo raccontare, quando accade. Péguy non è un filosofo o un teologo che tenta di interpretare la modernità, per dedurne strategie di nuova evangelizzazione. Semplicemente, è uno che guarda e registra e descrive ciò che accade. In una delle sue opere polemiche più attuali, Un nouveau théologien: M. Ferdinand Laudet, Péguy dice di sé: «Io sono un cronachista e non voglio essere altro che un cronachista».
Questa è una premessa importante per leggere Véronique. Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle, opera che in Italia verrà pubblicata nella sua versione integrale dalla casa editrice Donzelli nei primi mesi del prossimo anno.
IL BAMBINO E IL GENIO
Tutti quelli che hanno il problema psicologico del
moderno, prendono le mosse da una preoccupazione culturale: analizzare e
decifrare in che modo la Chiesa e il cristianesimo devono fare i conti con
la modernità. Per un cronachista, quale Péguy è, il
punto di partenza è un altro. È osservare e raccontare la
realtà per quello che è, con uno sguardo che davanti alle
cose permane nella semplicità creaturale del bambino. Lo sguardo che
Péguy descrive nelle prime pagine di Véronique, parlando del grande scrittore francese Victor Hugo:
«Egli [Victor Hugo] non vedeva il mondo con uno sguardo abituato […]. Tutto il problema di un genio è proprio qui, […] guadagnare, acquisire mestiere, mio Dio sì, ma soprattutto, ma essenzialmente non perdere in stupore e in novità, non perdere questo fiore, se possibile non perdere un atomo di stupore. È il primo che conta. È lo stupore che conta […]. Il vecchio Hugo, amico mio, vedeva il mondo come se fosse stato appena fatto».
Péguy aggiunge che questo modo di guardare le cose «purtroppo non è dato a tutti». Ma allo stesso tempo coincide con la condizione naturale in cui Dio crea gli esseri umani, la condizione di apertura creaturale propria del bambino. Introducendo il paragone tra il genio e il bambino, Péguy insiste che «tra i due il rapporto è tale che è certamente il genio che bisogna riferire al bambino, e non è affatto il bambino che bisogna riferire al genio; non sarebbe affatto fargli un grande onore». Perché nel genio accade «eccezionalmente» ciò che nel bambino accade «metafisicamente e naturalmente». L’educazione dovrebbe offrire umilmente un aiuto, innanzitutto di esempio, a permanere nella condizione in cui Dio crea, la condizione del bambino per cui solo lo stupore conta. E invece, dice Péguy, tutta l’educazione, tutta la pedagogia si concepisce come tentativo di potere, di «dominazione» per strappare il bambino da quella condizione creaturale di apertura in cui viene al mondo. Sono quelli che Péguy descrive come «i nostri invecchiamenti artificiali, pedagogici, i nostri insegnamenti»:
«Tramite la riduzione della parola di bimbo alla parola del genio, del puro bambino al genio lo facciamo rientrare meglio in noi stessi (obiettivo ultimo del pedagogo pubblico e del pedagogo occulto, occulto desiderio di dominazione dell’uomo), facciamo meglio rientrare ciò che eccede, noi facciamo meglio rientrare il caso bambino nel caso uomo. [...] Noi lo riduciamo, e questo è il sogno segreto della dominazione dell’uomo dominatore e del pedagogo, essenza di dominatore, inserito in ogni uomo; d’altra parte noi lo sopprimiamo».
VÉRONIQUE
Il testo Véronique. Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle è stato scritto nel 1909 ed è il primo testo che Péguy scrive dopo che ha ritrovato la fede e che si scopre cattolico. Ma verrà pubblicato solo postumo, addirittura nel 1955. Dalle notizie che Péguy stesso fornisce nelle sue lettere e nei suoi scritti, si deduce che questo testo faceva parte di una serie di dialoghi che Péguy aveva in programma di scrivere e che avevano per protagonista la storia, rappresentata dalla musa Clio. Péguy stesso, in una lettera all’amico Joseph Lotte, spiega anche il perché di un titolo che fa riferimento alla donna che diede conforto a Gesù sulla via del Calvario:
«Il primo volume si chiamerà Clio, il secondo si chiamerà Véronique. È stupendo vecchio mio: Clio [cioè la storia] passa il suo tempo a cercare tracce, vane tracce, è un’ebrea da niente, una ragazzina, Véronique tira fuori il suo fazzoletto e sul volto di Gesù prende una traccia eterna. Ecco ciò che sbaraglia tutto. Lei si è trovata lì al momento giusto. Clio è sempre in ritardo».
Véronique è l’ebrea che si trova per caso, senza volerlo, lungo il cammino che porta al Calvario, e in un incontro non programmato prende l’impronta del volto di Gesù sul fazzoletto. Ricorrendo alla figura di Véronique, il cronachista Péguy, che vuole solo descrivere «il reale e l’avvenimento», suggerisce il modo in cui l’uomo moderno può diventare cristiano. Non ricercando le tracce della memoria cristiana, che ormai è per lui un passato che non lo riguarda. Ma capitando lì per caso, incontrando per caso qualcosa che lo stupisce.
Venti secoli di cristianesimo, venti secoli di carità, venti secoli di teologia, sono come legno morto, e non possono far felice qui ed ora il cuore degli uomini d’oggi, se non nasce gratuitamente un nuovo germoglio. Se non riaccade lo stupore di un nuovo inizio. La città di Dio, la civitas Dei, dice Péguy, vive solo se accade questo continuo ricominciare, questo continuo nuovo inizio nel tempo. Per dare un’immagine di come ciò può accadere, il poeta di Orléans prende a paragone i grandi movimenti monastici, da Cluny a Cîteaux.
«Perché bisognava ricominciare sempre; (e bisognava ricominciare sempre nel tempo questi ordini, queste opere, queste fondazioni che erano frammenti di eternità, bisognava sempre ricominciare temporalmente quelle fondazioni eterne, di origine eterna, di regola eterna, di intenzione eterna). [...] Cîteaux, Cluny, Vézelay, le tre regine, queste città ospitavano questi esercizi, città di fervore erano incaricate di tenerli ferventi; […] e spesso si intiepidirono, e occorreva ricominciare sempre; la perpetuità spirituale, simbolo dell’eternità, immagine della perpetuità eterna, si conservava solo attraverso riinizi temporali, attraverso precarie, temporanee riprese».
Le opere umane, le opere di civiltà che l’esperienza monastica quasi senza accorgersene costruiva, erano come la dimora della storia di grazia, ed erano alimentate solo dal rinnovarsi, nel tempo, di fatti di grazia:
«Bisognava ricominciare sempre. Solo dei ricominciamenti temporali assicuravano, solo potevano assicurare non una continuità, una continuazione, (una parvenza di continuazione?) della regola eternamente perpetua».
