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IL PAPA IN TERRA SANTA
tratto dal n. 02 - 2000

Il futuro è incerto, ma il passato si sgretola


Cosa è cambiato in Medio Oriente nei 36 anni che dividono la visita di Paolo VI da quella di Giovanni Paolo II. L’atmosfera che accoglie la seconda visita papale non è più quella dominata dalle preoccupazioni della sicurezza, ma da quelle dell’economia e della globalizzazione


di Dan Vittorio Segre


Nell’ottobre del 1591 – data del calendario gregoriano sfasata nei confronti di quello coranico – il mondo islamico celebrò il suo primo millennio. Non ci furono allora movimenti millenaristici e paure per il futuro, come nel caso cristiano. Anche se venti anni prima, a Lepanto, l’islam aveva subito la sua prima grande sconfitta navale, la sua potenza politica, militare, scientifica ed economica appariva incrollabile e la conquista di Costantinopoli nel 1453 ne sembrava la conferma.
Non è questo il sentimento che pervade il mondo arabo nell’occasione delle celebrazioni del secondo millenario cristiano. Solo la feroce resistenza degli islamici ceceni contro le truppe russe, che nell’immaginario mediorientale ha trasformato Grozny in eroica Stalingrado musulmana, ha indotto qualche commentatore arabo a parlare di svolta nella multisecolare lotta contro il mondo cristiano.
La cappella del Calvario nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme

La cappella del Calvario nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme

Propongo di esaminare la situazione del Medio Oriente sulla base delle due visite papali in Terra Santa: quella di Paolo VI nel 1964 e quella prevista di Giovanni Paolo II a partire dal 20 marzo prossimo.
Sono visite epocali perché non è abitudine dei papi di recarsi in Terra Santa. Non ci andò il Vescovo di Roma quando Costantino lo invitò al Concilio di Nicea nel 325 e non ci andarono gli altri vescovi di Roma nei susseguenti 1600 anni. Il perché è da ricercarsi nei rapporti tra Roma, Gerusalemme e Bisanzio, questione che esula dal mio tema. I trentasei anni che separano le due visite sono tuttavia un metro utile per valutare ciò che è cambiato nel Medio Oriente.
Ci sono state naturalmente molte guerre (fra Israele e i suoi vicini, fra turchi e greci a Cipro, fra iracheni e kuwaitiani, fra l’Onu e l’Iraq); ancora più numerose sono state le guerre civili che in parte continuano (Libano, Egitto, Turchia, Iraq, Siria, Sudan, Yemen). Ci sono stati innumerevoli atti di terrorismo. Ma, fatto sorprendente, nessun regime, eccetto quello dello scià in Iran, è crollato. In una regione dove il colpo di Stato era un mezzo normale di ricambio delle élite che non disponevano – né dispongono ancora – di sistemi di ricambio democratici, molti fatti sembrano indicare che plus ça change plus c’est la même chose. Saddam Hussein è rimasto al potere nonostante le sconfitte subite; i militari “nasseriani”, per quanto invecchiati e imborghesiti, continuano a governare l’Egitto; la dinastia hashimita, di cui ogni sei mesi qualcuno annunciava la scomparsa, si è rinforzata in Giordania; la minoranza alawita con Assad in testa domina in Siria. Venti anni di guerra civile non hanno abbattuto il regime militare islamico in Sudan; solo la presenza di truppe siriane riesce ad evitare scontri fra le comunità religiose libanesi; la famiglia dei suderi continua a tenere la barra del timone politico in Arabia Saudita con una successione al potere di fratelli nati dalla moglie preferita di re Ibn Saud, che invecchiano, si ammalano ma continuano a regnare. Una guerra feroce non ha sloggiato dal trono l’emiro del Kuwait, fra i più ricchi e meno democratici signori del mondo arabo.
Eppure, dietro queste parvenze di immobilismo, molto sta cambiando nel Levante. Il futuro rimane incerto, ma il passato si sgretola. Se non fa notizia è perché si tratta di un processo che generalmente sfugge all’informazione.
Un’occasione per prenderne coscienza l’ha offerta Thomas Friedman, autorevole editorialista del New York Times, due volte premio Pulitzer per i suoi articoli sul Medio Oriente, quando si è recato al Cairo recentemente per presentare l’edizione araba del suo libro intitolato in inglese The Lexus and the Olive Tree. Nella sua tesi, l’automobile giapponese Lexus è simbolo di sviluppo e globalizzazione, l’ulivo di tradizione e immobilismo.
Friedman, ebreo americano, sionista liberal, è stato ricevuto in Egitto con onori da capo di Stato. Ha condotto cinque importanti seminari provocando un’accesa discussione fra intellettuali e politici arabi. Salah ed Din Hafez, direttore del semiufficiale quotidiano egiziano Al Ahram, aveva prima di lui aperto il dibattito chiedendo cosa sarebbe successo dopo la firma della pace fra Israele e la Siria. Secondo Salah ed Din Hafez lo Stato sionista «si concentrerà a ridurre il ruolo dell’Egitto e del nazionalismo arabo». Friedman pensa che se Israele continuerà ad essere la Lexus e i Paesi arabi gli ulivi, l’Egitto, per mantenere il suo ruolo di leader nel mondo arabo dovrebbe cessare di sforzarsi di unirsi all’Europa o restare prigioniero dell’arabismo ma diventare la Taiwan della regione.
Tesi respinta dai postnasseristi e dagli islamisti ma applaudita dalla nuova borghesia egiziana che incomincia a godere dei vantaggi delle prime privatizzazioni industriali della politica antiterrorista di Mubarak, della riduzione dell’inflazione e dell’indebitamento estero del Paese.
Se guardiamo al rapporto fra Lexus e ulivo dall’angolo israeliano, ci accorgiamo che esiste, sia pure in termini molto diversi, lo stesso problema. La pace con l’Egitto e la Giordania e il nuovo rapporto con l’entità palestinese sono, per il momento, solo degli armistizi; gli scambi economici trascurabili; i rancori reciproci e la sfiducia crescono invece di diminuire. Basta pensare alle denunce formulate dalla stampa araba contro Israele accusata di distribuire nei Paesi arabi caramelle per ridurre la fertilità delle donne; al fatto che nessun avvocato giordano abbia accettato di difendere due arabi israeliani accusati di furto in Giordania; al fatto che la dipendenza quasi coloniale dei palestinesi da Israele non è molto diminuita. La violenta reazione araba al discorso del primo ministro francese Jospin in visita in Israele, nel quale definiva gli hezbollah del Libano “terroristi”, ne è una chiara prova. Cambiati invece sono la dimensione politica e il carattere di Israele.
Nel 1964, Paolo VI non si soffermò a Gerusalemme ancora divisa fra Israele e Giordania. Usò il valico di Megiddo, luogo dello scontro apocalittico fra Gog e Magog, e se ne andò inviando dal suo aereo un ringraziamento al presidente dello Stato di Tel Aviv.
Giovanni Paolo II sarà ricevuto ufficialmente in una Gerusalemme unita dalle armi israeliane, dopo aver ripetutamente chiesto perdono per la passata condotta dei cristiani verso gli ebrei.
Paolo VI venne accolto in mezzo all’erba dei campi e ai reticolati della valle di Yezrael da un presidente israeliano – Shazar – che era l’incarnazione del sionismo laico, socialista e pioniere. Giovanni Paolo II sarà accolto da un presidente, Weizman, incarnazione di una élite opulenta e intaccata dalla corruzione, sempre meno sionista socialista e persino ebraica. Un sesto della popolazione israeliana è infatti arabo, e il 50 per cento dell’immigrazione non è più ebraico.
Nel 1964 la popolazione dello Stato era di due milioni e 400mila abitanti, di cui 189mila musulmani. All’inizio del 2000 si avvicina ai sei milioni di cui quasi uno musulmano. Le esportazioni ammontavano allora a 337 milioni di dollari; oggi si avvicinano agli 11 miliardi, superiori a quelle, verso la comunità europea, di tutti i Paesi arabi riuniti, petrolio escluso.
Nel 1964 Israele era un Paese isolato, senza collegamenti aerei, navali o terrestri con Paesi arabi, africani e asiatici. Oggi impaurisce i suoi vicini per il suo potenziale atomico, la sua alleanza strategica con la Turchia e gli Stati Uniti, la sua penetrazione tecnologica in India, Cina e nelle Repubbliche islamiche ex sovietiche.
Nel 1964 Nasser ruppe i rapporti diplomatici con la Tunisia perché Habib Burghiba, in visita a Gerico, dichiarò che la pace era il miglior modo per neutralizzare Israele. Nel 2000, anno della seconda visita papale, la preoccupazione araba, ed in particolare siriana, è che la normalizzazione dei rapporti con Israele neutralizzi i Paesi arabi, mosaici di gruppi etnici e religiosi che aspirano all’autonomia o all’indipendenza politica.
Nel periodo trascorso fra le due visite papali è finita la guerra fredda, è scomparsa, almeno temporaneamente, l’influenza russa sul Medio Oriente, è decaduta l’arma del petrolio, è crollato il panarabismo. Il fondamentalismo islamico ha fallito nei suoi scopi rivoluzionari, anche se è penetrato molto più profondamente di prima nel tessuto politico e sociale dei Paesi della regione, come, del resto, ha fatto il fondamentalismo ebraico e cristiano in Israele e nel Libano. Allo stesso tempo l’enorme sviluppo economico israeliano, l’immigrazione dalla Russia, la lunga occupazione militare dei territori palestinesi hanno indebolito le infrastrutture politiche e ideologiche del Paese, hanno promosso una forte corrente fondamentalista religiosa che oppone una visione teocratica antipluralistica a quella democratica multiculturale dei fondatori dello Stato.
Uno dei più curiosi sintomi di trasformazione e di confusione nel mondo arabo, è il fatto che regimi autoritari rivoluzionari che si sono impadroniti del potere abbattendo vecchie dinastie di regnanti o di notabili tendono a creare nuove dinastie familiari “repubblicane”: in Iraq, in Siria, forse in Egitto, forse in Libia. Allo stesso tempo, vecchie dinastie monarchiche autoritarie in Arabia Saudita, nel Kuwait, in Giordania, in Marocco, tendono a promuovere princìpi democratici e il giovane re di Giordania si traveste per mescolarsi con la gente nei mercati e ascoltarne le opinioni.
In Israele, tra i più curiosi sintomi di trasformazione ci sono la crescita del movimento femminista all’interno del settore ortodosso ultramaschilista e l’interesse per il misticismo ebraico e orientale tanto nel mondo laico quanto in quello religioso.
Nel Medio Oriente che cambia al di fuori dell’attenzione dei mezzi di informazione, la spinta comune alla trasformazione è frutto dello scoppio demografico, della diffusione della tecnologia e dell’informazione sulla quale i governanti hanno perduto il controllo.
L’atmosfera che accoglie la seconda visita papale non è più dominata dalle preoccupazioni della sicurezza ma da quelle dell’economia, della globalizzazione e della ricerca di nuove identità capaci di favorire – o ostacolare – la coesistenza fra la Lexus e l’ulivo.


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