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GIUBILEO DEI MALATI
tratto dal n. 02 - 2000

Un tesoro per la Chiesa


Il Giubileo degli ammalati è stato un momento forte per ricordare che «annunciare il regno di Dio e guarire gli infermi» (Lc 9, 2) è il nucleo stesso dell’evangelizzazione


del cardinale Fiorenzo Angelini


Il giusto risalto che, nelle celebrazioni giubilari, viene dato alla carità operosamente impegnata nel servizio ai fratelli e, particolarmente, a quelli ammalati nello spirito e nel corpo, non deve indurre a una interpretazione riduttiva di questa primaria espressione della evangelizzazione. I giubilei sono occasione preziosa per richiamare l’attenzione su questo aspetto centrale della vita e della testimonianza cristiana che da sempre accompagna e deve accompagnare l’azione della Chiesa nella storia. Sull’esempio di Cristo, infatti, la Chiesa, sin dalle sue origini, ha vissuto nell’attenzione agli infermi il momento qualificante della sua azione pastorale. Alla radice di questo impegno sta il dovere irrinunciabile di annunciare quello che Giovanni Paolo II chiama il «vangelo della vita» e che considera «oggi, un momento fondamentale della missione della Chiesa»; missione «tanto più necessaria quanto più dominante si è fatta una “cultura di morte”».
Cura e governo degli infermi (XV secolo), Domenico di Bartolo, Ospedale di Santa Maria della Scala, Siena

Cura e governo degli infermi (XV secolo), Domenico di Bartolo, Ospedale di Santa Maria della Scala, Siena

Il Giubileo, quindi, è soltanto un momento forte per ricordare ai cristiani – coinvolgendo anche coloro che non professano la nostra fede – che «annunciare il Regno di Dio e guarire gli infermi» (Lc 9, 2) è il nucleo dell’evangelizzazione.
Il Giubileo implica nozione e prassi di pellegrinaggio ai grandi luoghi della cristianità, e particolarmente a Roma. Tuttavia, già un millennio prima dell’indizione del primo anno giubilare (1300) da parte della Chiesa cattolica, ai pellegrini che muovevano verso queste mete si prestava un’amorevole assistenza sanitaria.
Lo studio delle più antiche forme di diaconia dimostra che esse avevano un marcato carattere medico-assistenziale. Alle primitive diaconie si affiancarono, a partire dall’Oriente, gli xenodochi, ospizi per forestieri che preludevano ai futuri ospedali. La creazione di alcuni xenodochi è attribuita già a Elena, madre di Costantino. Delle benemerenze di questi luoghi di ricovero e di cura è testimonianza una lettera dell’imperatore Giuliano l’Apostata il quale, nel 362, suggeriva, come valido espediente nella lotta contro i cristiani, di imitarli nei costumi e soprattutto nella benevolenza che essi dimostravano verso i malati.
Agli xenodochi dette decisivo incremento il monachesimo. La celebre Basiliade, fondata da san Basilio nei pressi di Cesarea in Terra Santa, configurava un’autentica città ospedaliera, mentre a Betlemme, san Girolamo, durante il suo lungo soggiorno in Palestina, creò un ospizio del quale affidò la guida ad alcune nobili e sante donne di Roma, dove la nobildonna Fabiola aveva a sua volta fondato uno xenodochio.
La Regola di Benedetto da Norcia, dopo aver ricordato il dovere primario di «prendersi cura dei fratelli malati, servendoli veramente come Cristo in persona», detta un codice deontologico che contiene le norme di base per l’operatore sanitario.
Sempre con un occhio ai pellegrini, tra i secoli X e XI, nell’ambito degli xenodochi, prese avvio un’assistenza sanitaria diversificata: nosocomi, ptocotrofi (ospizi per i più poveri), gerontocomi. Lungo le strade che portavano a Roma, a Gerusalemme, a Santiago de Compostela, per iniziativa dei monasteri, furono fondate infermerie e anche i primi ospedali. A Roma, nella periferia della città, sorsero le Scholae (dei Frisoni, dei Teutoni, dei Franchi, dei Sassoni) le quali erano ospizi che offrivano assistenza ai pellegrini delle rispettive nazioni. La prima di queste Scholae era stata eretta a Roma nel 727 da Ina, re dei Sassoni. Quando, più tardi, essa decadde come istituzione di soccorso, fu sostituita, per opera di Innocenzo III, con la sede dell’attuale ospedale di Santo Spirito in Sassia che può considerarsi il più antico vero e proprio ospedale d’Europa.
Dal secolo XII al secolo XVI la socializzazione della medicina a opera della Chiesa toccò traguardi encomiabili che, all’inizio del secolo XVI, strapparono un elogio a Martin Lutero. I testi di storia della Chiesa e anche di storia civile che tanto spazio dedicano al Concilio di Trento e alla cosiddetta Controriforma o Riforma cattolica ignorano abitualmente che forse il frutto più efficace, più credibile e anche più ecumenico del Concilio tridentino fu l’impegno della Chiesa in una rinnovata pastorale sanitaria che ebbe come espressioni più alte Giovanni di Dio (1495-1550) e Camillo de Lellis (1550-1614), fondatori rispettivamente dei Fatebenefratelli e dei Ministri degli infermi o Camilliani.
Si capisce, perciò, come il coinvolgimento non soltanto di Roma ma anche di tutte le Chiese particolari o locali nella celebrazione giubilare comporti la promozione di una crescente sensibilizzazione verso l’affermazione della giustizia e della carità attraverso una sempre più fattiva assistenza a coloro che soffrono e alla penetrazione del mistero del valore sanante della sofferenza, secondo il profondissimo aforisma cristologico formulato da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Salvifici doloris (1984) sul significato cristiano della sofferenza umana: «Cristo allo stesso tempo ha insegnato all’uomo a far del bene con la sofferenza e a far del bene a chi soffre».