Questo innesto dell’eterno nel tempo, questo riaccadere temporale della grazia, dell’inizio di grazia, è – dice Péguy – il meccanismo proprio del cristianesimo:
«Bisognava sempre ricominciare. Una fondazione eterna, d’origine eterna, non impediva affatto, una fondazione, una captazione della fonte eterna, captatio aeterni fontis non esonerava affatto da dover sempre ricominciare temporalmente. Una eternità di fondazione, ab ordine aeterne condito, non impediva affatto, non esonerava affatto che nel tempo e in un certo senso nel secolo bisognasse sempre ricominciare. Nessuna eternità di fondazione impedisce che la fondazione sia in un certo senso nel secolo, che l’eternità sia in un certo senso nel tempo; ecco il mio valore [è la storia a parlare], ecco la mia potenza, ecco la mia virtù; io sono, io costituisco un pezzo indispensabile nel meccanismo, nell’organismo stesso dell’eternità stessa; un pezzo complementare; certo non un pezzo, il pezzo essenziale, ma neanche un pezzo solo accidentale; un pezzo di istituzione, di creazione nel gioco, del meccanismo, nel funzionamento, dell’organismo stesso dell’eternità stessa. Non solo il rovescio del dritto, una storia effimera di cui non bisogna affatto parlare; non c’è bisogno di parlarne, non ne vale la pena, tanto dura poco. Ma un pezzo complementare indispensabile, un pezzo di istituzione e di creazione stessa, come il resto, tanto quanto il resto, eterno quanto il resto in un certo senso, un pezzo non solo inevitabile, ma indispensabile, senza il quale niente funzionerebbe più, senza il quale il meccanismo stesso, della creazione, non funzionerebbe più, non camminerebbe più, sarebbe tutt’altro, non sarebbe più, senza il quale questo organismo non fungerebbe più; non vivrebbe più questa vita; vivrebbe una vita tutta diversa; non vivrebbe più. [...] Altrimenti, allora, non ne varrebbe la pena; la prova terrestre, il passaggio d’invecchiamento, la prova terrena, la pena sarebbe vana, inutile; sarebbe un pezzo di troppo, un pezzo supererogatorio; non solo un pezzo che funziona a falso, ma, il che è peggio, un pezzo che funziona a vuoto; un pezzo inutile; un pezzo considerevole inutile. Altrimenti, allora, non ne varrebbe la pena. Sarebbe subito il regno di Dio e non questa città di Dio. [...] Sarebbe stata l’eternità subito. E allora io la storia non esisterei. Io la temporalità».
LANATURA DELLASCRISTIANIZZAZIONE
La natura propria della scristianizzazione, la sua
radice sta proprio nell’aver negato questo meccanismo.
Nell’aver negato, nel non attendere più, nel non riconoscere
l’azione della grazia nel tempo, in questo tempo storico presente,
ovvero, per usare un termine caro al discepolo prediletto, nella carne.
Scrive Péguy:
«Ecco quello che dimenticano troppo, quello che perdono di vista di solito i nostri chierici, e coloro che vivono nella regola, e anche coloro che vivono nel secolo. Nella loro ignoranza del secolo (temporale) c’è tanta empietà; in questa ignoranza, più o meno volontaria, più o meno involontaria; più o meno inconsapevole, ma di solito molto consapevole; in quel disprezzo più o meno esibito; tanto orgoglio di sicuro e tanta pigrizia; che sono due peccati capitali; ma, cosa (ancora) più grave, di certo infinitamente più grave, tanta empietà. [...] Ciò costituisce invece una grossa eresia, forse la più grossa di tutte, perché ingloba tutte le altre; [...] questa è la loro idea nascosta, ed è bacata nel cuore stesso, nel fondo stesso della loro preghiera; […] ciò a cui rinunciano non è inferiore a tutto quello che costituisce il prezzo, il segreto, il mistero, il valore del cristianesimo, che loro servono; perché non fanno altro che abolire, annullare, sopprimere, cancellare dalla faccia della terra, obliterare, distruggere (delea(n)tur), sopprimere (dalla creazione dunque, e anche dall’eternità) non soltanto forse quello che ne è, ciò che ne costituisce il succo e la linfa e il midollo, ma quello che comunque ne è una condizione essenziale e sine qua non; [...] una parte integrante; non certo essenziale, ma proprio come se lo fosse; quasi di più, più che essenziale, si potrebbe dire; direi la più curiosa, se non fosse un’empietà dire [...] ma dirò, posso dire, sono in diritto di dire la parte più commovente, sicuramente la più commovente; la parte che è inquieta; e quella che costituisce tutta la (sola) parte di fermentazione; la parte che non è più solo il sale della terra, ma il sale dello stesso cielo, il fermento, il lievito del pane celeste. Tolgono la chiave dalla porta; e la porta senza serratura e senza chiave resta solo una parete. Tolgono il prezzo, ciò che costituisce la posta, della scommessa, il saldo, del gioco, tutto ciò che costituisce il premio e il valore e la posta stessa e l’oggetto della salvezza. Tolgono, censurano il mistero stesso della creazione, e ci arrivano solo togliendo i pezzi grossi, i misteri essenziali. Tolgono la creazione, l’incarnazione, la redenzione; il merito, la salvezza, il premio della salvezza; il giudizio e qualcos’altro; e naturalmente e soprattutto la grazia; più di ogni mistero il mistero e l’operare della grazia».
Un errore di mistica
La natura propria della scristianizzazione, la sua radice consiste nel «togliere il mistero e l’operare della grazia». Si potrebbero indicare – nota Péguy – tanti fattori teorici e pratici (politici, sociali, culturali, educativi) per spiegare come ciò è potuto accadere. Ma...
«Tutte queste cause insieme non significherebbero niente. [...] Non sarebbero affatto dello stesso ordine del proprio effetto. Per spiegare [...] un disastro di quell’ordine, bisogna che sia stato commesso un errore dello stesso ordine. Per spiegare un tale disastro, un disastro mistico, un disastro di mistica, bisogna che un errore di mistica sia stato commesso».
Questo errore è l’aver negato «il meccanismo stesso del cristianesimo». Ossia il fatto che l’Eterno non può raggiungere il cuore dell’uomo se non nel tempo. Che solo lo stupore davanti all’operare della grazia nel tempo, nella carne, può mettere in rapporto il cuore dell’uomo e il cristianesimo. Negando il temporale, misconoscendo l’operare della grazia nel tempo, nel tempo che passa e che è così poca cosa («quando io sono così poco», ripete sempre Clio, la storia) si è misconosciuta la dinamica stessa del fatto cristiano. Ossia che la grazia non può incontrare l’uomo se non brilla nella carne.
Solo un tale peccato mistico spiega la scristianizzazione moderna. Che è di tutt’altra natura rispetto all’incoerenza dei cristiani di sempre.
