Condannato onorevole
Mazzini fu eletto deputato dalla città di Messina nel 1866, nonostante fosse in esilio a Londra e su di lui pesasse una condanna a morte per i moti di Genova. In precedenza già per ben due volte era stato eletto nella città siciliana, ma in entrambe le occasioni l’elezione era stata annullata dalla Camera. Il terzo tentativo dei messinesi invece andò a segno, ma non senza polemiche. Ricostruiamo questa vicenda attraverso gli articoli di Unità Cattolica, quotidiano torinese dell’epoca
Attraverso alcuni articoli
del quotidiano torinese Unità Cattolica è possibile ricostruire, sulla base di testimonianze
contemporanee, un
episodio poco conosciuto nella vita di Giuseppe Mazzini. L’anno
è il 1866. La capitale del Regno d’Italia è Firenze e
capo del governo è Alfonso La Marmora, che ha ottenuto la fiducia al
suo dicastero alla fine di febbraio, dopo un mese di acceso dibattito. La
Camera, che si riunisce a Palazzo della Signoria nel Salone dei
Cinquecento, ha appena approvato un trattato di commercio con gli Stati
germanici, preludio all’alleanza con la Prussia. Tutto sembra
tranquillo, quando in un collegio di Messina viene eletto deputato Mazzini,
all’epoca sessantunenne, esule a Londra perché condannato a
morte nel 1858 per i moti genovesi del 1857. La giunta si trova
nell’incertezza se convalidare o respingere l’elezione. Ecco
come commenta il giornale cattolico:

«Ormai la Camera fiorentina è completa: vi mancava Giuseppe
Mazzini, e gli elettori di Messina lo hanno nominato deputato, il 25
febbraio 1866, con quattrocentoquarantasei voti. Tutte le arti e tutte le precauzioni non sono valse a
nulla: Mazzini dovea entrare nella Camera, ed è entrato. Il pericolo
fu scongiurato a Genova, scongiurato a Napoli; ma non si poté
scongiurare in Sicilia. La Marmora si oppose a Pio IX che volea dare un
vescovo alla diocesi vacante di Messina; ed oggi La Marmora de’
vedere Messina eleggersi per deputato Giuseppe Mazzini. Il presidente del
Ministero non vuole il Papa che comandi in Italia, ed è costretto a
vedere il peggiore dei demagoghi mandato a dettar leggi agl’Italiani.
Venga poi il La Marmora a ripetere che l’Italia non è in
rivoluzione; i quattrocentoquarantasei voti di Messina gli danno una fiera smentita […].
E questa elezione dovea necessariamente avvenire, e gli elettori di Messina
sono i più logici di tutti gli elettori. L’Italia presente
è il frutto degli studii, degli scritti, delle imprese mazziniane; e
volete Mazzini in esilio? Egli ha diritto di venire in Italia, di parlare a
Firenze, come deputato, anzi di comandare in qualità di ministro.
Mazzini dee occupare il posto del generale La Marmora, e
l’occuperà a suo tempo. E sapete chi gli preparerà la
strada? Lo stesso La Marmora. Le sue opposizioni al Pontefice, le sue
guerre agli ordini religiosi, i suoi epigrammi alla stampa cattolica, i
suoi progetti di incameramento, i suoi amplessi ai Vacca, ai Natoli, ai
Chiaves, sono un lavoro continuo da consegnare l’Italia in potere ai
mazziniani […]. Che Giuseppe Mazzini esce oggidì vittorioso
dall’urna elettorale, quando il Ministero può concentrare
tutta la sua attività, tutte le sue arti, tutta la sua influenza in
un solo collegio, che avverrebbe mai qualora il Gabinetto sciogliesse la
Camera e si dovesse procedere a nuove elezioni generali? Messina ha
distrutto l’ultima speranza del La Marmora, ed ha coronato la
vittoria dei mazziniani e dei garibaldini […]. L’elezione di
Giuseppe Mazzini avvenuta a Messina gli permette fin d’ora di venire
liberamente in Italia, imperocché un deputato gode
dell’inviolabilità appena viene proclamato nel collegio che lo
elesse, e non la perde se la Camera non annulla l’elezione. Nel 1849,
essendo stato eletto in Genova Didaco Pellegrini, che trovavasi in
prigione, la Camera ordinò subito che il prigioniero fosse lasciato
libero, e così fu fatto».
La notizia crea sgomento a Firenze e il 26 febbraio l’Unità Cattolica riferisce:
«Si è riunito oggi il Senato, ma non era in numero; il presidente mandò gli uscieri a ricercare i senatori nelle loro case, ma tardarono molto a venire […]. Il ministro Chiaves entra un momento nell’aula; ed ha un’aria tutta spaventata. La burrasca della Camera certo non gli ha fatto piacere […]. Giuseppe Mazzini è stato eletto deputato. È desso eleggibile? Il Governo fa impegni sin d’ora perché l’elezione mazziniana non sia nemmeno riferita, adducendo che si è eletto un uomo che non esiste, un uomo che ha perduto i diritti civili e politici. D’altro lato i sinistri vogliono introdurvene la questione nella Camera e far sì che Mazzini sia reso eleggibile. Certo si farà molto chiasso e la questione prenderà un aspetto burrascoso e compromettente. Probabilmente la questione Mazzini darà l’ultimo tracollo a questa Camera ed al Ministero».