Un significativo raffronto
L’attualità di una particolare riflessione sul rapporto tra il Giubileo e i malati mi sembra possa cogliersi in questa singolare circostanza. Tra il Giubileo del 1950 – chiamerei anche quello grande Giubileo – e il Giubileo in corso si colloca il periodo storico che, mentre ha visto i più straordinari progressi della medicina al servizio della vita e della sua qualità, ha anche registrato il maggiore impegno, da parte del magistero e del ministero della Chiesa nel campo della sanità e della salute considerato come area privilegiata della sua azione pastorale.
La seconda metà del secolo XX è l’epoca della medicina dei trapianti, della sconfitta di epidemie endemiche, dei passi avanti decisivi dell’ingegneria genetica, dell’avvio della piena socializzazione dell’assistenza sanitaria, tanto che, un decennio fa, l’Organizzazione mondiale della sanità coniò il motto impegnativo: «Salute per tutti per l’anno 2000».
Da Pio XII ai nostri giorni, con una continuità e un crescendo che non hanno precedenti, il vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale ha privilegiato nel suo magistero e nelle direttive del suo ministero i temi e i problemi della sanità e della salute convogliandoli nel richiamo al tema globale della vita. Chiamata in causa soprattutto dalla biomedicina, la morale cattolica, sotto l’impulso dei papi compresi tra i due ultimi giubilei, ha prontamente risposto all’appello.
I Discorsi ai medici di Pio XII, la sua dottrina e il suo insegnamento sul valore della sofferenza, le direttive in materia di rapporto tra medicina e morale hanno visto il magistero della Chiesa entrare non solo a pieno diritto, ma con una nuova e grande energia nell’area della promozione e della difesa della vita; il grido a sostegno dei poveri e degli abbandonati lanciato da Giovanni XXIII con la Mater et magistra; i punti fermi dettati da Paolo VI nell’enciclica Humanae vitae e l’incessante impegno di Giovanni Paolo II costituiscono l’asse portante dell’impegno della Chiesa nel nostro tempo.
Considero un dono e un privilegio aver potuto seguire da vicino e sostenuto nella pratica attuazione, dapprima l’avvio, nella diocesi di Roma, di una pastorale sanitaria considerata da Pio XII come banco di prova di un rinnovamento ecclesiale che doveva partire dalla Città eterna e, quindi, la serie di iniziative promosse, incoraggiate e sostenute da Giovanni Paolo II in questo campo.
Nel corso del Congresso internazionale che vide riuniti a Roma, ai primi di ottobre del 1982, oltre quattromila medici davanti al Papa che volle partecipare al nostro incontro, chiedemmo umilmente un documento sulla sofferenza e il suo significato cristiano. L’11 febbraio 1984, usciva la lettera apostolica Salvifici doloris che rappresenta il primo e più ampio documento pontificio sul significato cristiano della sofferenza umana. Alla stessa data e a un anno solo di distanza, il Papa, superando non lievi ostacoli, creò il dicastero pontificio – prima Commissione, poi Pontificio Consiglio – della Pastorale per gli operatori sanitari, il cui primo impegno – anche questo, primo nella storia della Chiesa – fu di condurre un censimento delle istituzioni sanitarie cattoliche nel mondo e di dare vita a una rivista scientifica (Dolentium hominum. Chiesa e salute nel mondo), in diverse edizioni linguistiche, che desse un contributo organico e continuativo alla formazione etica e cristiana degli operatori sanitari. Il censimento non mirava a isolare la Chiesa, bensì ad aprirla al mondo, poiché tra le finalità istitutive del dicastero c’era anche quella «di seguire con attenzione e studiare orientamenti programmatici e iniziative concrete di politica sanitaria, sia a livello internazionale che nazionale, al fine di coglierne la rilevanza e le implicazioni per la pastorale della Chiesa». E subito mi resi conto di quale inesauribile sorgente di dialogo e di autentico "ecumenismo delle opere" fosse l’approccio e l’incontro con i responsabili della sanità di tutto il mondo indipendentemente dai regimi politici, dalle posizioni ideologiche e persino dalle differenze religiose.
Continuando su questa linea, il Papa, l’11 febbraio 1984, istituiva la Pontificia Accademia per la vita mentre, pressoché contestualmente, era stata istituita la Giornata mondiale del malato. Sempre nel 1994 a cura del Pontificio Consiglio veniva pubblicata nelle principali lingue parlate nel mondo la prima Carta degli operatori sanitari e la Chiesa, nella primavera del 1995 poteva salutare la pubblicazione dell’enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana, nella quale – con straordinaria apertura – si afferma che «la difesa e la promozione della vita non sono monopolio di nessuno, ma compito e responsabilità di tutti». Infatti, precisava il Papa, «nella vita c’è sicuramente un valore sacro e religioso, ma in nessun modo esso interpella solo i credenti: si tratta, infatti, di un valore che ogni essere umano può cogliere anche alla luce della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti».
Se nel corso di questo grande Giubileo le Chiese particolari hanno tutte programmato sul piano diocesano, interdiocesano e nazionale, momenti celebrativi dedicati ai malati e agli operatori sanitari, ciò è soprattutto frutto della sollecitudine e della tempestività con cui – non appena istituito il dicastero pontificio della Pastorale per gli operatori sanitari – si procedette alla nomina, nell’ambito di tutte le conferenze episcopali, di un vescovo delegato per la pastorale sanitaria.
Nel sottolineare che il Giubileo è momento rilevante e occasione preziosa per scuotere la coscienza cristiana sul dovere primario della sollecitudine verso coloro che soffrono nel corpo e nello spirito, credo si debba riconoscere che la consapevolezza della priorità di questo dovere resta ancora debole. Da tempo Giovanni Paolo II va ripetendo che il grado di civiltà di un popolo si commisura sulla sua attenzione verso coloro che soffrono, i quali, nell’umanità, sono maggioranza. In realtà, salute e malattia, fedele specchio del valore assoluto della vita, non sono soltanto il più universale dei problemi, ma costituiscono l’elemento che, più di ogni altro, e in maniera preponderante, può unire i popoli nella ricerca di soluzione ai più gravi problemi i quali sono tali in rapporto alla salvaguardia e alla promozione della vita e della sua qualità.
Delle opere di giustizia – chiamate in causa con vigore anche dalle norme per lucrare l’indulgenza giubilare – il servizio a chi soffre è la prima, perché è la più urgente e quella che conta il maggior numero di destinatari. A questa smisurata popolazione che sperimenta il dolore non si possono non aggiungere le famiglie.
La personale e lunga esperienza vissuta all’interno del mondo della sanità e della salute ha maturato in me anche la certezza che l’attuale crisi di vocazioni sacerdotali e religiose potrebbe trovare un antidoto decisivo in una educazione e formazione dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa nonché degli animatori vocazionali attraverso il concreto e quotidiano contatto con il mondo della sofferenza, poiché – per espressa dichiarazione di Cristo – il Suo Volto è prioritariamente e pienamente riconoscibile in coloro che soffrono.



