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AFRICA
tratto dal n. 07/08 - 1999

GUERRE DIMENTICATE. Interviene il nunzio apostolico in Etiopia ed Eritrea

Vittime di serie B


Decine di migliaia di morti. Due Paesi poveri, ridotti allo stremo. Nel Corno d’Africa il conflitto continua, ma qui non si parla di ingerenze umanitarie. Intervista con monsignor Silvano M. Tomasi


Intervista con Silvano M. Tomasi di Gianni Cardinale


È una delle tante “guerre dimenticate” che insanguinano l’Africa. Un conflitto che ha mietuto decine di migliaia di vittime senza che i mass media gli dedicassero molta attenzione, anzi... Stiamo parlando della guerra tra Etiopia ed Eritrea, scoppiata ormai più di un anno fa, nel maggio ’98. Una guerra combattuta per disputarsi una piccola zona desertica ricca di giacimenti minerari che costituisce il confine tra i due Paesi, confine che a partire dall’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia del ’91 non è stato mai tracciato in dettaglio. Per gettare uno sguardo su questo angolo particolarmente sfortunato di mondo, 30Giorni ha intervistato l’arcivescovo Silvano M. Tomasi, veneto, dal ’96 nunzio apostolico in Etiopia ed Eritrea e delegato apostolico in Gibuti.
Tomasi, scalabriniano, 59 anni ad ottobre, prima di essere nominato nunzio è stato consultore e dall’89 segretario del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti.
«La Santa Sede» ci dice il presule «è forse l’unica voce nel contesto internazionale a ricordare i gravi problemi dell’Africa in questo momento. Ciò incoraggia le Chiese locali dell’Africa e dà prestigio alla stessa Santa Sede davanti ai governi africani, perché questi ultimi vedono che da parte nostra l’unico interesse è quello di aiutare le popolazioni e di favorire la pace, senza secondi fini».
Eccellenza, quante vittime ha causato questa guerra?
SILVANO M. TOMASI: Dal maggio ’98 ad oggi sul confine Etiopia-Eritrea ci sono state battaglie sporadiche. Non si è trattato di un conflitto continuo, ma è stato comunque cruento. Non ci sono dati certi, ma le vittime sono decine di migliaia. Approssimativamente trenta-quarantamila morti e forse sessantamila feriti. Sono cifre che danno il senso della gravità di questa guerra.
Quale è stato l’atteggiamento della comunità internazionale?
TOMASI: Ha cercato di intervenire in varie forme. Ci ha provato assiduamente l’Organizzazione dell’unità africana (Oua), che ha creato una commissione di capi di Stato per cercare di mediare tra i belligeranti. Poi c’è stata l’iniziativa degli Stati Uniti che hanno mandato un loro rappresentante a fare la spola tra Asmara e Addis Abeba. Un terzo tentativo l’ha fatto Kofi Annan che ha mandato un suo rappresentante, l’ambasciatore Mohamed Sahnoun, per cercare di far applicare la proposta Framework of peace, avanzata appunto dall’Oua e che tutti e due i governi hanno detto di accettare, anche se, di fatto, non hanno ancora iniziato ad analizzarla assieme. Purtroppo sono stati tentativi che non hanno avuto successo. Da parte etiopica si chiede il ritiro delle truppe eritree dai territori che erano amministrati dall’Etiopia prima del maggio ’98. Da parte eritrea si dice: non c’è bisogno di un nostro ritiro, prima ci vuole un cessate il fuoco e poi si tratta sui confini.
Ritiene che la comunità internazionale abbia fatto tutto il possibile?
TOMASI: La comunità internazionale, compresa l’Unione europea, sta tentando di incoraggiare il dialogo. Personalmente ritengo che la strada migliore sia il ritorno al dialogo diretto tra i due governi. I due leader [Meles Zenawi dell’Etiopia e Issaias Afwerki dell’Eritrea] erano amici prima del conflitto, avevano lottato assieme per ottenere democrazia e indipendenza. Adesso dovrebbero riparlarsi per riportare la pace nel Corno d’Africa e facilitare la ripresa dello sviluppo che pure c’era stato nel periodo tra il ’91 e il ’98, dopo la lunga guerra contro Menghistu. La comunità internazionale ha le risorse per poter intervenire. Sta dando degli aiuti molto consistenti a questi due Paesi con dei programmi di sviluppo considerevoli...
Che ruolo gioca il traffico di armi in questo conflitto?
TOMASI: Potrei cavarmela con una battuta: se oggi cessasse l’invio di armi in Africa, stasera non avremmo più guerre. Il problema è più complesso, naturalmente. Alcuni governi infatti dicono: se le armi non le vendiamo noi, lo fa qualcun altro, perché quindi non dobbiamo guadagnarci noi?
Come vengono utilizzati gli aiuti che pure arrivano in Etiopia ed Eritrea?