«Quello che si vuol dire, quello che si sta dicendo, quello che si deve constatare è che ormai c’è un altro mondo, un mondo nuovo, è che c’è un mondo moderno e che questo mondo moderno non è solo un cattivo mondo cristiano, un mondo cattivo cristiano, il che non sarebbe niente, all’apparenza, ma un mondo incristiano, scristianizzato, assolutamente, letteralmente, totalmente incristiano. Ecco cosa si vuole dire. Ecco cosa bisogna dire. Ecco cosa bisogna vedere. Se fosse solo l’altra storia, la vecchia storia, se fossero solo i peccati ad aver risconfinato un’altra volta, non sarebbe niente mio piccolo amico, non sarebbe niente: ci saremmo abituati; ci si è abituati; il mondo ci è abituato. Sarebbe al massimo un cattivo cristianesimo, una cattiva cristianità, un cattivo secolo cristiano, un secolo cattivo cristiano, come tanti altri, dopo tanti altri. Ce ne sono stati tanti. Ne abbiamo visti tanti. Se si conoscesse bene la storia, e comunque come la conosco io, forse si saprebbe, si troverebbe forse che è stato sempre così, che tutti i secoli, tutti quei venti secoli sono sempre stati, sono tutti stati secoli di grande miseria cristiana, di grande miseria mistica, cattivi secoli cristiani, secoli cattivi cristiani. Cioè che il contingente dei santi è stato forse sempre misero, spesso infimo, di fronte ai peccatori, pari ai peccatori, in confronto al contingente dei peccatori [...]. Era questo, ahimè purtroppo, il regime stesso. Erano proprio queste le miserie cristiane. Era questa anche la grandezza cristiana. [...] Ma la cosa che non è più regime per nulla […] non è più la media, non è più la norma, ma è precisamente il disastro e la scristianizzazione, è che le nostre stesse miserie non sono più cristiane. La nostra stessa miseria non è più una miseria cristiana. [...] Finché le miserie, finché la miseria era una miseria cristiana, finché le bassezze erano cristiane, finché i vizi facevano dei peccati, finché i crimini facevano delle perdizioni, c’era qualcosa di buono, per così dire. Capisci bene, amico mio, come lo dico, in che senso. C’era speranza; c’era qualcosa, c’era come naturalmente materia per la grazia. [...] Ma quando si parla della scristianizzazione, quando si dice che c’è un mondo moderno e che è perfettamente scristianizzato, totalmente incristiano, si vuole dire esattamente che ha rinunciato a tutto il sistema, nell’insieme, che si muove interamente fuori dal sistema, non si vuole dire altro che la rinuncia di tutti a tutto il cristianesimo. [...] Ma la cosa interessante, la cosa nuova, è che non c’è assolutamente più cristianesimo. Ecco esattamente non solo l’estensione, ma la natura e come la specie del disastro. Quando i cattolici saranno disposti a vederlo, solo a misurarlo, a confessarlo, quando saranno disposti a riconoscerlo, e ad accorgersi da dove viene, quando avranno, loro, rinunciato a quella debolezza di diagnosi, allora, ma solo allora potranno forse fare qualcosa di utile, allora, ma solo allora non saranno più inerti, essi stessi degli spostati. E ne parleremo, forse, se ne potrà parlare. Ma la cosa che non vogliono riconoscere, la novità, è che [...] questo mondo, questa società, questo moderno si sia costituito interamente esteriormente, interamente al di fuori del cristianesimo. Perché qui non si tratta più di difficoltà interne, ma al contrario di un’esteriorità completa e comunque non di difficoltà esterna, che sarebbero ancora delle relazioni, dei legami, delle legature, ma al contrario di un’assenza completa di relazioni, di legami, di legature, e anche, in realtà, di difficoltà, un’assenza molto particolare, quindi, e estremamente inquietante, inquietante al grado estremo, un’indipendenza mutua e reciproca, una stranezza, un’estraneità particolare. Abbiamo visto costituirsi sotto i nostri occhi, se non fondarsi, abbiamo visto istituirsi, vivere, accomodarsi, stabilirsi, funzionare un mondo, una società, non dico affatto una città, perfettamente vivibile e interamente incristiana. Bisogna confessarlo, bisogna confessarlo. Guai a chi la nega. E come il mondo aveva visto, come io avevo visto, io, la storia, avevo visto mondi interi, umanità intere vivere e prosperare prima di Gesù, così abbiamo il dolore di vedere mondi interi, umanità intere vivere e prosperare dopo Gesù. Senza Gesù gli uni e gli gli altri. […] Abbiamo visto per primi, per primi dopo Gesù, vediamo tutti i giorni nascere e crescere, crescere e non decrescere, prosperare e non deperire, nascere e non morire se non una città, almeno un mondo intero, una società intera incristiana, postcristiana. Ma c’è un abisso, tra l’uno e l’altro c’è un abisso».
L’empietÀ DEI CHIERICI
L’errore mistico «da cui viene il disastro
che abbiamo sotto gli occhi» si alimenta nella volontà di
potere degli ecclesiastici. Se il cristianesimo è un avvenimento di
grazia, un’operazione della grazia che accade nel tempo, è
qualcosa di totalmente libero, gratuito. Nessuno può pretendere di
crearlo e possederlo. Se al contrario, il cristianesimo coincide sic et simpliciter con delle
verità eterne, chi conosce per mestiere queste verità
può pensare di dominare i poveretti, che devono imparare queste
verità e metterle in pratica. Così i chierici da una parte
negano la natura e le dimensioni della catastrofe del cristianesimo nel
mondo moderno; dall’altra, preoccupati della moralità altrui
perché inappagati, danno la colpa ai tempi cattivi e non cessano di
condannare con rancore il mondo moderno.
«Lamentarsi e inveire è il loro forte […]. Essi brontolano, mugugnano, rimbrottano. […] Sono di cattivo umore, e, quel che è peggio, hanno l’umore cattivo. [...] Il minimo che si possa dire è che la loro proprietà, la proprietà di questi interventi, è di contrastare sempre l’operare della grazia, di andare contro sempre, con una sorta di terrificante pazienza. Camminano nei giardini della grazia con una brutalità terrificante. In questa terra mutevole, in questa terra benedetta, in questa terra di grazia ogni loro passo segna, calpestano le aiuole regolari, affondano i talloni, sollevano zolle di terra. Si direbbe che siano ingaggiati per questo. […] Si direbbe che il loro unico proposito sia di sabotare i giardini eterni. Che non abbiano che un pensiero nel tempo, che è quello di impedire, appena ne vedono, qualche fioritura, la fioritura della santità, la nascita dei frutti della santità. Che non abbiano altro obiettivo nella vita, i ragazzi. Ci riescono anche troppo. Non bisogna dire che è pericoloso, bisogna dire che è terrificante. E quando si pensa che non fanno altro dall’inizio del mondo; non si adoperano per altro fin dall’apertura dei tempi. Di una brutalità, di un’indiscrezione terrificante, anche e soprattutto nei confronti della grazia, e (naturalmente con questo) parlano sempre di discrezione; lasciando liberi sempre i loro piedi terrosi (non dico terreni, non dico terrestri) sono come piedi di elefanti lasciati liberi nei giardini del Signore. Così i curati lavorano per demolire il poco che resta. Ci riescono bene. Da nessuna parte, come là, riescono meglio. Ma bisogna rendergli atto che là loro lavorano attivamente. Si comportano come sterratori in un giardino; ancora, mettono in un giardino imprese di demolizione. E soprattutto quando Dio, attraverso il ministero della grazia, lavora le anime, loro non mancano, non mancano mai di credere, questi buoni curati, che Dio non pensa che a loro, che non lavora che per loro, che lavora, che pensa unicamente a loro, per loro, spesso a e per il loro vantaggio temporale, qualche volta anche, spesso anche a e per la loro dominazione temporale».
