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ORDINI RELIGIOSI
tratto dal n. 02 - 2000

La fede custodita nel cuore e difesa con la vita


Nel momento della morte si fece scrivere su un rotolo di pergamena e porre in mano queste parole: «Io, Giovanni, credo e professo la fede che i santi apostoli hanno predicato e che i santi padri hanno confermato nei quattro concili». Storia di Giovanni Gualberto, fondatore della Congregazione Benedettina Vallombrosana


di Giovanni Ricciardi


Il 13 febbraio del 1068 la città di Firenze fu protagonista di un evento straordinario. Per riferirne al papa Alessandro II, «reverendissimo e universale vescovo della Prima Sede», fu vergata una lettera che reca, per la prima volta nella storia di quel borgo allora modesto, la firma de «il clero e il popolo fiorentino con l’omaggio di una sincera devozione». Un documento che è stato definito come l’atto di nascita del comune di Firenze.
Gloria di san Giovanni Gualberto
(1457 circa), Zanobi di Benedetto  Strozzi, Fondazione G. Cini, Venezia

Gloria di san Giovanni Gualberto (1457 circa), Zanobi di Benedetto Strozzi, Fondazione G. Cini, Venezia

Si trattò di una vera e propria “prova del fuoco”, voluta dal popolo fiorentino per verificare la fondatezza di un’accusa di simonia. Un monaco, che assunse poi il nome di Pietro Igneo, attraversò indenne una catasta ardente con la croce in mano per dimostrare la veridicità dell’accusa, rivolta nientemeno che contro il vescovo, Pietro Mezzabarba, detto Pietro Pavese.
Scrivono i fiorentini a papa Alessandro: «La paternità vostra già da tempo è a conoscenza dei nostri disagi e sofferenze, come pure della lotta dei monaci contro l’eresia simoniaca. E adesso è anche giusto che siate informato di come l’altissimo Dio, nella sua pietà e misericordia, abbia cancellato dai nostri cuori il tormento per questa situazione. Il Signore Dio nostro ha operato in mezzo a noi segni e prodigi con i quali ha fugato dai nostri animi la cecità dell’ignoranza, l’oscurità del dubbio e le tenebre dell’errore, e accrescendo in noi la fede, dilatandola e consolidandola, è rifulsa amorevolmente nelle nostre menti la luce della sua verità. È sceso dal cielo il buon Pastore e, alla presenza delle sue pecorelle che lo imploravano con tutto l’ardore del cuore, ha dato al suo popolo, di mezzo al fuoco, un responso più chiaro del sereno, più luminoso del sole, più manifesto di ogni parola, più certo di ogni diretta visione. Nel suo tremendo giudizio, Dio ha reso noto che cosa il popolo fiorentino debba pensare di Pietro Pavese, lui che voleva essere nostro vescovo».
La prova del fuoco si svolse davanti al monastero di San Salvatore a Settimo, alle porte della città. Un monastero che allora, da pochi anni, si era legato alla riforma monastica di Vallombrosa, intrapresa trent’anni prima da Giovanni Gualberto. La memoria di questo santo rimase storicamente legata a questo episodio tanto eclatante.
La vita di Giovanni Gualberto – nacque intorno all’anno 1000 – fu immersa nel clima di turbamento provocato nella Chiesa dalla lotta contro la simonia, l’acquisto di cariche ecclesiastiche per mezzo di denaro o favori. Una realtà che in quegli anni, nell’Italia centrosettentrionale, rappresentò un potente motivo di tensione all’interno del corpo ecclesiale. Quella di Giovanni è la storia di un’esperienza monastica che non poteva non rappresentare anche una “scelta di campo”, nell’ambito delle lotte ecclesiastiche del tempo. Di esse il Gualberto fu, in qualche modo, un protagonista.
Dei suoi anni giovanili sappiamo poco. I biografi raccontano che la sua vocazione monastica nacque da un fatto di sangue. Figlio di nobili fiorentini, si trovò, per ragioni di onore, a dover vendicare la morte violenta del fratello Ugo. Il casuale incontro con l’assassino, la sua supplichevole richiesta di perdono, in ginocchio, con le mani aperte a forma di croce, la rinuncia alla vendetta da parte di Giovanni, il suo ingresso nella chiesa di San Miniato al Monte, il cenno del capo con cui il Crocifisso avrebbe approvato la sua scelta sono all’origine della decisione del giovane Gualberto di farsi monaco proprio nell’abbazia che ancora oggi spicca sulle colline a ridosso di Firenze.
Ne sarebbe uscito, qualche anno più tardi, forse nel 1035, turbato dall’aver appreso che il suo abate, Oberto, si era procurato la carica in modo simoniaco. Un fatto non infrequente nella vita della Chiesa. Nei monasteri, che spesso erano di proprietà di potenti famiglie feudali o dei vescovadi, «la nobiltà ed anche i vescovi riuscivano quasi sempre a controllare dall’esterno la nomina dell’abate, facendo emergere personalità mediocri, ma politicamente accomodanti. Talvolta la carica abbaziale veniva fatta oggetto di vero e proprio mercato da parte di chi, papa o vescovo, imperatore o marchese, aveva un qualche titolo per influire direttamente sull’elezione o aveva il diritto di procedere all’investitura dell’eletto. Questo metodo, ancor più diffuso nell’ambito dell’elezione dei vescovi, veniva condannato come simonia da parte degli uomini più spirituali, che anelavano a una profonda riforma della Chiesa, ma nessuna struttura era per il momento in grado di abolirlo del tutto, tanto era diffusa la prassi di utilizzare a fini privati i beni ecclesiastici, che a loro volta erano frutto di donazioni private più o meno disinteressate» (G. Spinelli, Giovanni Gualberto e la riforma della Chiesa in Toscana, Milano 1984, p. 18).
L’abbazia di Vallombrosa in provincia di Firenze

