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STORIA DEI GIUBILEI
tratto dal n. 07/08 - 1999

Roma tra cancelletti, briganti e carbonari


I timori per la situazione politica incerta non impediscono a Leone XII di celebrare l’Anno Santo del 1825. Tra le figure del cattolicesimo romano spicca quella del futuro santo Gaspare Del Bufalo, ricordato, tra le altre cose, per aver pacificato con le armi della misericordia e dell’amicizia numerose bande di briganti


di Serena Ravaglioli


Il Giubileo del 1825 fu celebrato a distanza di cinquant’anni da quello precedente. Nel 1800, infatti, l’occupazione francese di Roma, con la proclamazione della Repubblica romana e la deportazione a Valence di papa Pio VI, non aveva reso possibile l’indizione dell’Anno Santo. In realtà, anche nel 1825 la situazione politica era talmente incerta e complicata da indurre diversi cardinali e gli ambasciatori delle principali corti d’Europa a consigliare al papa Leone XII di soprassedere nella promulgazione del Giubileo. A parte le difficoltà finanziarie nelle quali si trovava lo Stato Pontificio, si temeva soprattutto che, nascosti fra i pellegrini, potessero giungere a Roma e fare proseliti i sostenitori delle nuove idee rivoluzionarie. Ma il Papa fu irremovibile nel suo proposito di assicurare quella celebrazione che «la tristissima condizione dei tempi» aveva impedito all’inizio del secolo: «Si dirà quel che si dirà: il Giubileo s’ha da fare». Così il 24 maggio 1824 fu pubblicata la bolla d’indizione Quod hoc ineunte saeculo.
Alla preparazione dell’Anno Santo Leone XII dedicò cure assidue. L’intento era di fare della città una «santa Gerusalemme, città sacerdotale e regia». Gli oratori più insigni del tempo tennero in tutte le piazze principali della città predicazioni per illustrare gli scopi del solenne avvenimento, non di rado alla presenza del Pontefice stesso. Furono restaurate varie chiese e allestiti ospizi. Vennero inoltre emanate norme a tutela della morale: alcune, come il divieto dei giochi in piazza, dei balli e delle feste del carnevale e le disposizioni sui “costumi decorosi” delle donne, erano quelle ormai consuete per tutti gli anni santi; altre, invece, come le sanzioni per le serenate troppo rumorose, erano inedite. Fra tutte, quella che destò più scalpore fu l’obbligo di apporre all’entrata delle osterie un cancelletto, in modo che fosse possibile soltanto acquistare il vino per portarlo via e non consumarlo sul posto. Le osterie erano il luogo d’incontro preferito dei popolani e l’ostilità causata dal provvedimento non è sorprendente. Ne è eco una pasquinata: «Fior di mughetto, papa Leone è diventato matto, ha chiuso le osterie e allarga il ghetto», che fa riferimento anche a un altro provvedimento preso dal Papa, relativo appunto all’ampliamento dei confini del quartiere ebraico.
Di questo clima di rigore morale abbiamo una testimonianza non benevola da parte di Massimo d’Azeglio, che nel 1824 si trovava a Roma a compiere studi di pittura. Ne I miei ricordi egli commenta: «Uno dei primi pensieri di papa Leone era stato di pubblicare il gran giubileo universale per l’anno ’25; la qual cosa significava Roma trasformata per dodici mesi in un gran stabilimento di esercizi spirituali. Non teatri, non feste, non balli, non ricevimenti, neppure in piazza i burattini; ed invece prediche, missioni, processioni, funzioni, ecc.». Secondo il torinese, però, si trattava di una «ipocrisia generale», di «una triste commedia»: «Bisognava sentire i giovani o i militari, gli impiegati, messi al bivio di rimetterci il posto o cantar misereri, che moccoli attaccavano in via preventiva». Un giudizio altrettanto sprezzante dell’Anno Santo del 1825 viene da Stendhal che, parlando nelle Promenades dans Rome della Porta santa di San Pietro, ricorda come «il giubileo che una volta riuniva a Roma quattrocentomila pellegrini di tutte le classi, ha richiamato appena quattrocento mendicanti nel 1825», segno di una religione che «sta per modificarsi o per spegnersi».