Nel deserto, infami parodie
La conseguenza di questo, Péguy la esprime con una sola espressione che ricorre più volte nel monologo di Clio: «non c’è più nulla». Se si nega questo legame, questo rapporto tra la grazia e la carne, tra l’eterno e il temporale, «non c’è più nulla».
«Smontato il congegno, messo fuori fase l’incastro, messo fuori asse, spostato, tutto cade. Tutto ciò che sta al centro è questo. Il coinvolgimento del temporale nell’eterno e dell’eterno nel temporale. Tolto il coinvolgimento non c’è più niente. Non c’è più un mondo da salvare. Non ci sono più anime da salvare. Non c’è più alcun cristianesimo. Resta spostato anche lui, smontato dalla sua stessa tecnica, da tutto quello che costituisce la sua tecnica propria. Non c’è più né tentazione, né salvezza, né prova, né passaggio, né tempo, né niente. Non c’è più né redenzione, né incarnazione, e neanche la creazione. Non ci sono più né Ebrei né Cristiani. Non ci sono più né promesse, né il mantenimento delle promesse, il compimento delle promesse, le promesse mantenute. Non c’è più cristianesimo, non c’è più niente. Non ci sono più antecedenze né fatti, i compimenti e i coronamenti. Non c’è più l’operare della grazia. Non ci sono più le promesse e i compimenti, il lento disporsi lungo il tempo, lungo la storia. L’incamminarsi e il raggiungere, l’ottenere. […]
Cade tutto. Non c’è più cristianesimo né niente. Ci sono solo cocci senza nome, materiali senza forma, calcinacci e rovine; rovine informi, cumuli e macerie, mucchi e affastellamenti; scompigli, disastri, come quello che abbiamo sotto gli occhi; vergognose contraffazioni, imitazioni amorfe, immagini scandalose, parodie infami. Delle eresie grottesche. Non vi è più il cristianesimo; non vi è più questa storia meravigliosa, unica, straordinaria, inverosimile, eterna temporale eterna, divina umana divina, quel punto d’intersezione, quell’incontro meraviglioso, unico, del temporale nell’eterno, e reciprocamente dell’eterno nel temporale, del divino nell’umano e mutualmente dell’umano nel divino. [...] Ecco, amico mio, ecco il cristianesimo. Ecco il cristianesimo. Di quello vero. Il resto, amico mio, tutto il resto, va beh, andiamo caro Alphandéry, diciamo che tutto il resto è ottimo per la storia delle religioni. È questa legatura, eterna, temporale, più ancora che questa legatura, quell’incastro perfetto, quell’inversione, quell’incrostazione dell’uno nell’altro; come questa incrocificazione dell’uno nell’altro; che fa il cristianesimo. Tutto il resto rimane un’eccellente materia di insegnamento».
La tragedia degli ultimi decenni nella Chiesa è stata questa. La riduzione del cristianesimo a simboli religiosi per trasmettere un’etica. Tutta la Chiesa, fin nei suoi capillari, ridotta a un’immensa scuola d’insegnamento.
Come ha fatto GesÙ
Il cronachista Péguy, che descrive le cose come
stanno, descrive anche le possibilità di miracolo che si affacciano
sul reale. Davanti alla catastrofe del cristianesimo nella
modernità, la possibilità che si affaccia sul presente
Péguy la suggerisce descrivendo l’inizio, raccontando cosa ha
fatto Gesù quando è venuto. Anche allora i tempi erano
cattivi.
«C’erano anche delle analogie sconvolgenti tra il tempo dei Romani e il nostro; tra il tempo romano e il tempo che è divenuto il tempo moderno; più che delle somiglianze, più che delle analogie singolari; come uno stesso andamento; una stessa indicazione; uno stesso avvio. Si può dire che nel mondo romano era tutto pronto, che tutto era pronto a partire, tutto era come allestito, realmente allestito, in quel culmine della dominazione romana, e in quella realizzazione della pace romana, in quell’Impero, in quella pacificazione imperiale di tutto il Mediterraneo, [...] affinché il mondo moderno partisse allora, invece di oggi; si trattava dello stesso disordine e dello stesso tipo di disintelligenza. Era tutto preparato. Ma venne Gesù. Doveva fare tre anni. Fece i suoi tre anni. Ma non perse i suoi tre anni, non li usò per frignare e per invocare i mali dei tempi. Eppure c’erano i mali dei tempi, del suo tempo. Arrivava il mondo moderno, era pronto. E lui tagliò (corto). Oh, in modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Mettendoci in mezzo il mondo cristiano.
Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò.
Non incriminò il mondo. Salvò il mondo.
Questi (altri) vituperano, raziocinano, incriminano. Medici ingiuriosi che se la prendono con il malato. Accusano le sabbie del secolo, ma anche al tempo di Gesù c’erano il secolo e le sabbie del secolo. Ma sulla sabbia arida, sulla sabbia del secolo scorreva una fonte, una fonte inesauribile di grazia».
Oggi, come allora, l’unica possibilità è che nel deserto accada la salvezza. Può accadere che il cuore dell’uomo, toccato dalla grazia, si stupisca. Basta una cosa così, e il cristianesimo rinasce. Solo da lì, tutto può ripartire. E questa è un’operazione misteriosa – spiega Péguy – che «afferra gli uomini uno per uno, singulos homines». È un «evento molecolare», che non pretende di cambiare meccanicamente e con colpi di teatro la superficie della civiltà, della convivenza sociale, della vita pubblica.
«Dopo la venuta e la morte di Cristo, bambino mio, che è venuto, che è nonostante tutto venuto per salvare il mondo. Dopo la nascita, la Natività, dopo l’incarnazione, dopo la predicazione, dopo la redenzione, dopo la lancia e la croce. Dopo tanti misteri il mondo, purtroppo, il mondo, si vede bene, non è sensibilmente cambiato. Dopo quella storia unica, che doveva rinnovare il mondo, (rinnovare, no, salvare, che, per parlare precisamente, con proprietà, ha tutt’altro senso), dopo quella storia unica il volto del mondo non è stato affatto sensibilmente modificato, la storia del mondo non è stata affatto sensibilmente cambiata. Intendo di fuori, superficialmente, pubblicamente e per così dire storicamente. […] Il di fuori per così dire della faccia del mondo non è stato affatto sensibilmente modificato. Il di fuori della storia del mondo non è stato affatto sensibilmente cambiato. [...] Dopo come prima ci sono stati guai terribili, davvero terribili, sfortune estreme, miserie supreme, pesti peggio che ad Atene, guerre spaventose, odi spaventosi, impurità spaventose; e l’uomo ha detestato l’uomo, spaventosamente, e l’uomo ha massacrato l’uomo. Il cristiano, il cristianesimo, la cristianità, la cristianizzazione, l’avvenimento cristiano, l’operazione cristiana è un’operazione molecolare, interna, istologica, un avvenimento molecolare, che spesso ha lasciato intatte le cortecce dell’avvenimento».