L’abbazia di Vallombrosa in provincia di Firenze

È questo il quadro in cui Giovanni, desideroso di vivere la regola di Benedetto, uscì dal monastero e chiese il consiglio dell’eremita Teuzo, un monaco che godeva fama di santità in Firenze. «Mi fa tanto piacere quello che mi dici» fu la risposta del santo monaco «ma non so proprio come consigliarti. Da me però non riceverai mai il suggerimento di prestare obbedienza a Simon Mago! E se passi in un altro monastero di queste parti, mentre credi di sfuggire ai denti del leone, non scamperai al morso del serpente». Giovanni partì così alla ricerca di un luogo dove poter vivere più fedelmente il proprio stato di vita. Attratto dalla fama di san Romualdo, trascorse qualche mese nella nuova fondazione di Camaldoli dove conobbe lo spirito della vita eremitica. Ne uscì per giungere a Vallombrosa (vallis imbrosa, cioè “valle piovosa”) nella primavera del 1036, dove costituì un primo nucleo di vita cenobitica con Paolo e Guntelmo, due monaci del monastero di Settimo che vi conducevano un’esperienza eremitica.
«Quel che importa rilevare è che il Gualberto prese alla lettera il consiglio di Teuzo e, salvo un breve soggiorno a Camaldoli, non entrò in nessun altro monastero, ma se ne fondò uno su misura, evitando così una volta per sempre il rischio di sottostare a un abate simoniaco. Così in lui vocazione alla vita monastica e vocazione alla riforma della Chiesa fanno un tutt’uno: il monastero di Vallombrosa nasce dalla scelta del suo fondatore di non scendere ad alcun compromesso con la simonia» (G. Spinelli, op. cit., p. 50).
In breve tempo chierici, monaci e laici si uniscono a Giovanni nella solitudine vallombrosana per attuare la vita monastica. «Si tratta» spiega lo Spinelli «di un ritorno integrale alla regola benedettina, intesa nel suo senso letterale, riscoprendone altresì la matrice orientale, quella dei Padri del deserto e di san Basilio. L’eremitismo della scelta iniziale si riduce ormai soltanto all’ambiente, lontano dai rumori della città ed immerso in un paradiso di verde, che invoglia alla contemplazione. L’organizzazione della comunità si evolve lentamente verso il più puro cenobitismo benedettino» (G. Spinelli, op. cit., p. 37).
Questa esperienza monastica si qualificava come nova conversio, ossia come uno specifico rinnovato modo di vivere la vita cristiana. Uno dei primi documenti che attestano la presenza di monaci a Vallombrosa è l’atto del 3 luglio 1039 con cui la badessa Itta, del monastero di Sant’Ellero, dona alla nuova comunità un terreno e vi aggiunge una vigna per aiutare «questi fratelli a dedicarsi con sicurezza nel servizio di Dio».
Già nel 1040 dal nucleo di Vallombrosa nasceva il monastero di Montescalari, e nel decennio intorno al 1050, seguivano le fondazioni di San Salvi, San Pietro di Moscheta, San Paolo di Razzuolo. Inoltre, nonostante la sua riluttanza ad accettare monasteri già esistenti, Giovanni acconsentì, per le loro insistenze di condividere la sua riforma, all’aggregazione delle badie di San Michele a Passignano (dove oggi il santo è sepolto), di San Salvatore a Settimo e di Santa Reparata a Marradi.
Nel frattempo, sale al soglio pontificio Leone IX (1049-54), che incontrerà il Gualberto a Passignano nel 1050, restando fortemente impressionato dal suo spirito di preghiera e dal suo amore alla povertà. Della comunità monastica di Vallombrosa si comincia a parlare anche fuori di Firenze e della Toscana. E ben presto Giovanni, che aveva cercato un luogo lontano dal mondo per seguire la sua vocazione, che sapeva a malapena leggere e scrivere, si troverà coinvolto in una lotta che vedrà protagonisti gli uomini più dotti ed eminenti della Chiesa del suo tempo, dal cardinale Umberto di Silva Candida a san Pier Damiani, fino a quel monaco, Ildebrando di Soana, che salirà al soglio pontificio col nome di Gregorio VII nell’aprile del 1073, pochi mesi prima della morte di Gualberto.
Pietro e Paolo, particolare dei mosaici della cappella di San Zenonenella Basilica di Santa Prassede a Roma, dove è presente la Congregazione Benedettina Vallombrosana

