Home > Archivio > 02 - 2000 > L’egoismo dei protezionisti
GLOBALIZZAZIONE
tratto dal n. 02 - 2000

L’egoismo dei protezionisti


Bisogna aiutare i Paesi poveri a entrare con più forza nei mercati mondiali. Senza discriminare nessuno. Una riflessione sulle difficoltà che affronta la World Trade Organization dopo il fallimento di Seattle


di Enrico Pianetta


«La globalizzazione non è una scelta politica, è un fatto»; «Nessuna nazione, piccola o grande, può essere lasciata fuori da questa importante istituzione e dobbiamo fare in modo che questa Organizzazione sia strumento per un mondo più giusto e migliore»; «Il sistema Wto per le regole e gli accordi del commercio ha contribuito grandemente alla prosperità globale»: sono queste alcune affermazioni rispettivamente di Clinton, Fidel Castro e Blair pronunciate in occasione del Convegno mondiale sui commerci multilaterali del maggio ’98.
La globalizzazione dei commerci è un dato di fatto, in costante incremento, se si pensa che dal 6% del 1950, lo scambio di merci e servizi venduti al di fuori dei confini nazionali ha superato nel 1998 il 25% del prodotto mondiale.
Il concetto di lontananza e quindi il fattore geografico, che ha rappresentato da sempre il grande ostacolo tale da implicare fatica e costi rilevanti, è oggi superato agevolmente e non rappresenta più un ostacolo per gli scambi di merci e servizi. Ogni informazione, ogni servizio che può essere codificato e quindi trasmesso elettronicamente, può essere “prodotto” in qualsiasi punto del mondo ed “esportato” in qualsiasi altro punto in tempo reale. È facile prevedere che il commercio elettronico (“e-commerce”) incrementerà a velocità esponenziale. Del resto anche le stesse tariffe delle comunicazioni telefoniche nell’arco dei prossimi dieci anni subiranno una drastica riduzione: le telecomunicazioni saranno un bene pressoché libero e quindi soggetto ad ulteriore diffusione. Come pure la riduzione dei costi delle tecnologie informatiche sta permettendo l’accesso a milioni di persone. Queste conoscenze e quindi la capacità di formazione ormai sono l’elemento indispensabile per creare nuova occupazione e per consentire alle giovani generazioni di inserirsi nella dimensione mondializzata. E tutto ciò si ripercuote nell’ambito di quelli che sono gli scambi commerciali.
Perché ormai questa è la tendenza internazionale: apertura dei mercati mondiali, abbassamento delle tariffe doganali, crescita delle domande, crescita dell’offerta e quindi sviluppo ed incremento delle esportazioni nell’ambito di una competizione che si basa sulla capacità di saper produrre secondo standard qualitativi sempre più accentuati. È questa l’economia globalizzata, l’economia che supera le frontiere, indifferente al fattore geografico grazie all’enorme potenzialità del commercio elettronico, con una informazione senza frontiere e sempre più disponibile per chiunque voglia cimentarsi a sviluppare le proprie iniziative.
In una logica di sviluppo cui saranno chiamati non soltanto i Paesi tradizionalmente liberi negli scambi economici commerciali, ma che vedrà anche i Paesi in via di sviluppo (Pvs) soggetti concreti nell’ambito del contesto commerciale mondiale.
La Banca mondiale stima infatti che i Paesi in via di sviluppo potranno mantenere una crescita, per i prossimi 10-15 anni, del 5,5%, che rappresenta, grosso modo, il doppio di quella dei Paesi industrializzati; ciò comporta una riduzione delle distanze economiche tra queste due aree, con il conseguente incremento della ricchezza prodotta dai Pvs che si stima passerà dal 15% di questo decennio al 30% fra 15-20 anni.
La mondializzazione degli scambi è un processo storico in atto; non si tratta di rifiutarlo e di chiudersi, come spesso accade di fronte a fenomeni nuovi, in un atteggiamento difensivo; si tratta di governarlo attraverso la definizione di regole e la scelta dei modi e dei mezzi per rispettare gli accordi definiti.
La World Trade Organization, Wto (Organizzazione mondiale del commercio), è l’istituzione permanente che, dal 1995, si è sostituita de facto al Gatt (Accordo generale sulle tariffe e sul commercio) ed ha deciso di ritrovarsi a discutere le comuni iniziative da intraprendere nei prossimi anni in ambito economico nella Terza conferenza ministeriale, chiamata Millennium Round, che si è svolta a Seattle dal 29 novembre al 3 dicembre 1999.