La guarigione dello zoppo (XV secolo), Masolino, Cappella Brancacci, Firenze

La guarigione dello zoppo (XV secolo), Masolino, Cappella Brancacci, Firenze

Nessuno possiede più di quello che ho io

La preghiera di Kirk Kilgour, ex campione di pallavolo, da 24 anni su una sedia a rotelle

Il 14 febbraio scorso Giovanni Paolo II ha ricevuto un gruppo di partecipanti al Giubileo dei malati, tra i quali era presente anche Kirk Kilgour – il campione di pallavolo che giocò anche nella nazionale italiana negli anni Settanta –, che da 24 anni è paralizzato in seguito a una caduta durante l’allenamento. Kilgour, in occasione del Giubileo dei malati, ha scritto una preghiera che ha consegnato a Giovanni Paolo II durante l’incontro. Eccone il testo:

«Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi ed Egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà. Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese: Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio. Gli domandai la ricchezza per possedere tutto e mi ha lasciato povero per non essere egoista. Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me ed Egli mi ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno di loro. Domandai a Dio tutto per godere la vita e mi ha lasciato la vita perché io potessi essere contento di tutto. Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo, ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà. Le preghiere che non feci furono esaudite. Sii lodato, o mio Signore: fra tutti gli uomini nessuno possiede più di quello che ho io!».


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