Pietro e Paolo, particolare dei mosaici della cappella di San Zenonenella Basilica di Santa Prassede a Roma, dove è presente la Congregazione Benedettina Vallombrosana

Osserva a questo proposito lo storico Raffaello Volpini: «Se più o meno tutte le congregazioni monastiche nate nel secolo XI ebbero occasione di interessarsi alla riforma della vita ecclesiastica, nessuna come quella vallombrosana vi contribuì più direttamente. Sorta dalla protesta di Giovanni Gualberto alla simonia del suo abate ed allargatasi presto a tutta la Toscana, si trovò direttamente immersa in una temperie di fervide ansie religiose, per rispondere alle quali Giovanni Gualberto, che pure in stretta aderenza alla regola di san Benedetto aveva ribadito ai suoi monaci la proibizione di uscire dal chiostro, deroga poi alla prescrizione per le esigenze di una predicazione diretta alla restaurazione della disciplina e del costume ecclesiastico […]. Proprio questo impegno porta l’abate di Vallombrosa ad assumere, nei confronti del clero e dei laici, atteggiamenti peculiarissimi, che contraddistinguono il monachesimo vallombrosano da tutte le altre correnti monastiche di riforma».
Nel 1059 scoppia a Milano il caso dei “patarini”, che denunciano apertamente la simonia dell’arcivescovo e di gran parte del clero della città a lui legato. Il movimento di protesta assume toni radicali ai limiti dell’eresia, tanto che molti arrivarono a rifiutare, considerandoli non validi, i sacramenti amministrati dal clero simoniaco. In questa situazione di smarrimento, il diacono Arialdo inviò un’ambasceria a Vallombrosa chiedendo a Giovanni di inviare a Milano sacerdoti degni di amministrare al popolo i sacramenti. Il Gualberto non si tirò indietro e permise ad alcuni suoi monaci di uscire dal chiostro per far fronte all’emergenza. E certo, questa scelta appariva rischiosa proprio perché la lotta all’interno della Chiesa stava scivolando dal piano disciplinare a quello teologico. Con i rischi che Pier Damiani ben vedeva e che lo portarono a usare parole dure contro quei monaci che correvano il rischio di avallare le tesi pericolose di chi faceva dipendere la validità dei sacramenti dallo stato di grazia di chi li amministrava.
Certamente quei monaci non avevano la preparazione teologica adeguata per addentrarsi in queste dispute, né tanto meno il loro fondatore. Comunque, l’unico documento di Giovanni Gualberto che riguardi direttamente la questione della simonia, una lettera indirizzata al vescovo Ermanno di Volterra, rivela uno spirito fermo ma alieno da quegli estremismi che alcuni suoi biografi, anche antichi, tendevano ad attribuirgli.
L’autorità di cui godeva gli derivava tutta da quanti vedevano in lui, per coerenza di vita cristiana condotta insieme ai suoi monaci, un modello da seguire e da additare. «I monaci di Vallombrosa», scrisse Aiberto Dhespain, un santo monaco francese contemporaneo al Gualberto che soggiornò per qualche tempo a Vallombrosa, «com’è testimoniato sinceramente da molti, osservano la regola di san Benedetto con fermezza e perfezione, vivono del lavoro delle proprie mani, mortificano il loro corpo per la speranza della vita eterna con molte penitenze, sono ferventi di austero amore per la disciplina più rigorosa, sono accoglienti verso i pellegrini ed i poveri, pietosi nel seppellire i fratelli, esemplari inoltre in ogni aspetto della vita religiosa e superiori in santità a tutti i monaci finora visti».