Mentre gli ambienti repubblicani gioiscono e organizzano manifestazioni in onore di Mazzini, in ambiente governativo si cerca una soluzione al problema:
«Si tenne un gran consiglio dei Ministri per decidere il da farsi riguardo all’elezione di Mazzini. Le eccellenze sono divise in due partiti: gli uni vogliono che l’elezione sia oppugnata con ragioni legali; gli altri stimano più opportuno il silenzio, sperando che Mazzini non accetterà».
L’articolo del 12 marzo commenta:
«Non tarderà ad essere riferita l’elezione di Giuseppe Mazzini. È affare che terrà luogo ad una discussione delle più furiose ed arrabbiate. La sinistra ne fa una questione d’impegno personale. E il Ministero non è abbastanza sicuro della destra, per cui non istupirebbe che il Ministero fosse battuto e Mazzini potesse entrare nella Camera. Il ragionamento che fa la sinistra è questo: in prima del 1859 ci sono state molte condanne politiche nei vari Stati d’Italia; quelle condanne non pregiudicarono mai l’elezione di quei condannati; e infatti abbiamo nella Camera Nicotera, Fabrizi e altri condannati dai Borboni. Il Regno dell’unità italiana cancellò col fatto tutte quelle condanne. Ora se sono state cancellate le condanne pronunziate dai tribunali di Napoli, di Parma, di Milano, perché dovranno aversi per valide le condanne politiche pronunciate prima del 1859 dai tribunali di Genova? Ergo, avendosi per nulla la sentenza che condannò nel capo Giuseppe Mazzini, egli è eleggibile e la sua elezione dev’essere convalidata. I sinistri ragionano così, e dal loro punto di vista ragionano bene. Essi sono logici. La logica è per loro. Il partito governativo invece non vuole Mazzini a motivo della condanna che gli toglie i diritti civili. Riuscirà il Governo a vincerla? Se ne dubita fortemente. Supponete che Mazzini venga qui. Egli è colpito eziandio dalla condanna del tribunale di Parigi. Supponete che la Francia ne dimandi l’estradizione. E allora? Chi può comprendere l’imbarazzo del Governo in simile situazione? Il generale La Marmora avrebbe un bel grattacapo se fosse convalidata l’elezione del Giuseppe genovese. Ne emergerebbe naturalmente una specie d’urto tra il nostro Governo e quello di Francia. Ma questo sarebbe ancora niente. Che direbbe l’Europa diplomatica e governativa che ha tanto interesse alla causa dell’ordine e del principio monarchico? I moderati vedono tutte queste cose e sono sgomenti delle conseguenze. Accetta la rivoluzione quando le giova e la vuole respingere quando le nuoce. Ma essa dimentica che la castagna ha il riccio e che questo è pungente».
Tre giorni dopo vengono riportati «precisi ed esattissimi ragguagli sull’andamento dell’elezione di Mazzini attraverso le bolgie della Camera»: «Gli atti sono stati trasmessi al Primo Ufficio (voi sapete che la Camera è divisa in nove uffici, rinnovantisi ad ogni bimestre per estrazione a sorte), il quale è composto dai seguenti onorevoli […] in tutto 46, ai quali forse, non senza una ragione recondita, fu aggiunto stamattina, prima ancora che prestasse giuramento, l’onorevole Finzi. Radunatosi questa mattina l’Ufficio, il presidente Restelli, di propria autorità, come si usa nei casi comuni, e senza consultare i colleghi, come è dovere e consuetudine, nei casi eccezionali, nominò relatore De Filippo. Questi, senza punto darsi cura di dissimulare il previo concerto, dichiarò di aver già esaminata l’elezione e di averla riconosciuta regolare, eccettuata una lieve trasgressione, di cui, in parecchie delle precedentemente convalidate, la Camera convenne non doversi far caso; esiste però nell’incartamento la sentenza contumaciale del tribunale di Genova che condanna Giuseppe Mazzini a morte.
All’interrogazione, come e chi avesse inserito nei verbali dell’elezione un documento affatto ad essi estraneo, il relatore non seppe o non volle rispondere che evasivamente. Quest’eccezione della condanna a morte, sollevando il quesito di eleggibilità, fu stabilito che, per dar tempo ai membri dell’Ufficio di prepararsi alla discussione, questa fosse rimandata a venerdì. Senonché l’Andreucci, per eccesso di zelo, avendo eccitato il relatore a preoccuparsi eziandio della condanna contro Mazzini, pronunciata dai tribunali francesi per complicità in attentati contro la vita di Luigi Napoleone – provvidenza di tutte le monarchie d’Europa – l’onorevole Macchi oppose alla mozione Andreucci la questione pregiudiciale, motivata sopra considerazioni di ordine nazionale, e di non diplomaticamente constatata condanna, non risultando che l’Ambasciata francese abbia fatto comunicazioni in proposito. Appoggiata dagli onorevoli Panattoni e Mordini, la questione pregiudiciale dell’onorevole Macchi non trovò contraddittori, e dell’eccezione Andreucci più non si fece parola. Però, non essendo stata respinta per voto, resta libero al relatore di risollevarla. È opinione generale che il Ministero ne farà questione di Gabinetto».