Péguy non ha questo problema psicologico. Tutta la sua vicenda personale, le amicizie, il suo itinerario esistenziale sono immersi di fatto nella modernità, e così non ha il problema psicologico di come entrare in rapporto con la modernità.
Giovane militante repubblicano e socialista, fondatore di una rivista, i Cahiers de la Quinzaine, frequentata da atei, agnostici e liberi pensatori, quando Péguy ritrova la fede cristiana, non vive questo fatto come un’abiura della propria vita fino ad allora trascorsa in partibus infidelium. Scriverà di questo suo itinerario: «È per un approfondimento del nostro cuore sul medesimo cammino, e non è affatto per un’evoluzione, né per un ripensamento, che abbiamo trovato la strada del cristianesimo. Non l’abbiamo trovata grazie a un ritorno. Piuttosto, l’abbiamo rinvenuta al termine. Ed è per questo, occorre che lo si sappia bene dall’una e dall’altra parte, che non rinnegheremo mai un solo atomo del nostro passato».
Per Péguy la fede cristiana è un inizio di grazia. Un fatto che si può solo raccontare, quando accade. Péguy non è un filosofo o un teologo che tenta di interpretare la modernità, per dedurne strategie di nuova evangelizzazione. Semplicemente, è uno che guarda e registra e descrive ciò che accade. In una delle sue opere polemiche più attuali, Un nouveau théologien: M. Ferdinand Laudet, Péguy dice di sé: «Io sono un cronachista e non voglio essere altro che un cronachista».
Questa è una premessa importante per leggere Véronique. Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle, opera che in Italia verrà pubblicata nella sua versione integrale dalla casa editrice Donzelli nei primi mesi del prossimo anno.
IL BAMBINO E IL GENIO
Alcune immagini del film di Roberto Benigni La vita è bella
«Egli [Victor Hugo] non vedeva il mondo con uno sguardo abituato […]. Tutto il problema di un genio è proprio qui, […] guadagnare, acquisire mestiere, mio Dio sì, ma soprattutto, ma essenzialmente non perdere in stupore e in novità, non perdere questo fiore, se possibile non perdere un atomo di stupore. È il primo che conta. È lo stupore che conta […]. Il vecchio Hugo, amico mio, vedeva il mondo come se fosse stato appena fatto».
Péguy aggiunge che questo modo di guardare le cose «purtroppo non è dato a tutti». Ma allo stesso tempo coincide con la condizione naturale in cui Dio crea gli esseri umani, la condizione di apertura creaturale propria del bambino. Introducendo il paragone tra il genio e il bambino, Péguy insiste che «tra i due il rapporto è tale che è certamente il genio che bisogna riferire al bambino, e non è affatto il bambino che bisogna riferire al genio; non sarebbe affatto fargli un grande onore». Perché nel genio accade «eccezionalmente» ciò che nel bambino accade «metafisicamente e naturalmente». L’educazione dovrebbe offrire umilmente un aiuto, innanzitutto di esempio, a permanere nella condizione in cui Dio crea, la condizione del bambino per cui solo lo stupore conta. E invece, dice Péguy, tutta l’educazione, tutta la pedagogia si concepisce come tentativo di potere, di «dominazione» per strappare il bambino da quella condizione creaturale di apertura in cui viene al mondo. Sono quelli che Péguy descrive come «i nostri invecchiamenti artificiali, pedagogici, i nostri insegnamenti»:
«Tramite la riduzione della parola di bimbo alla parola del genio, del puro bambino al genio lo facciamo rientrare meglio in noi stessi (obiettivo ultimo del pedagogo pubblico e del pedagogo occulto, occulto desiderio di dominazione dell’uomo), facciamo meglio rientrare ciò che eccede, noi facciamo meglio rientrare il caso bambino nel caso uomo. [...] Noi lo riduciamo, e questo è il sogno segreto della dominazione dell’uomo dominatore e del pedagogo, essenza di dominatore, inserito in ogni uomo; d’altra parte noi lo sopprimiamo».
VÉRONIQUE
Il testo Véronique. Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle è stato scritto nel 1909 ed è il primo testo che Péguy scrive dopo che ha ritrovato la fede e che si scopre cattolico. Ma verrà pubblicato solo postumo, addirittura nel 1955. Dalle notizie che Péguy stesso fornisce nelle sue lettere e nei suoi scritti, si deduce che questo testo faceva parte di una serie di dialoghi che Péguy aveva in programma di scrivere e che avevano per protagonista la storia, rappresentata dalla musa Clio. Péguy stesso, in una lettera all’amico Joseph Lotte, spiega anche il perché di un titolo che fa riferimento alla donna che diede conforto a Gesù sulla via del Calvario:
«Il primo volume si chiamerà Clio, il secondo si chiamerà Véronique. È stupendo vecchio mio: Clio [cioè la storia] passa il suo tempo a cercare tracce, vane tracce, è un’ebrea da niente, una ragazzina, Véronique tira fuori il suo fazzoletto e sul volto di Gesù prende una traccia eterna. Ecco ciò che sbaraglia tutto. Lei si è trovata lì al momento giusto. Clio è sempre in ritardo».
Véronique è l’ebrea che si trova per caso, senza volerlo, lungo il cammino che porta al Calvario, e in un incontro non programmato prende l’impronta del volto di Gesù sul fazzoletto. Ricorrendo alla figura di Véronique, il cronachista Péguy, che vuole solo descrivere «il reale e l’avvenimento», suggerisce il modo in cui l’uomo moderno può diventare cristiano. Non ricercando le tracce della memoria cristiana, che ormai è per lui un passato che non lo riguarda. Ma capitando lì per caso, incontrando per caso qualcosa che lo stupisce.
Venti secoli di cristianesimo, venti secoli di carità, venti secoli di teologia, sono come legno morto, e non possono far felice qui ed ora il cuore degli uomini d’oggi, se non nasce gratuitamente un nuovo germoglio. Se non riaccade lo stupore di un nuovo inizio. La città di Dio, la civitas Dei, dice Péguy, vive solo se accade questo continuo ricominciare, questo continuo nuovo inizio nel tempo. Per dare un’immagine di come ciò può accadere, il poeta di Orléans prende a paragone i grandi movimenti monastici, da Cluny a Cîteaux.