Soffocato nel sangue il movimenti dei “patarini” nel 1066, la lotta si sposta vicino a Vallombrosa, in quella Firenze che ospitava, ormai da vari anni, un vescovo come Pietro Mezzabarba, che aveva addirittura ammesso in pubblico, seppur involontariamente, di aver acquistato la carica in modo simoniaco; e un monastero, come quello di San Salvi, che aveva aderito in toto alla riforma di Giovanni. Sono proprio i monaci di San Salvi ad opporre la resistenza più ferma al vescovo Pietro. Il quale arriverà a far saccheggiare il monastero e lasciare in fin di vita i monaci prima di esser deposto, dopo la prova del fuoco del 1068.
Giovanni visse ancora cinque anni dopo questa vicenda, dedicandosi a dar forma a quella che oramai poteva essere considerata una nuova Congregazione monastica. Con tutto ciò, Gualberto solo tardi e con riluttanza accettò per sé il titolo di abate e non assunse mai gli ordini sacri: e nell’organizzare i cenobi a lui affidati cercò di restare il più possibile fedele alla regola di Benedetto. A differenza di Cluny, che finì per creare monasteri interamente dipendenti dalla “casa madre”, inaugurando un centralismo tipico degli ordini del secondo millennio, Giovanni intese sempre la sua Congregazione come una federazione di monasteri autonomi, uniti solo da un vinculum caritatis. Lo ribadì egli stesso in una lettera scritta poco prima di morire (vedi box nella pagina a fianco), uno dei rarissimi documenti che portano la sua firma.
«Fino alla morte del Gualberto i vari monasteri non furono stretti tra loro da alcun vincolo particolare. Ognuno di essi aveva una propria autonoma gestione, attestata da tutte le fonti, ma soprattutto da quelle documentarie. Ogni abate si rivolgeva direttamente all’autorità del papa, ricevendo per il proprio monastero privilegi ed esenzioni senza che mai fosse tirata in campo la mediazione dell’abate di Vallombrosa» (G. Spinelli, op. cit., p. 41).
Giovanni amò la povertà e l’accoglienza dei poveri, che lo venerarono come santo già in vita soprattutto per i numerosissimi miracoli che gli erano attribuiti. Di lui è sottolineata, insieme alla dolcezza della carità, anche la purezza della fede. Come nel momento della morte, narrato dal primo dei suoi biografi, Andrea di Strumi: «Sentendo avvicinarsi l’ora del trapasso, si fece scrivere su un rotolo di pergamena e porre in mano queste parole: “Io, Giovanni, credo e professo la fede che i santi apostoli hanno predicato e che i santi padri hanno confermato nei quattro concili” perché si credesse che lui aveva custodito nell’intimo del suo cuore quella fede che aveva coraggiosamente difeso con le parole e con le opere».