Si tratta comunque di due giudizi di parte, ispirati dall’anticlericalismo. Riguardo all’afflusso di pellegrini, dal diario di don Agostino Chigi sappiamo, invece, che la Confraternita della Trinità accolse quasi novantacinquemila persone, più o meno la stessa cifra del 1775; nel complesso le presenze di non romani in città in quell’anno non dovettero essere di molto inferiori a quelle del Giubileo precedente e aggirarsi intorno a quattrocentomila. Dal punto di vista spirituale fanno da contraltare alle affermazioni di D’Azeglio altre testimonianze, come per esempio quella di Maria Cristina di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele I e futura regina delle Due Sicilie, la quale partecipò alla cerimonia di apertura dell’Anno Santo e in una lettera a un’amica la descrisse con commossa accuratezza. Maria Cristina trascorse gran parte dell’anno a Roma, allontanandosi solo quando ebbe il timore di un contagio di vaiolo, e destò l’ammirazione generale per l’assiduità con cui si dedicava alle pratiche di devozione e per la generosità nei confronti dei più poveri.
Un’altra figura di spicco del panorama del cattolicesimo romano in quell’anno fu il futuro santo Gaspare Del Bufalo, fondatore della Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue. Gaspare era famoso soprattutto per l’apostolato che svolgeva nella campagna romana e per aver pacificato, con le armi della predicazione, della misericordia e dell’amicizia, numerose bande di briganti che imperversavano nella zona, rendendo difficile e pericoloso il transito dei viaggiatori, soprattutto quelli provenienti dal sud. Non si arrese però a lui, ma a monsignor Pietro Pellegrini, vicario di Sezze, uno dei briganti più temuti: il famigerato Gasperone, nativo di Sonnino, personaggio quasi leggendario sia per la sua statura colossale sia per la temerarietà mostrata nelle sue imprese, fra le quali numerosi sequestri di persona, anche di frati, preti, gendarmi e ufficiali. Arrendendosi durante l’Anno Santo, Gasperone si era illuso di avere il perdono totale dei suoi delitti, ma in realtà ottenne solo che la pena capitale fosse commutata in carcere (rimase in prigione fino al 1870, quando fu graziato da Vittorio Emanuele II). Dopo l’arresto fu portato in catene a Roma, insieme ai componenti della sua banda, tutti vestiti di pelli e con le “cioce” ai piedi. L’attraversamento della città da parte di questo singolare corteo diretto a Castel Sant’Angelo fu uno dei grandi avvenimenti del 1825.
Un altro episodio, anche questo di carattere non religioso, venne a inserirsi nel consueto svolgimento delle celebrazioni giubilari: l’esecuzione della condanna a morte dei carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari, avvenuta per decapitazione a piazza del Popolo il 23 novembre. I due erano accusati di lesa maestà e con la loro esecuzione si voleva dare un ammonimento esemplare contro la diffusione delle politiche rivoluzionarie. I romani, comunque, forse anche perché Targhini e Montanari non erano di Roma (il primo era bresciano, l’altro romagnolo), non sembrarono particolarmente scossi dall’avvenimento, cui assistettero quasi come a uno spettacolo, ostentando distacco e indifferenza.
Per chiudere, un particolare curioso: subito dopo l’apertura della Porta santa a San Pietro, un allievo del Collegio dei nobili nell’Urbe recitò di fronte a Leone XII, nel cortile del Belvedere, un carme di circostanza in latino, ricevendo in dono un esemplare in argento della medaglia giubilare: era Gioacchino Pecci, il futuro Leone XIII, che settantacinque anni dopo, indicendo a sua volta un Anno Santo, avrebbe ricordato con un caldo elogio quello del 1825.


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