TOMASI: Etiopia ed Eritrea sono tra i Paesi più poveri del mondo, quindi hanno certamente bisogno di essere aiutati da tutti. Detto questo, bisogna anche osservare che questi aiuti del mondo occidentale sono dati direttamente ai governi, perché queste sono le condizioni poste o dalle legislazioni dei Paesi donatori o dagli accordi fatti con i Paesi che li ricevono. Come poi vengano spesi effettivamente questi soldi forse non è chiarissimo.
Arrivano finanziamenti anche da Paesi islamici? Si tratta in questo caso di aiuti disinteressati?
TOMASI: Sì arrivano. Da 1200 anni l’altopiano abissino è bersaglio di attacchi da parte del vicino mondo islamico. Ma è una regione che si è sempre mantenuta sostanzialmente cristiana. Oggi le nuove Costituzioni di questi due Paesi garantiscono la libertà di culto. Ed è bene che sia così. In questo nuovo contesto si registra un risveglio dell’islam. Finora si è trattato di un risveglio pacifico e la convivenza rimane possibile. Però mi pare legittimo farsi la domanda: è possibile che con una presenza economica molto robusta di forze dichiaratamente identificate come islamiche non ci siano delle conseguenze nella società?
I vescovi etiopici ed eritrei sono stati ricevuti dal Papa a fine aprile in occasione della LIX sessione della loro Conferenza episcopale. Qual è stato il significato di questo appuntamento?
TOMASI: Visto il conflitto esistente, era impossibile per loro incontrarsi in Etiopia o in Eritrea. Per questo sono venuti a Roma. Era la prima volta che si riunivano dall’inizio del conflitto. Hanno trattato una serie di problemi, tra cui i nuovi statuti della Conferenza episcopale...
Continuerà ad esisterne una sola per tutti e due i Paesi?
TOMASI: Sì, hanno deciso così e hanno votato il nuovo presidente che è il vescovo Berhane-Yesus Demerew Souraphiel di Addis Abeba. È stato il gesto di episcopati di due Paesi in guerra tra loro ma che si sentono veramente fratelli. Alla fine hanno reso noto un messaggio – titolato Il dono di Dio della riconciliazione e della pace – indirizzato innanzitutto ai propri fedeli ma anche alle persone di buona volontà di Etiopia ed Eritrea. In questo messaggio invitano chiaramente le due parti a ritornare a parlarsi e a lavorare assieme, e lo fanno tenendo conto dei vincoli storici e culturali, di tradizione e di parentela che legano Etiopia ed Eritrea.
Allargando lo sguardo su tutto il continente, come vede l’attuale situazione dell’Africa?
TOMASI: Siamo in un momento critico di sviluppo. Negli anni Sessanta e Settanta le guerre di indipendenza, pur violente e con molti morti, hanno segnato però un passaggio importante per il continente. Adesso c’è un’altra serie di guerre – in Africa occidentale, nella regione dei Grandi Laghi, in Etiopia ed Eritrea – per stabilizzare in qualche modo la situazione. Nonostante tutte queste tragedie enormi, comunque, c’è anche un cammino parallelo per cercare di costituire una coscienza più estesa del valore della persona e dei diritti umani, un senso di reale partecipazione politica, anche se non nella forma delle democrazie occidentali. Si tratta di un fenomeno molto sotterraneo, quasi dimenticato dalla grande stampa mondiale. Ma c’è. L’Oua sta cercando di prendere più peso in questa fase, di essere più influente attraverso i suoi meccanismi per mantenere la pace. Per esempio nel mese di aprile c’è stata nelle Isole Maurizio la prima riunione a livello ministeriale per stabilire il tribunale africano dei diritti umani e rafforzare la Commissione africana per i diritti umani.
Il cosiddetto primo mondo è interessato a favorire questo sviluppo?
TOMASI: La presenza di tanti missionari, religiose e volontari laici, che vengono dai Paesi sviluppati e che stanno preparando anche la loro successione attraverso la formazione di sacerdoti, suore e giovani locali, è veramente la forza maggiore e più reale del contributo allo sviluppo dell’Africa proveniente dall’Occidente. Perché questa forma di contributo è capillare, cambia il modo di pensare, i cuori della gente a livello di villaggio, e prepara quadri nuovi capaci di gestire il proprio futuro. Certo, sono importanti e indispensabili anche i contributi che vengono dalla Banca mondiale, dal Fondo monetario internazionale, dall’Unione europea, ecc. Ma le macrostrutture, che vengono finanziate con questo tipo di contributi diretti ai governi, se non ai partiti, alla lunga lasciano il tempo che trovano, se non riusciamo a preparare persone che nel loro contesto africano e secondo la loro tradizione prendano in mano la gestione dei loro Paesi, a livello politico, economico, culturale.


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