L’eredità di san Giovanni Gualberto

Il fondatore di Vallombrosa, che il 1 ottobre 1193 fu canonizzato da Celestino III (nel 1951 Pio XII lo proclamò patrono delle guardie forestali d’Italia) non ha scritto una regola e non ha dato costituzioni: soltanto in prossimità della morte, su richiesta dei suoi discepoli, dettò una lettera-testamento sulla carità, da attuarsi anche come «unione fraterna» fra i monasteri, sotto la cura di “uno”, quale suo successore. Fu proprio san Giovanni Gualberto a designare, secondo l’uso del tempo, il discepolo Rodolfo, abate di Moscheta, come successore diretto.
Questo vinculum caritatis fu attuato soprattutto nell’annuale raduno degli abati, i quali sotto la guida dell’abate di Vallombrosa, ravvivavano la loro comunione fraterna scambiandosi persone e cose e favorendo consuetudini, in segno di affinità e collaborazione.
Fino al 1160 questo fu il legame e il sostegno dell’espansione vallombrosana in Toscana, Emilia Romagna, Lombardia e Sardegna in 57 abbazie con le loro dipendenze. È l’epoca d’oro, con autentiche testimonianze di santità, di cui fa l’elogio anche san Bernardo di Chiaravalle.
Poi, con l’accrescersi dei possedimenti e le relative ingerenze di poteri laici ed ecclesiastici, per non parlare delle implicazioni di monaci nelle complesse vicende partigiane e politiche, lo spirito si affievolì e si arrivò a contrasti, divisioni e scismi, ma non mancarono mai ambienti e soprattutto singole persone fedeli alla loro vocazione. Fra queste si accentuò l’esperienza della vita eremitica come prevede la stessa regola benedettina. Nella tradizione vallombrosana un monaco con la benedizione del suo abate poteva ritirarsi nelle vicinanze del monastero, mantenendo, specialmente nei giorni festivi, un concreto contatto con la sua comunità. A Vallombrosa si rese famoso l’eremo delle Celle o “Paradisino”, che domina sull’abbazia, una presenza interrotta soltanto con le soppressioni del secolo XIX.
Ma la piaga più rovinosa per tutti i monasteri della Congregazione, e particolarmente per Vallombrosa, fu la “commenda”, che durò dal 1300 a tutto il 1500. Essa consisteva nel conferimento del titolo di abate ad un chierico non appartenente alla Congregazione. Basti ricordare come il venerabile abate Biagio Milanesi, urtatosi con i Medici proprio a causa della commenda, fu relegato in Castel Sant’Angelo da Leone X, il quale impose come abate dei Vallombrosani il domenicano Giovanni Canigiani.
Di altra natura fu l’imposizione fatta da Eugenio IV nel 1437. Mise come abate di Vallombrosa il suo cubicularius Placido Pavanello, nell’intento di introdurre in tutta la Congregazione la riforma monastica di santa Giustina di Padova, ben diversa da quella attuata da san Giovanni Gualberto. Alle prime resistenze seguì la divisione tra favorevoli e contrari, poi prevalse l’istituzione padovana, non solo nella struttura della Congregazione, ma anche nel governo, nell’abito e nelle usanze.
Tuttavia, superata la tensione causata dalle suddette mutazioni, i monasteri si aprirono ai richiami della riforma voluta dal Concilio di Trento. Infatti, Vallombrosa – nella seconda metà del 1500 – divenne un attraente centro di spiritualità e di cultura, come attesta san Carlo Borromeo, che vi si recò nel 1575. E questo clima, anche se insidiato dai formalismi del barocco e dalle innovazioni dell’Illuminismo, segnò un periodo di riconosciuta vitalità.
All’interessata protezione dei granduchi, il 10 ottobre 1810 seguì la soppressione napoleonica, che ridusse Vallombrosa ad una spelonca. Su 17 monasteri soppressi in Toscana, al momento della restaurazione i Vallombrosani riebbero soltanto Vallombrosa, Santa Trìnita a Firenze e Santa Maria a Montenero di Livorno. Badia a Passignano fu riacquistata nel 1818 con 74mila scudi.
Enorme fu lo sforzo per il ripristino di Vallombrosa e del suo “Paradisino”; ma il 10 ottobre del 1866, sacro alla commemorazione di san Giovanni Gualberto, con la soppressione italiana, sia il “Paradisino” che l’abbazia passarono al demanio di Stato, che vi eresse l’Istituto forestale nazionale.
Precaria la sorte dei quattro monaci, sopportati come addetti al servizio della chiesa; perciò, su loro richiesta, anche per provvedere al servizio religioso del nuovo e crescente inserimento alberghiero, il vescovo di Fiesole, David Cammilli, in data 1 febbraio 1905 eresse canonicamente la nuova parrocchia di Santa Maria di Vallombrosa. Un filo di continuità, che ha favorito il lento e faticoso ritorno dei monaci nella loro abbazia avvenuto lentamente in questo secolo.
La Congregazione Benedettina Vallombrosana è presente oggi a Vallombrosa, a Passignano (Fi) – dove si trovano le spoglie di Giovanni Gualberto –, a Roma, nella Basilica di Santa Prassede (nel 1998 il monastero ha ricordato gli 800 anni di presenza vallombrosana a Roma), nel santuario di Montenero (Li), a Santa Trìnita (Fi) dove si conserva il Crocifisso che piegò il capo al santo nella Basilica di San Miniato al Monte, nel santuario della Beata Vergine delle Grazie a Pordenone, a San Paolo del Brasile dal 1949 (monastero fondato su invito di Pio XII) e, recentemente, anche a Kottayam (India).