Il 19 marzo, per la festa di san Giuseppe, i repubblicani organizzano manifestazioni in onore di Garibaldi e di Mazzini. Il meeting più importante si svolge a Firenze. Il clima è teso e «la Camera dei deputati il 19 di marzo stimò miglior consiglio di radunarsi in segreto, avvegnaché il Parlamento del così detto popolo si radunasse in pubblico nel famoso meeting di Firenze che dovea celebrare Giuseppe Mazzini».
Ma è necessario chiarire per bene «come quando e perché Mazzini fu condannato a morte»: «La ragione per cui i ministri, i ministeriali ed i moderati vogliono che venga annullata l’elezione di Mazzini a deputato del secondo collegio di Messina è perché pesa sul suo capo una condanna di morte profferita dal magistrato d’appello di Genova. Ma i sinistri non ammettono il valore di quella condanna, dicendola ingiusta e annullata dal plebiscito, trattandosi di una sentenza del tribunale piemontese per un attentato alla dinastia del Piemonte. Su tale argomento il 21 di marzo incominciò una disputa nella Camera dei deputati che continuava ancora nella tornata del 22. De Filippo e Boggio sono contro Mazzini, che dicono giustamente condannato a morte. Condanna, dicono altri, distrutta dal plebiscito. E c’è chi aggiunge nessun plebiscito essere avvenuto a Genova e negli Stati Sardi. Che se il plebiscito ha distrutto le sentenze de’ tribunali, allora si aprano le prigioni e le galere. Quanto a noi senza intrometterci in questa lite, troviamo più utile raccontare a’ nostri lettori come, quando e perché Mazzini fosse condannato a morte. Il magistrato d’appello sedente in Genova, sezione d’accusa, con sua sentenza del 19 di novembre 1857 dichiarava esservi luogo a procedere contro Mazzini Giuseppe fu Giacomo, avvocato, nato a Genova, dimorante a Londra, accusato d’aver preso parte e diretto la cospirazione che scoppiava nella città di Genova. Quattro mesi dopo, lo stesso magistrato d’appello, con sentenza del 20 di marzo del 1858, condanna Mazzini contumace all’ultimo supplizio. La storia di quella cospirazione e la parte che vi ebbe Giuseppe Mazzini ci venne riferita dall’avvocato Galleani nelle sue requisitorie fiscali che giova molto l’avere sotto gli occhi in questi momenti.
Uno straordinario movimento si osservò di fatto in quel giorno (29 di giugno 1857), la sera assembramento nel sestiere di Prè, nella salita alla Zecca e nella contrada di Vallechiara: alle ore 10 e mezzo di notte fu rotto il filo elettrico tra Genova e Torino. Nella notte furono sorprese più persone in contegno sospetto, armate di stili e di cartucce. Verso le ore due dopo la mezzanotte furon sequestrate armi e munizioni da guerra in tre magazzini posti in detta strada Vallechiara, nei quali furono pure osservate le tracce di una recente adunanza. Nella stessa notte si tentò di invadere il forte dello Sperone, fu invaso quello del Diamante ed uccisovi il sergente che ne comandava la guardia.
Nei giorni successivi vennero fatti altri sequestri d’armi e munizioni da guerra in diversi luoghi di Genova e delle adiacenze; furono eseguite più perquisizioni domiciliari, e arrestate varie persone indicate d’aver preso parte all’attentato, il quale evidentemente mostrossi diretto a sovvertire e mutare la forma dell’attuale governo.

Giuseppe Mazzini, nome che figura in tutte le
cospirazioni che da più anni siano ordite in Italia, viene indicato
pubblicamente quale capo del partito d’insurrezione, avente sua sede
principale a Londra; gli adepti sono distinti col nome di Mazziniani. Che egli eccitasse,
dirigesse la cospirazione, o meglio l’attentato di cui trattasi,
risulta da varie sue lettere, dagli articoli per esso pubblicati con
quattro supplementi nel giornale Italia del
popolo, in luglio, agosto e settembre 1857,
intitolati La situazione. Constò inoltre che egli era in Genova sei mesi circa prima
dei fatti e nel giorno medesimo in cui succedevano. E che dal Mazzini fosse
dato il comando di agire lo disse l’accusato Giambattista, vulgo
Antonio, Casaretto il 29 di giugno mentre saliva al forte Diamante. Il
tenore poi di due lettere colla data 27 e 28 sequestrate il 1 di agosto
ultimo al detenuto Antonio Bisso, riconosciute di carattere di Giuseppe
Mazzini, vengono maggiormente a dimostrare che il 28 di luglio egli era
tuttavia in questo reame e non solamente avea diretto il fallito attentato,
ma proseguiva a congiurare, incaricando il suo corrispondente (che dalle
iniziali potrebbe essere Filippo De Boni) a coltivare il popolare elemento
creduto il più atto per riuscire vittorioso. Quel Filippo De Boni,
di cui parla l’avvocato fiscale, è oggidì deputato del
Regno d’Italia e non si sa perché la Camera, ammettendo il
discepolo, possa rifiutare il maestro. Ma andiamo avanti ed interroghiamo
le stesse requisitorie fiscali sugli intendimenti di quella congiura.