«Perché bisognava ricominciare sempre; (e bisognava ricominciare sempre nel tempo questi ordini, queste opere, queste fondazioni che erano frammenti di eternità, bisognava sempre ricominciare temporalmente quelle fondazioni eterne, di origine eterna, di regola eterna, di intenzione eterna). [...] Cîteaux, Cluny, Vézelay, le tre regine, queste città ospitavano questi esercizi, città di fervore erano incaricate di tenerli ferventi; […] e spesso si intiepidirono, e occorreva ricominciare sempre; la perpetuità spirituale, simbolo dell’eternità, immagine della perpetuità eterna, si conservava solo attraverso riinizi temporali, attraverso precarie, temporanee riprese».
Le opere umane, le opere di civiltà che l’esperienza monastica quasi senza accorgersene costruiva, erano come la dimora della storia di grazia, ed erano alimentate solo dal rinnovarsi, nel tempo, di fatti di grazia:
«Bisognava ricominciare sempre. Solo dei ricominciamenti temporali assicuravano, solo potevano assicurare non una continuità, una continuazione, (una parvenza di continuazione?) della regola eternamente perpetua».
Questo innesto dell’eterno nel tempo, questo riaccadere temporale della grazia, dell’inizio di grazia, è – dice Péguy – il meccanismo proprio del cristianesimo:
«Bisognava sempre ricominciare. Una fondazione eterna, d’origine eterna, non impediva affatto, una fondazione, una captazione della fonte eterna, captatio aeterni fontis non esonerava affatto da dover sempre ricominciare temporalmente. Una eternità di fondazione, ab ordine aeterne condito, non impediva affatto, non esonerava affatto che nel tempo e in un certo senso nel secolo bisognasse sempre ricominciare. Nessuna eternità di fondazione impedisce che la fondazione sia in un certo senso nel secolo, che l’eternità sia in un certo senso nel tempo; ecco il mio valore [è la storia a parlare], ecco la mia potenza, ecco la mia virtù; io sono, io costituisco un pezzo indispensabile nel meccanismo, nell’organismo stesso dell’eternità stessa; un pezzo complementare; certo non un pezzo, il pezzo essenziale, ma neanche un pezzo solo accidentale; un pezzo di istituzione, di creazione nel gioco, del meccanismo, nel funzionamento, dell’organismo stesso dell’eternità stessa. Non solo il rovescio del dritto, una storia effimera di cui non bisogna affatto parlare; non c’è bisogno di parlarne, non ne vale la pena, tanto dura poco. Ma un pezzo complementare indispensabile, un pezzo di istituzione e di creazione stessa, come il resto, tanto quanto il resto, eterno quanto il resto in un certo senso, un pezzo non solo inevitabile, ma indispensabile, senza il quale niente funzionerebbe più, senza il quale il meccanismo stesso, della creazione, non funzionerebbe più, non camminerebbe più, sarebbe tutt’altro, non sarebbe più, senza il quale questo organismo non fungerebbe più; non vivrebbe più questa vita; vivrebbe una vita tutta diversa; non vivrebbe più. [...] Altrimenti, allora, non ne varrebbe la pena; la prova terrestre, il passaggio d’invecchiamento, la prova terrena, la pena sarebbe vana, inutile; sarebbe un pezzo di troppo, un pezzo supererogatorio; non solo un pezzo che funziona a falso, ma, il che è peggio, un pezzo che funziona a vuoto; un pezzo inutile; un pezzo considerevole inutile. Altrimenti, allora, non ne varrebbe la pena. Sarebbe subito il regno di Dio e non questa città di Dio. [...] Sarebbe stata l’eternità subito. E allora io la storia non esisterei. Io la temporalità».
LANATURA DELLASCRISTIANIZZAZIONE
«Ecco quello che dimenticano troppo, quello che perdono di vista di solito i nostri chierici, e coloro che vivono nella regola, e anche coloro che vivono nel secolo. Nella loro ignoranza del secolo (temporale) c’è tanta empietà; in questa ignoranza, più o meno volontaria, più o meno involontaria; più o meno inconsapevole, ma di solito molto consapevole; in quel disprezzo più o meno esibito; tanto orgoglio di sicuro e tanta pigrizia; che sono due peccati capitali; ma, cosa (ancora) più grave, di certo infinitamente più grave, tanta empietà. [...] Ciò costituisce invece una grossa eresia, forse la più grossa di tutte, perché ingloba tutte le altre; [...] questa è la loro idea nascosta, ed è bacata nel cuore stesso, nel fondo stesso della loro preghiera; […] ciò a cui rinunciano non è inferiore a tutto quello che costituisce il prezzo, il segreto, il mistero, il valore del cristianesimo, che loro servono; perché non fanno altro che abolire, annullare, sopprimere, cancellare dalla faccia della terra, obliterare, distruggere (delea(n)tur), sopprimere (dalla creazione dunque, e anche dall’eternità) non soltanto forse quello che ne è, ciò che ne costituisce il succo e la linfa e il midollo, ma quello che comunque ne è una condizione essenziale e sine qua non; [...] una parte integrante; non certo essenziale, ma proprio come se lo fosse; quasi di più, più che essenziale, si potrebbe dire; direi la più curiosa, se non fosse un’empietà dire [...] ma dirò, posso dire, sono in diritto di dire la parte più commovente, sicuramente la più commovente; la parte che è inquieta; e quella che costituisce tutta la (sola) parte di fermentazione; la parte che non è più solo il sale della terra, ma il sale dello stesso cielo, il fermento, il lievito del pane celeste. Tolgono la chiave dalla porta; e la porta senza serratura e senza chiave resta solo una parete. Tolgono il prezzo, ciò che costituisce la posta, della scommessa, il saldo, del gioco, tutto ciò che costituisce il premio e il valore e la posta stessa e l’oggetto della salvezza. Tolgono, censurano il mistero stesso della creazione, e ci arrivano solo togliendo i pezzi grossi, i misteri essenziali. Tolgono la creazione, l’incarnazione, la redenzione; il merito, la salvezza, il premio della salvezza; il giudizio e qualcos’altro; e naturalmente e soprattutto la grazia; più di ogni mistero il mistero e l’operare della grazia».
Un errore di mistica
La natura propria della scristianizzazione, la sua radice consiste nel «togliere il mistero e l’operare della grazia». Si potrebbero indicare – nota Péguy – tanti fattori teorici e pratici (politici, sociali, culturali, educativi) per spiegare come ciò è potuto accadere. Ma...
«Tutte queste cause insieme non significherebbero niente. [...] Non sarebbero affatto dello stesso ordine del proprio effetto. Per spiegare [...] un disastro di quell’ordine, bisogna che sia stato commesso un errore dello stesso ordine. Per spiegare un tale disastro, un disastro mistico, un disastro di mistica, bisogna che un errore di mistica sia stato commesso».
Questo errore è l’aver negato «il meccanismo stesso del cristianesimo». Ossia il fatto che l’Eterno non può raggiungere il cuore dell’uomo se non nel tempo. Che solo lo stupore davanti all’operare della grazia nel tempo, nella carne, può mettere in rapporto il cuore dell’uomo e il cristianesimo. Negando il temporale, misconoscendo l’operare della grazia nel tempo, nel tempo che passa e che è così poca cosa («quando io sono così poco», ripete sempre Clio, la storia) si è misconosciuta la dinamica stessa del fatto cristiano. Ossia che la grazia non può incontrare l’uomo se non brilla nella carne.