(a cura di padre Giuseppe Casetta, superiore della comunità dei monaci vallombrosani della Basilica di Santa Prassede in Roma)



DOCUMENTO. Giovanni Gualberto al vescovo Ermanno di Volterra

Lettera sulla simonia

Questa lettera, scritta fra il 1068 e il 1073 al vescovo Ermanno di Volterra, è l’unico documento redatto personalmente da Giovanni Gualberto sulla questione della simonia.

A Ermanno, per volontà di Dio vescovo di Volterra, Giovanni indegno servo dei servi di Dio, con tutti i suoi monaci e fratelli, (augura) quanto di meglio vi è per gli uomini presso Dio.
[…] Poi ci si deve preoccupare sollecitamente che nessuno di loro si lasci macchiare da qualche benché minima eresia. Finché uno persiste in essa, nulla gli gioverà, neppure versare il sangue per Cristo.
Oh! quale pessimo e grande peccato è questo da non poter essere rimesso al presente nemmeno a prezzo di morte, né in futuro con una lunga pena!
Perciò dobbiamo allontanare con prontezza questa orrenda empietà, condannarla, e con la penitenza espiarla, per vivere con Cristo nella vita presente e nella futura. Dunque, finché uno persiste in qualche eresia, nessuna delle sue opere buone è accetta a Dio.
L’eresia simoniaca appunto, la prima e la peggiore fra tutte, che ha prosperato a lungo, già prima di noi fino ai nostri giorni, e che Dio nella sua benevolenza, al nostro tempo, smascherandola ha abbattuta, sia rigettata da voi con tutta prontezza.
Quantunque questa eresia cadde prima di ogni altra fin dai primordi della Chiesa, colpita dal Principe degli apostoli, ci stupisce che alcuni, camuffandola con sporchi panni dai vividi colori, la presentino come cultrice operosa della fede cristiana.
Sappiamo in verità che ciò che Cristo odia, nessuno che sia cristiano lo ama. Cristo infatti odia l’eresia simoniaca. Lui stesso ha detto: «Colui che pecca contro lo Spirito Santo non sarà perdonato né in questo secolo, né in quello futuro» (Mt 12, 32).
Pertanto, quando sarà maturato il tempo di conferire l’ordine sacro ai chierici, nessuno di essi sia promosso a questo ufficio ecclesiastico per elargizione di denaro, palese od occulta. E non si ordini nessuno che sia indegno o ignaro dell’ufficio stesso, che si sia macchiato di qualche reato o infamia, ma sia invece ordinato chi è celibe o monogamo, e questi sposato ad una vergine a norma dei sacri canoni. Non sia superbo né arrogante né avido di onori, ma umile, mite e timorato di Dio.
Nessun chierico pretenda un qualche compenso per l’ufficio sacro, e neppure gli arcipreti o gli arcidiaconi né i loro dipendenti .
Quando poi il vescovo va in visita nella diocesi, trovandosi nelle chiese che hanno il fonte battesimale, denominate pievi, faccia le debite indagini per sapere se c’è qualcosa di male o colpe pubbliche o motivi di discordia; ciò faccia senza interesse né per compensi di denaro, e nemmeno si renda gravoso agli abitanti con le necessità sue e del suo seguito. Ma si comporti piuttosto come un padre benevolo verso i figli.
E nel correggere le colpe lasci ciascuno con il cuore in pace; di modo che tutti benedicano Dio per il proprio vescovo e pontefice, e invochino la misericordia di Dio, che lo conservi sano nel corpo e nello spirito.
Così facendo si salverà il popolo con il suo clero, e il vescovo avrà da Dio la sua ricompensa. Se invece si comporterà diversamente o esigerà denaro, sarà giudicato e condannato come eretico simoniaco.
Dunque, prima di tutto, rigettate, combattendola, l’eresia simoniaca. Impegnate i sacerdoti e tutto il clero a vivere secondo le sacre norme della Chiesa.
Spronate vivamente con sante esortazioni il popolo, grandi e piccoli, a vivere bene. Scongiurate i peccatori, perché si ravvedano e si convertano. Scomunicate chi non vorrà recedere dal male. Assoggettate alle norme dei sacri canoni coloro che vogliono tornare alle opere di penitenza.
Indicate a tutti la via della salvezza. Mostrate benevolenza verso tutti, e Dio, giusto giudice, vi ricompenserà in tutto secondo la vostra giustizia. Se nel vostro ufficio episcopale cercherete di attuare ciò che vi abbiamo detto, quando avremo tempo e possibilità, se sarà il caso, verremo da voi; e faremo ogni cosa che sarà a voi necessaria e a noi permessa e possibile. State bene!


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