Il 6 luglio furono sequestrati in un magazzino in Prè, vico Cuneo 108, fucili con baionette, ed in una casa del vico Cittadella, civico n. 1, 27 fucili e sette lime ridotte a pugnali, ed in altro magazzino nel vico Monachette, pure a Prè, furono segnalati 100 fucili, 4 pali di ferro, 13 sacchetti nuovi di tela, ed uno scritto del seguente tenore: “Coraggio, le prime case e famiglie che dovete saccheggiare nella strada di Prè sarà la famiglia Peragallo, essendo i più ricchi proprietari, spie e crudeli nemici della libertà: saccheggio e fuoco! Coraggio”.
Nello stesso giorno 6 luglio i preposti delle dogane nazionali sequestrarono in una grotta, sul monte di Portofino: 80 fucili, 14 carabine, 86 baionette, 641 pacchi di cartucce, un baule contenente 17 chilogrammi e 15 grammi di polvere, etc. etc. Di qui risultano i bei regali che il San Giuseppe del meeting di Firenze volea fare all’Italia in generale, ed in specie a Genova sua patria».
La decisione è infine presa:
«Dopo due giorni di lunga discussione, la Camera fiorentina annullava l’elezione messinese di Giuseppe Mazzini. Le lunghe tornate dal 22 al 24 di marzo meriterebbero di essere qui riportate, ma ci dobbiamo limitare a dire che i lunghi e ponderati discorsi furono molti.
Il deputato Gennaro De Filippo combatté l’elezione di Mazzini.
Il deputato Giovanni Nicotera difese l’elezione di Mazzini.
Il deputato Giuseppe Zanardelli fu in favore di Mazzini.
Il deputato Pier Carlo Boggio non volle Mazzini deputato.
L’onorevole Guerrazzi perorò in favore di Mazzini.
Il ministro Chiaves (Interni) combatté l’elezione di Mazzini.
Il deputato Francesco Crispi difese l’elezione mazziniana.
Il guardasigilli De Falco si oppose all’elezione di Mazzini.
Dopo tanti discorsi, si domandò che la votazione sulla validità dell’elezione di Mazzini venisse fatta per appello nominale ed eccone il risultato: votarono contro Mazzini centonovantuno deputati; in favore 107; né pro né contro quattro deputati. Ma ecco la ricapitolazione: Presenti 302; Votanti 298; Contro Mazzini 191; Pro Mazzini 107; Astenuti 4».
Si cerca comunque una soluzione di compromesso:
«Per evitare un contrasto fra gli elettori ed i deputati, il Ministero pensa di ottenere l’amnistia per Giuseppe Mazzini. Già questo pensiero era venuto a Bettino Ricasoli, quando era ministro nel 1862. Non pareva bene al signor Bettino che Mazzini potesse dire dell’unità italiana come Virgilio: Hos ego versiculos feci, tulit alter honorem, – Sic vos non vobis nidificatis aves. E tutto era quasi combinato, e dicesi che perfino la Francia avesse concesso il suo consenso. Ma Ricasoli non cadde, no, precipitò dal Ministero, ed il disegno dell’amnistia andò in fumo. Ora si ripiglia daccapo, e la Nazione perora per l’amnistia […].
Il deputato Boggio ha presentato alla Camera un progetto di legge, in virtù del quale l’amnistia non può restituire il godimento dei diritti politici. Se questo progetto venisse approvato, cosa difficilissima, Giuseppe Mazzini con tutta l’amnistia non potrà mai essere eletto deputato finché il Regno d’Italia sarà il Regno d’Italia».
Qual è stato intanto l’atteggiamento di Mazzini stesso? Dopo qualche esitazione, assicuratasi di agire in maniera analoga al resto della stampa moderata, l’Unità Cattolica si decide a pubblicare una lettera di Mazzini agli elettori di Messina, datata 2 marzo:
«Cittadini! Mi avete con fermezza siciliana di volontà, alzato, eleggendomi a deputato vostro, una generosa protesta contro una sentenza, oggi non solamente iniqua, ma assurda, che mi danna nel corpo per avere, prima d’altri, tentato l’unità della patria; iniqua, perché condanna in me ciò, che la monarchia condannatrice accetta come sua ragion d’essere e base del suo potere; assurda, perché si prolunga quando il regno sardo, che la emanò, ha cessato d’esistere. La protesta vostra ha messo, tra voi e me, un vincolo speciale d’amore, che durerà finch’io viva. Io non nacqui tra voi, né mai – e mi è dolore il pensarlo – visitai l’Isola vostra. Protestando, voi non avete obbedito a impulso d’affetti personali, ma al culto della santa idea che abbiamo comune, ed è la parte migliore di me. Ed io posso accogliere la testimonianza d’onore che avete voluto darmi, non solamente come caro conforto all’esilio, ma come promessa – ed ogni promessa che viene dalla terra delle nobili iniziative è germe di fatti – che quell’idea v’avrà sempre devoti ed arditi seguaci.