Solo un tale peccato mistico spiega la scristianizzazione moderna. Che è di tutt’altra natura rispetto all’incoerenza dei cristiani di sempre.
«Quello che si vuol dire, quello che si sta dicendo, quello che si deve constatare è che ormai c’è un altro mondo, un mondo nuovo, è che c’è un mondo moderno e che questo mondo moderno non è solo un cattivo mondo cristiano, un mondo cattivo cristiano, il che non sarebbe niente, all’apparenza, ma un mondo incristiano, scristianizzato, assolutamente, letteralmente, totalmente incristiano. Ecco cosa si vuole dire. Ecco cosa bisogna dire. Ecco cosa bisogna vedere. Se fosse solo l’altra storia, la vecchia storia, se fossero solo i peccati ad aver risconfinato un’altra volta, non sarebbe niente mio piccolo amico, non sarebbe niente: ci saremmo abituati; ci si è abituati; il mondo ci è abituato. Sarebbe al massimo un cattivo cristianesimo, una cattiva cristianità, un cattivo secolo cristiano, un secolo cattivo cristiano, come tanti altri, dopo tanti altri. Ce ne sono stati tanti. Ne abbiamo visti tanti. Se si conoscesse bene la storia, e comunque come la conosco io, forse si saprebbe, si troverebbe forse che è stato sempre così, che tutti i secoli, tutti quei venti secoli sono sempre stati, sono tutti stati secoli di grande miseria cristiana, di grande miseria mistica, cattivi secoli cristiani, secoli cattivi cristiani. Cioè che il contingente dei santi è stato forse sempre misero, spesso infimo, di fronte ai peccatori, pari ai peccatori, in confronto al contingente dei peccatori [...]. Era questo, ahimè purtroppo, il regime stesso. Erano proprio queste le miserie cristiane. Era questa anche la grandezza cristiana. [...] Ma la cosa che non è più regime per nulla […] non è più la media, non è più la norma, ma è precisamente il disastro e la scristianizzazione, è che le nostre stesse miserie non sono più cristiane. La nostra stessa miseria non è più una miseria cristiana. [...] Finché le miserie, finché la miseria era una miseria cristiana, finché le bassezze erano cristiane, finché i vizi facevano dei peccati, finché i crimini facevano delle perdizioni, c’era qualcosa di buono, per così dire. Capisci bene, amico mio, come lo dico, in che senso. C’era speranza; c’era qualcosa, c’era come naturalmente materia per la grazia. [...] Ma quando si parla della scristianizzazione, quando si dice che c’è un mondo moderno e che è perfettamente scristianizzato, totalmente incristiano, si vuole dire esattamente che ha rinunciato a tutto il sistema, nell’insieme, che si muove interamente fuori dal sistema, non si vuole dire altro che la rinuncia di tutti a tutto il cristianesimo. [...] Ma la cosa interessante, la cosa nuova, è che non c’è assolutamente più cristianesimo. Ecco esattamente non solo l’estensione, ma la natura e come la specie del disastro. Quando i cattolici saranno disposti a vederlo, solo a misurarlo, a confessarlo, quando saranno disposti a riconoscerlo, e ad accorgersi da dove viene, quando avranno, loro, rinunciato a quella debolezza di diagnosi, allora, ma solo allora potranno forse fare qualcosa di utile, allora, ma solo allora non saranno più inerti, essi stessi degli spostati. E ne parleremo, forse, se ne potrà parlare. Ma la cosa che non vogliono riconoscere, la novità, è che [...] questo mondo, questa società, questo moderno si sia costituito interamente esteriormente, interamente al di fuori del cristianesimo. Perché qui non si tratta più di difficoltà interne, ma al contrario di un’esteriorità completa e comunque non di difficoltà esterna, che sarebbero ancora delle relazioni, dei legami, delle legature, ma al contrario di un’assenza completa di relazioni, di legami, di legature, e anche, in realtà, di difficoltà, un’assenza molto particolare, quindi, e estremamente inquietante, inquietante al grado estremo, un’indipendenza mutua e reciproca, una stranezza, un’estraneità particolare. Abbiamo visto costituirsi sotto i nostri occhi, se non fondarsi, abbiamo visto istituirsi, vivere, accomodarsi, stabilirsi, funzionare un mondo, una società, non dico affatto una città, perfettamente vivibile e interamente incristiana. Bisogna confessarlo, bisogna confessarlo. Guai a chi la nega. E come il mondo aveva visto, come io avevo visto, io, la storia, avevo visto mondi interi, umanità intere vivere e prosperare prima di Gesù, così abbiamo il dolore di vedere mondi interi, umanità intere vivere e prosperare dopo Gesù. Senza Gesù gli uni e gli gli altri. […] Abbiamo visto per primi, per primi dopo Gesù, vediamo tutti i giorni nascere e crescere, crescere e non decrescere, prosperare e non deperire, nascere e non morire se non una città, almeno un mondo intero, una società intera incristiana, postcristiana. Ma c’è un abisso, tra l’uno e l’altro c’è un abisso».
L’empietÀ DEI CHIERICI
«Lamentarsi e inveire è il loro forte […]. Essi brontolano, mugugnano, rimbrottano. […] Sono di cattivo umore, e, quel che è peggio, hanno l’umore cattivo. [...] Il minimo che si possa dire è che la loro proprietà, la proprietà di questi interventi, è di contrastare sempre l’operare della grazia, di andare contro sempre, con una sorta di terrificante pazienza. Camminano nei giardini della grazia con una brutalità terrificante. In questa terra mutevole, in questa terra benedetta, in questa terra di grazia ogni loro passo segna, calpestano le aiuole regolari, affondano i talloni, sollevano zolle di terra. Si direbbe che siano ingaggiati per questo. […] Si direbbe che il loro unico proposito sia di sabotare i giardini eterni. Che non abbiano che un pensiero nel tempo, che è quello di impedire, appena ne vedono, qualche fioritura, la fioritura della santità, la nascita dei frutti della santità. Che non abbiano altro obiettivo nella vita, i ragazzi. Ci riescono anche troppo. Non bisogna dire che è pericoloso, bisogna dire che è terrificante. E quando si pensa che non fanno altro dall’inizio del mondo; non si adoperano per altro fin dall’apertura dei tempi. Di una brutalità, di un’indiscrezione terrificante, anche e soprattutto nei confronti della grazia, e (naturalmente con questo) parlano sempre di discrezione; lasciando liberi sempre i loro piedi terrosi (non dico terreni, non dico terrestri) sono come piedi di elefanti lasciati liberi nei giardini del Signore. Così i curati lavorano per demolire il poco che resta. Ci riescono bene. Da nessuna parte, come là, riescono meglio. Ma bisogna rendergli atto che là loro lavorano attivamente. Si comportano come sterratori in un giardino; ancora, mettono in un giardino imprese di demolizione. E soprattutto quando Dio, attraverso il ministero della grazia, lavora le anime, loro non mancano, non mancano mai di credere, questi buoni curati, che Dio non pensa che a loro, che non lavora che per loro, che lavora, che pensa unicamente a loro, per loro, spesso a e per il loro vantaggio temporale, qualche volta anche, spesso anche a e per la loro dominazione temporale».