La Wto ha lo scopo di rafforzare l’economia mondiale, aumentare gli investimenti, l’occupazione ed i guadagni e amministrare gli accordi multilaterali che la costituiscono; agisce inoltre come forum di discussione, fornendo meccanismi di conciliazione delle dispute, cooperando proficuamente con le altre istituzioni internazionali. I suoi princìpi sono il commercio senza discriminazione, l’accesso ai mercati, la promozione della competizione leale e lo sviluppo economico.
Nei giorni del Millennium Round, tuttavia, un dissenso diffuso e strisciante, materializzatosi in due manifestazioni – variegate cartine di tornasole di idee politiche – ha individuato come minimo comun denominatore la protesta contro la Wto. Da parte loro i media convenuti hanno badato, come è naturale in tali circostanze, a sottolineare l’atteggiamento frontale attuato dai dimostranti nei confronti della Wto e delle sue finalità. Il presidente Clinton ha cancellato il suo intervento ufficiale al Centro dei congressi e, nel dichiarare la propria simpatia per i dimostranti sia ambientalisti che sindacalisti, si è espresso contro la poca trasparenza della Wto e contro le sue regole che danneggiano i Paesi in via di sviluppo: qualcuno ha letto tutto ciò in termini di “elezioni presidenziali americane”.
Che esistessero dissidi e profonde divergenze di vedute lo si sapeva, come pure era noto che non si era riusciti a ricomporli nei pochi mesi di preparazione della Conferenza, successivi all’insediamento del nuovo direttore Mike Moore che ha sostituito il nostro validissimo Renato Ruggiero.
Si sapeva per certo che i sussidi all’agricoltura, l’adeguamento delle condizioni di lavoro nei Pvs ed in particolare del lavoro minorile – il cosiddetto dumping sociale – la sicurezza alimentare dei prodotti geneticamente modificati, la tassazione e il problema della “privacy”del commercio elettronico, la coerenza tra commercio e tutela dell’ambiente, la completa liberalizzazione del mercato culturale, rappresentavano temi sui quali c’era forte disparità di vedute e sui quali non c’era una base di accordo. Gli Usa volevano trattare e chiudere solo sui temi dell’agricoltura e dei servizi; l’Ue voleva un’agenda a tutto campo estesa all’ambiente, alla sicurezza alimentare, agli standard di lavoro, ecc. Questi i principali dissidi profondi e le posizioni antitetiche con le quali i tre grandi blocchi (Stati Uniti, Europa e Paesi in via di sviluppo) si sono presentati a Seattle e che hanno rappresentato la causa principale del fallimento.
Il nulla di fatto registratosi a Seattle lascia senza dubbio l’amaro in bocca, ma deve servire da lezione. Solo la concertazione può dunque aiutare a creare situazioni di maggior equità, per smussare gradualmente il divario che separa i Paesi industrializzati da quelli ancora in via di sviluppo.
Andrebbero inoltre rivisti la struttura e i compiti della Wto: l’una troppo debole, gli altri troppo ampi per poter essere gestiti al meglio senza intoppi di sorta: l’attenzione andrebbe incentrata esclusivamente sulla regolamentazione del commercio, demandando ad altri soggetti dell’Onu, con cui avviare in seguito un dialogo fattivo, la gestione di problemi di diversa natura. Sarebbe altresì necessario porre enfasi maggiore sulla necessità di una regolamentazione chiara ed efficiente, che permetta di gestire al meglio il processo di globalizzazione, nonché sui mezzi atti a far rispettare a tutti le decisioni e le misure adottate. Cosa che non rappresenta un problema di semplice soluzione. Ma, in ultima analisi, ancora una volta ad uscirne strapazzato e sconfitto è soprattutto un preoccupante sostrato protezionista che è emerso in seno a tutti gli Stati, persino a quelli che, per tradizione, vengono considerati liberisti. Per dirla in breve, si è badato principalmente a conservare lo status quo, ponendo più attenzione all’effimero pericolo di trovarsi costretti a fare concessioni che non al vantaggio, in prospettiva, di creare una situazione efficace di libero mercato su scala più vasta di quella odierna.
Allora la battuta di arresto di Seattle ci deve preoccupare. Ci deve preoccupare e ci deve fare riflettere anche in ordine al fatto di non appesantire troppo la funzione della Wto per fare in modo che possa funzionare gradualmente su temi ed argomenti specifici collegati principalmente alle barriere tariffarie e al libero commercio.


Español English Français Deutsch Português