Ho chiamato l’elezione vostra protesta, ed ecco perché. Ignoro, mentr’io vi scrivo, ciò che la Camera farà a mio riguardo; ma so ciò ch’io debbo fare, per morire in pace con la mia coscienza, e non indegno di voi.
Io giurai – trentaquattro anni addietro – fede all’Italia ma repubblicana. Tacqui della mia fede quando il paese intiero dissentiva e decretava un esperimento su via diversa: non la rinnegai. Secondai, come mi pare debito, e quanto a me individuo era dato, ciò che potea giovare a risolvere la prima metà del problema; ma senza mai convertire, come altri fece, in principio assoluto ciò che non poteva essere per noi tutti se non base, per un tempo, all’esperimento. Spinsi l’abnegazione sino ad additare alla monarchia per quali gloriose e non difficili vie essa avrebbe potuto compirlo; ma non rivocai quel primo mio giuramento, non contrassi vincolo alcuno con chi poteva deludere; non cancellai la libertà dell’intelletto e dell’anima dietro a una ipotesi.
Ed oggi che, per me almeno, quello esperimento è senza frutto compito – oggi che la monarchia, statuita, con aperta violazione dei plebisciti, Firenze metropoli, accetta, da un lato, una convenzione che sancisce l’esistenza in Italia di due sovranità temporali, e sbanda dall’altro un esercito che, con rovina della finanza, era stato ordinato per emancipare Venezia – io non potrei – né voi lo vorreste – falsare l’antico unico mio giuramento, giurando alla monarchia e a uno Statuto anteriore alla vita nazionale d’Italia, e che non è, né può esserne la formula.
Convinto più sempre che l’istituzione dalla quale oggi è retto il paese è inefficace a fare l’Italia una, libera, prospera e grande, come noi, voi e io, l’intendiamo, darei, giurandole fedeltà, un esempio d’immoralità politica a’ miei fratelli di patria ed un perenne rimorso all’anima mia.
Abbiatemi, ora e sempre, fratello ed amico riconoscente.
Giuseppe Mazzini».
Due mesi dopo la popolazione di Messina torna a rieleggere Mazzini. La Camera, dopo nuova discussione, il 18 giugno riannulla l’elezione con 146 voti contro 145. Il 18 novembre Mazzini viene rieletto una terza volta e dal Salone dei Cinquecento finalmente arriva la convalida.
Che non ha alcun effetto perché Mazzini rifiuta l’incarico per non dover giurare fedeltà allo Statuto!

Giuseppe Mazzini in un quadro del 1853
La notizia crea sgomento a Firenze e il 26 febbraio l’Unità Cattolica riferisce:
«Si è riunito oggi il Senato, ma non era in numero; il presidente mandò gli uscieri a ricercare i senatori nelle loro case, ma tardarono molto a venire […]. Il ministro Chiaves entra un momento nell’aula; ed ha un’aria tutta spaventata. La burrasca della Camera certo non gli ha fatto piacere […]. Giuseppe Mazzini è stato eletto deputato. È desso eleggibile? Il Governo fa impegni sin d’ora perché l’elezione mazziniana non sia nemmeno riferita, adducendo che si è eletto un uomo che non esiste, un uomo che ha perduto i diritti civili e politici. D’altro lato i sinistri vogliono introdurvene la questione nella Camera e far sì che Mazzini sia reso eleggibile. Certo si farà molto chiasso e la questione prenderà un aspetto burrascoso e compromettente. Probabilmente la questione Mazzini darà l’ultimo tracollo a questa Camera ed al Ministero».
Mentre gli ambienti repubblicani gioiscono e organizzano manifestazioni in onore di Mazzini, in ambiente governativo si cerca una soluzione al problema:
«Si tenne un gran consiglio dei Ministri per decidere il da farsi riguardo all’elezione di Mazzini. Le eccellenze sono divise in due partiti: gli uni vogliono che l’elezione sia oppugnata con ragioni legali; gli altri stimano più opportuno il silenzio, sperando che Mazzini non accetterà».