Nel deserto, infami parodie
La conseguenza di questo, Péguy la esprime con una sola espressione che ricorre più volte nel monologo di Clio: «non c’è più nulla». Se si nega questo legame, questo rapporto tra la grazia e la carne, tra l’eterno e il temporale, «non c’è più nulla».
«Smontato il congegno, messo fuori fase l’incastro, messo fuori asse, spostato, tutto cade. Tutto ciò che sta al centro è questo. Il coinvolgimento del temporale nell’eterno e dell’eterno nel temporale. Tolto il coinvolgimento non c’è più niente. Non c’è più un mondo da salvare. Non ci sono più anime da salvare. Non c’è più alcun cristianesimo. Resta spostato anche lui, smontato dalla sua stessa tecnica, da tutto quello che costituisce la sua tecnica propria. Non c’è più né tentazione, né salvezza, né prova, né passaggio, né tempo, né niente. Non c’è più né redenzione, né incarnazione, e neanche la creazione. Non ci sono più né Ebrei né Cristiani. Non ci sono più né promesse, né il mantenimento delle promesse, il compimento delle promesse, le promesse mantenute. Non c’è più cristianesimo, non c’è più niente. Non ci sono più antecedenze né fatti, i compimenti e i coronamenti. Non c’è più l’operare della grazia. Non ci sono più le promesse e i compimenti, il lento disporsi lungo il tempo, lungo la storia. L’incamminarsi e il raggiungere, l’ottenere. […]
Cade tutto. Non c’è più cristianesimo né niente. Ci sono solo cocci senza nome, materiali senza forma, calcinacci e rovine; rovine informi, cumuli e macerie, mucchi e affastellamenti; scompigli, disastri, come quello che abbiamo sotto gli occhi; vergognose contraffazioni, imitazioni amorfe, immagini scandalose, parodie infami. Delle eresie grottesche. Non vi è più il cristianesimo; non vi è più questa storia meravigliosa, unica, straordinaria, inverosimile, eterna temporale eterna, divina umana divina, quel punto d’intersezione, quell’incontro meraviglioso, unico, del temporale nell’eterno, e reciprocamente dell’eterno nel temporale, del divino nell’umano e mutualmente dell’umano nel divino. [...] Ecco, amico mio, ecco il cristianesimo. Ecco il cristianesimo. Di quello vero. Il resto, amico mio, tutto il resto, va beh, andiamo caro Alphandéry, diciamo che tutto il resto è ottimo per la storia delle religioni. È questa legatura, eterna, temporale, più ancora che questa legatura, quell’incastro perfetto, quell’inversione, quell’incrostazione dell’uno nell’altro; come questa incrocificazione dell’uno nell’altro; che fa il cristianesimo. Tutto il resto rimane un’eccellente materia di insegnamento».
La tragedia degli ultimi decenni nella Chiesa è stata questa. La riduzione del cristianesimo a simboli religiosi per trasmettere un’etica. Tutta la Chiesa, fin nei suoi capillari, ridotta a un’immensa scuola d’insegnamento.
Come ha fatto GesÙ
«C’erano anche delle analogie sconvolgenti tra il tempo dei Romani e il nostro; tra il tempo romano e il tempo che è divenuto il tempo moderno; più che delle somiglianze, più che delle analogie singolari; come uno stesso andamento; una stessa indicazione; uno stesso avvio. Si può dire che nel mondo romano era tutto pronto, che tutto era pronto a partire, tutto era come allestito, realmente allestito, in quel culmine della dominazione romana, e in quella realizzazione della pace romana, in quell’Impero, in quella pacificazione imperiale di tutto il Mediterraneo, [...] affinché il mondo moderno partisse allora, invece di oggi; si trattava dello stesso disordine e dello stesso tipo di disintelligenza. Era tutto preparato. Ma venne Gesù. Doveva fare tre anni. Fece i suoi tre anni. Ma non perse i suoi tre anni, non li usò per frignare e per invocare i mali dei tempi. Eppure c’erano i mali dei tempi, del suo tempo. Arrivava il mondo moderno, era pronto. E lui tagliò (corto). Oh, in modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Mettendoci in mezzo il mondo cristiano.
Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò.
Non incriminò il mondo. Salvò il mondo.
Questi (altri) vituperano, raziocinano, incriminano. Medici ingiuriosi che se la prendono con il malato. Accusano le sabbie del secolo, ma anche al tempo di Gesù c’erano il secolo e le sabbie del secolo. Ma sulla sabbia arida, sulla sabbia del secolo scorreva una fonte, una fonte inesauribile di grazia».
Oggi, come allora, l’unica possibilità è che nel deserto accada la salvezza. Può accadere che il cuore dell’uomo, toccato dalla grazia, si stupisca. Basta una cosa così, e il cristianesimo rinasce. Solo da lì, tutto può ripartire. E questa è un’operazione misteriosa – spiega Péguy – che «afferra gli uomini uno per uno, singulos homines». È un «evento molecolare», che non pretende di cambiare meccanicamente e con colpi di teatro la superficie della civiltà, della convivenza sociale, della vita pubblica.
«Dopo la venuta e la morte di Cristo, bambino mio, che è venuto, che è nonostante tutto venuto per salvare il mondo. Dopo la nascita, la Natività, dopo l’incarnazione, dopo la predicazione, dopo la redenzione, dopo la lancia e la croce. Dopo tanti misteri il mondo, purtroppo, il mondo, si vede bene, non è sensibilmente cambiato. Dopo quella storia unica, che doveva rinnovare il mondo, (rinnovare, no, salvare, che, per parlare precisamente, con proprietà, ha tutt’altro senso), dopo quella storia unica il volto del mondo non è stato affatto sensibilmente modificato, la storia del mondo non è stata affatto sensibilmente cambiata. Intendo di fuori, superficialmente, pubblicamente e per così dire storicamente. […] Il di fuori per così dire della faccia del mondo non è stato affatto sensibilmente modificato. Il di fuori della storia del mondo non è stato affatto sensibilmente cambiato. [...] Dopo come prima ci sono stati guai terribili, davvero terribili, sfortune estreme, miserie supreme, pesti peggio che ad Atene, guerre spaventose, odi spaventosi, impurità spaventose; e l’uomo ha detestato l’uomo, spaventosamente, e l’uomo ha massacrato l’uomo. Il cristiano, il cristianesimo, la cristianità, la cristianizzazione, l’avvenimento cristiano, l’operazione cristiana è un’operazione molecolare, interna, istologica, un avvenimento molecolare, che spesso ha lasciato intatte le cortecce dell’avvenimento».