L’articolo del 12 marzo commenta:
«Non tarderà ad essere riferita l’elezione di Giuseppe Mazzini. È affare che terrà luogo ad una discussione delle più furiose ed arrabbiate. La sinistra ne fa una questione d’impegno personale. E il Ministero non è abbastanza sicuro della destra, per cui non istupirebbe che il Ministero fosse battuto e Mazzini potesse entrare nella Camera. Il ragionamento che fa la sinistra è questo: in prima del 1859 ci sono state molte condanne politiche nei vari Stati d’Italia; quelle condanne non pregiudicarono mai l’elezione di quei condannati; e infatti abbiamo nella Camera Nicotera, Fabrizi e altri condannati dai Borboni. Il Regno dell’unità italiana cancellò col fatto tutte quelle condanne. Ora se sono state cancellate le condanne pronunziate dai tribunali di Napoli, di Parma, di Milano, perché dovranno aversi per valide le condanne politiche pronunciate prima del 1859 dai tribunali di Genova? Ergo, avendosi per nulla la sentenza che condannò nel capo Giuseppe Mazzini, egli è eleggibile e la sua elezione dev’essere convalidata. I sinistri ragionano così, e dal loro punto di vista ragionano bene. Essi sono logici. La logica è per loro. Il partito governativo invece non vuole Mazzini a motivo della condanna che gli toglie i diritti civili. Riuscirà il Governo a vincerla? Se ne dubita fortemente. Supponete che Mazzini venga qui. Egli è colpito eziandio dalla condanna del tribunale di Parigi. Supponete che la Francia ne dimandi l’estradizione. E allora? Chi può comprendere l’imbarazzo del Governo in simile situazione? Il generale La Marmora avrebbe un bel grattacapo se fosse convalidata l’elezione del Giuseppe genovese. Ne emergerebbe naturalmente una specie d’urto tra il nostro Governo e quello di Francia. Ma questo sarebbe ancora niente. Che direbbe l’Europa diplomatica e governativa che ha tanto interesse alla causa dell’ordine e del principio monarchico? I moderati vedono tutte queste cose e sono sgomenti delle conseguenze. Accetta la rivoluzione quando le giova e la vuole respingere quando le nuoce. Ma essa dimentica che la castagna ha il riccio e che questo è pungente».
Tre giorni dopo vengono riportati «precisi ed esattissimi ragguagli sull’andamento dell’elezione di Mazzini attraverso le bolgie della Camera»: «Gli atti sono stati trasmessi al Primo Ufficio (voi sapete che la Camera è divisa in nove uffici, rinnovantisi ad ogni bimestre per estrazione a sorte), il quale è composto dai seguenti onorevoli […] in tutto 46, ai quali forse, non senza una ragione recondita, fu aggiunto stamattina, prima ancora che prestasse giuramento, l’onorevole Finzi. Radunatosi questa mattina l’Ufficio, il presidente Restelli, di propria autorità, come si usa nei casi comuni, e senza consultare i colleghi, come è dovere e consuetudine, nei casi eccezionali, nominò relatore De Filippo. Questi, senza punto darsi cura di dissimulare il previo concerto, dichiarò di aver già esaminata l’elezione e di averla riconosciuta regolare, eccettuata una lieve trasgressione, di cui, in parecchie delle precedentemente convalidate, la Camera convenne non doversi far caso; esiste però nell’incartamento la sentenza contumaciale del tribunale di Genova che condanna Giuseppe Mazzini a morte.
All’interrogazione, come e chi avesse inserito nei verbali dell’elezione un documento affatto ad essi estraneo, il relatore non seppe o non volle rispondere che evasivamente. Quest’eccezione della condanna a morte, sollevando il quesito di eleggibilità, fu stabilito che, per dar tempo ai membri dell’Ufficio di prepararsi alla discussione, questa fosse rimandata a venerdì. Senonché l’Andreucci, per eccesso di zelo, avendo eccitato il relatore a preoccuparsi eziandio della condanna contro Mazzini, pronunciata dai tribunali francesi per complicità in attentati contro la vita di Luigi Napoleone – provvidenza di tutte le monarchie d’Europa – l’onorevole Macchi oppose alla mozione Andreucci la questione pregiudiciale, motivata sopra considerazioni di ordine nazionale, e di non diplomaticamente constatata condanna, non risultando che l’Ambasciata francese abbia fatto comunicazioni in proposito. Appoggiata dagli onorevoli Panattoni e Mordini, la questione pregiudiciale dell’onorevole Macchi non trovò contraddittori, e dell’eccezione Andreucci più non si fece parola. Però, non essendo stata respinta per voto, resta libero al relatore di risollevarla. È opinione generale che il Ministero ne farà questione di Gabinetto».
Il 19 marzo, per la festa di san Giuseppe, i repubblicani organizzano manifestazioni in onore di Garibaldi e di Mazzini. Il meeting più importante si svolge a Firenze. Il clima è teso e «la Camera dei deputati il 19 di marzo stimò miglior consiglio di radunarsi in segreto, avvegnaché il Parlamento del così detto popolo si radunasse in pubblico nel famoso meeting di Firenze che dovea celebrare Giuseppe Mazzini».
Ma è necessario chiarire per bene «come quando e perché Mazzini fu condannato a morte»: «La ragione per cui i ministri, i ministeriali ed i moderati vogliono che venga annullata l’elezione di Mazzini a deputato del secondo collegio di Messina è perché pesa sul suo capo una condanna di morte profferita dal magistrato d’appello di Genova. Ma i sinistri non ammettono il valore di quella condanna, dicendola ingiusta e annullata dal plebiscito, trattandosi di una sentenza del tribunale piemontese per un attentato alla dinastia del Piemonte. Su tale argomento il 21 di marzo incominciò una disputa nella Camera dei deputati che continuava ancora nella tornata del 22. De Filippo e Boggio sono contro Mazzini, che dicono giustamente condannato a morte. Condanna, dicono altri, distrutta dal plebiscito. E c’è chi aggiunge nessun plebiscito essere avvenuto a Genova e negli Stati Sardi. Che se il plebiscito ha distrutto le sentenze de’ tribunali, allora si aprano le prigioni e le galere. Quanto a noi senza intrometterci in questa lite, troviamo più utile raccontare a’ nostri lettori come, quando e perché Mazzini fosse condannato a morte. Il magistrato d’appello sedente in Genova, sezione d’accusa, con sua sentenza del 19 di novembre 1857 dichiarava esservi luogo a procedere contro Mazzini Giuseppe fu Giacomo, avvocato, nato a Genova, dimorante a Londra, accusato d’aver preso parte e diretto la cospirazione che scoppiava nella città di Genova. Quattro mesi dopo, lo stesso magistrato d’appello, con sentenza del 20 di marzo del 1858, condanna Mazzini contumace all’ultimo supplizio. La storia di quella cospirazione e la parte che vi ebbe Giuseppe Mazzini ci venne riferita dall’avvocato Galleani nelle sue requisitorie fiscali che giova molto l’avere sotto gli occhi in questi momenti.
Uno straordinario movimento si osservò di fatto in quel giorno (29 di giugno 1857), la sera assembramento nel sestiere di Prè, nella salita alla Zecca e nella contrada di Vallechiara: alle ore 10 e mezzo di notte fu rotto il filo elettrico tra Genova e Torino. Nella notte furono sorprese più persone in contegno sospetto, armate di stili e di cartucce. Verso le ore due dopo la mezzanotte furon sequestrate armi e munizioni da guerra in tre magazzini posti in detta strada Vallechiara, nei quali furono pure osservate le tracce di una recente adunanza. Nella stessa notte si tentò di invadere il forte dello Sperone, fu invaso quello del Diamante ed uccisovi il sergente che ne comandava la guardia.
Nei giorni successivi vennero fatti altri sequestri d’armi e munizioni da guerra in diversi luoghi di Genova e delle adiacenze; furono eseguite più perquisizioni domiciliari, e arrestate varie persone indicate d’aver preso parte all’attentato, il quale evidentemente mostrossi diretto a sovvertire e mutare la forma dell’attuale governo.

Una seduta del Parlamento in Palazzo Vecchio nel 1865, quando Firenze era capitale d’Italia
Il 6 luglio furono sequestrati in un magazzino in Prè, vico Cuneo 108, fucili con baionette, ed in una casa del vico Cittadella, civico n. 1, 27 fucili e sette lime ridotte a pugnali, ed in altro magazzino nel vico Monachette, pure a Prè, furono segnalati 100 fucili, 4 pali di ferro, 13 sacchetti nuovi di tela, ed uno scritto del seguente tenore: “Coraggio, le prime case e famiglie che dovete saccheggiare nella strada di Prè sarà la famiglia Peragallo, essendo i più ricchi proprietari, spie e crudeli nemici della libertà: saccheggio e fuoco! Coraggio”.
Nello stesso giorno 6 luglio i preposti delle dogane nazionali sequestrarono in una grotta, sul monte di Portofino: 80 fucili, 14 carabine, 86 baionette, 641 pacchi di cartucce, un baule contenente 17 chilogrammi e 15 grammi di polvere, etc. etc. Di qui risultano i bei regali che il San Giuseppe del meeting di Firenze volea fare all’Italia in generale, ed in specie a Genova sua patria».
La decisione è infine presa:
«Dopo due giorni di lunga discussione, la Camera fiorentina annullava l’elezione messinese di Giuseppe Mazzini. Le lunghe tornate dal 22 al 24 di marzo meriterebbero di essere qui riportate, ma ci dobbiamo limitare a dire che i lunghi e ponderati discorsi furono molti.
Il deputato Gennaro De Filippo combatté l’elezione di Mazzini.
Il deputato Giovanni Nicotera difese l’elezione di Mazzini.
Il deputato Giuseppe Zanardelli fu in favore di Mazzini.
Il deputato Pier Carlo Boggio non volle Mazzini deputato.
L’onorevole Guerrazzi perorò in favore di Mazzini.
Il ministro Chiaves (Interni) combatté l’elezione di Mazzini.
Il deputato Francesco Crispi difese l’elezione mazziniana.
Il guardasigilli De Falco si oppose all’elezione di Mazzini.
Dopo tanti discorsi, si domandò che la votazione sulla validità dell’elezione di Mazzini venisse fatta per appello nominale ed eccone il risultato: votarono contro Mazzini centonovantuno deputati; in favore 107; né pro né contro quattro deputati. Ma ecco la ricapitolazione: Presenti 302; Votanti 298; Contro Mazzini 191; Pro Mazzini 107; Astenuti 4».
Si cerca comunque una soluzione di compromesso:
«Per evitare un contrasto fra gli elettori ed i deputati, il Ministero pensa di ottenere l’amnistia per Giuseppe Mazzini. Già questo pensiero era venuto a Bettino Ricasoli, quando era ministro nel 1862. Non pareva bene al signor Bettino che Mazzini potesse dire dell’unità italiana come Virgilio: Hos ego versiculos feci, tulit alter honorem, – Sic vos non vobis nidificatis aves. E tutto era quasi combinato, e dicesi che perfino la Francia avesse concesso il suo consenso. Ma Ricasoli non cadde, no, precipitò dal Ministero, ed il disegno dell’amnistia andò in fumo. Ora si ripiglia daccapo, e la Nazione perora per l’amnistia […].
Il deputato Boggio ha presentato alla Camera un progetto di legge, in virtù del quale l’amnistia non può restituire il godimento dei diritti politici. Se questo progetto venisse approvato, cosa difficilissima, Giuseppe Mazzini con tutta l’amnistia non potrà mai essere eletto deputato finché il Regno d’Italia sarà il Regno d’Italia».
Qual è stato intanto l’atteggiamento di Mazzini stesso? Dopo qualche esitazione, assicuratasi di agire in maniera analoga al resto della stampa moderata, l’Unità Cattolica si decide a pubblicare una lettera di Mazzini agli elettori di Messina, datata 2 marzo:
«Cittadini! Mi avete con fermezza siciliana di volontà, alzato, eleggendomi a deputato vostro, una generosa protesta contro una sentenza, oggi non solamente iniqua, ma assurda, che mi danna nel corpo per avere, prima d’altri, tentato l’unità della patria; iniqua, perché condanna in me ciò, che la monarchia condannatrice accetta come sua ragion d’essere e base del suo potere; assurda, perché si prolunga quando il regno sardo, che la emanò, ha cessato d’esistere. La protesta vostra ha messo, tra voi e me, un vincolo speciale d’amore, che durerà finch’io viva. Io non nacqui tra voi, né mai – e mi è dolore il pensarlo – visitai l’Isola vostra. Protestando, voi non avete obbedito a impulso d’affetti personali, ma al culto della santa idea che abbiamo comune, ed è la parte migliore di me. Ed io posso accogliere la testimonianza d’onore che avete voluto darmi, non solamente come caro conforto all’esilio, ma come promessa – ed ogni promessa che viene dalla terra delle nobili iniziative è germe di fatti – che quell’idea v’avrà sempre devoti ed arditi seguaci.
Ho chiamato l’elezione vostra protesta, ed ecco perché. Ignoro, mentr’io vi scrivo, ciò che la Camera farà a mio riguardo; ma so ciò ch’io debbo fare, per morire in pace con la mia coscienza, e non indegno di voi.
Io giurai – trentaquattro anni addietro – fede all’Italia ma repubblicana. Tacqui della mia fede quando il paese intiero dissentiva e decretava un esperimento su via diversa: non la rinnegai. Secondai, come mi pare debito, e quanto a me individuo era dato, ciò che potea giovare a risolvere la prima metà del problema; ma senza mai convertire, come altri fece, in principio assoluto ciò che non poteva essere per noi tutti se non base, per un tempo, all’esperimento. Spinsi l’abnegazione sino ad additare alla monarchia per quali gloriose e non difficili vie essa avrebbe potuto compirlo; ma non rivocai quel primo mio giuramento, non contrassi vincolo alcuno con chi poteva deludere; non cancellai la libertà dell’intelletto e dell’anima dietro a una ipotesi.
Ed oggi che, per me almeno, quello esperimento è senza frutto compito – oggi che la monarchia, statuita, con aperta violazione dei plebisciti, Firenze metropoli, accetta, da un lato, una convenzione che sancisce l’esistenza in Italia di due sovranità temporali, e sbanda dall’altro un esercito che, con rovina della finanza, era stato ordinato per emancipare Venezia – io non potrei – né voi lo vorreste – falsare l’antico unico mio giuramento, giurando alla monarchia e a uno Statuto anteriore alla vita nazionale d’Italia, e che non è, né può esserne la formula.
Convinto più sempre che l’istituzione dalla quale oggi è retto il paese è inefficace a fare l’Italia una, libera, prospera e grande, come noi, voi e io, l’intendiamo, darei, giurandole fedeltà, un esempio d’immoralità politica a’ miei fratelli di patria ed un perenne rimorso all’anima mia.
Abbiatemi, ora e sempre, fratello ed amico riconoscente.
Giuseppe Mazzini».
Due mesi dopo la popolazione di Messina torna a rieleggere Mazzini. La Camera, dopo nuova discussione, il 18 giugno riannulla l’elezione con 146 voti contro 145. Il 18 novembre Mazzini viene rieletto una terza volta e dal Salone dei Cinquecento finalmente arriva la convalida.
Che non ha alcun effetto perché Mazzini rifiuta l’incarico per non dover giurare fedeltà allo Statuto!