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EDITORIALE
tratto dal n. 06 - 1999

La transizione continua



Giulio Andreotti


Romano Prodi, con il sindaco di Roma Francesco Rutelli, taglia la torta 
con il simbolo dell’Asinello per festeggiare la campagna elettorale dei Democratici. È  l’11 giugno, due giorni prima del voto per le Europee

Romano Prodi, con il sindaco di Roma Francesco Rutelli, taglia la torta con il simbolo dell’Asinello per festeggiare la campagna elettorale dei Democratici. È l’11 giugno, due giorni prima del voto per le Europee

Interpretare politicamente i risultati elettorali per competizioni diverse da quelle per il Parlamento nazionale è sempre difficile; ma quando in uno stesso turno si è votato sia per l’Assemblea dell’Unione europea sia per un gran numero di consigli provinciali e comunali, l’esercizio diventa addirittura impossibile. Qualche difficoltà in meno si ha per i ballottaggi (vedi Bologna, dove si è avuto quel ricambio fisiologico che per mezzo secolo la sinistra sosteneva essere necessario ovunque, ma non in Emilia), ma un dato sembra incontrovertibile. Mentre si invoca da ogni parte la semplificazione degli schieramenti, con frequenti auspici di riduzione al bipartitismo, di fatto i simboli e i partiti aumentano, rendendo piuttosto azzardata la ricorrente censura alle crisi di governabilità durante la cosiddetta prima repubblica.
La tornata europea ha visto la grande novità dell’introduzione in Gran Bretagna di una legge elettorale proporzionale. Nel plurisecolare tempio del maggioritario puro sembrava che questa coraggiosa inversione di marcia dovesse attrarre un maggior numero di elettori, superandosi la paurosa diserzione registrata nell’ultima consultazione, con l’affluenza soltanto di un cittadino su quattro. Più o meno, invece, la massiccia astensione si è ripetuta; con la sola variante che il “terzo partito” ha potuto avere qualche seggio, non rendendo sterili, come nella tradizione, le espressioni di scelta di una quota comparativamente non irrilevante di elettori.
Sotto l’aspetto della partecipazione, il timore di un forte calo di votanti italiani – che era cresciuto dopo il mancato scatto del minimo necessario per la validità del referendum – è stato fugato. Anche se siamo lontani dalle frequenze di un tempo, l’afflusso è stato, sia in assoluto che in relazione agli altri quattordici Stati, piuttosto buono.
Resta il frazionismo della rappresentanza italiana a Strasburgo. Gli ottantasette seggi sono stati suddivisi tra diciotto liste che hanno raggiunto un risultato utile. Il nucleo più rilevante appartiene a Forza Italia (22) seguito dai Democratici di sinistra (15) e da Alleanza nazionale che si è presentata congiuntamente al Patto Segni (9). Sette mandati ciascuno sono andati alla brillante squadra Bonino-Pannella e ai Democratici (Prodi, Rutelli, Di Pietro). Quattro sono stati aggiudicati al Ppi, alla Lega e a Rifondazione comunista; due ai Socialisti, ai Verdi, ai Comunisti di Cossutta, al Cdu (Buttiglione) e al Ccd (Casini); infine con un solo mandato gli elettori hanno inviato in Europa: Dini, il Pri-Lib., l’Udeur (Mastella), il Msi (Rauti) e un eletto dai Pensionati.

Nei commenti è stata sottolineata la modesta presa dei tre gruppi che – lo dicano o no – si collocano sulla scia della vecchia Democrazia cristiana; otto seggi in tutto: di cui quattro ai Popolari.
Tutto questo avrebbe prodotto un drastico deficit nell’apporto italiano al gruppo del Partito popolare europeo, se non ne facessero parte gli eletti di Forza Italia.
Prendere atto di questo a me sembra ineludibile, senza automatiche possibilità estensive del fenomeno.
Il popolarismo europeo ha riportato peraltro un successo rilevante, tornando a essere il raggruppamento più numeroso, che in atto era quello socialista. Il forte successo dei democristiani tedeschi ha forse un significato più ampio della delusione nazionale rispetto al governo dei socialisti e dei verdi; credo che contenga un segnale di cautela verso la percentuale schiacciante di governi europei di sinistra che in qualche modo il Parlamento comunitario deve bilanciare e comunque evitare che assumano posizioni troppo di parte.
La ripresa della Dc in Germania non vuol dire che da noi possa aversi un ritorno al passato. Occorre però respingere certe definizioni messe in circolo per svalutare l’idea democristiana sia in se stessa che nell’esperienza di quasi mezzo secolo. È bene anzi ricordare che il termine “Democrazia-cristiana” figura nella intestazione ufficiale del gruppo popolare di Strasburgo. Che questo gruppo possa proiettarsi come coagulante nella vita pubblica interna italiana è una ipotesi non strettamente consequenziale. Ma qual è il collante possibile per arginare lo spezzettamento dei partiti? Il quesito si impone.
Non è male premettere che verso il concetto di partito sembra diffuso un atteggiamento di rigetto. Avvenne anche in Francia con il generale De Gaulle che, in odio ai contenitori storici della Repubblica, dette vita al Rassemblement (che di fatto era un partito), destinato a breve durata e a una bipartizione di cui si sconta ancora oggi la negatività delle contraddizioni interne.
All’abolizione del quinto dei deputati italiani eletto con la proporzionale mirava l’ultimo referendum che, come ho ricordato, è stato senza esito per la non partecipazione di oltre la metà degli aventi diritto. Si preannuncia già una ripetizione, per stimolare la quale l’onorevole Fini ha dato imperativo mandato ai suoi di raccogliere le firme prima della fine delle vacanze. Della legge elettorale si parlerà però anche nella sede per così dire ordinaria del Parlamento, dove esiste una corrente che propugna l’introduzione del maggioritario, con ballottaggio tipo francese. Ma in Francia per andare al secondo turno occorre superare il 12 e cinquanta per cento; il che contrasta radicalmente con lo status quo del panorama italico.
A titolo di cronaca ricordo la discussione del 1952-53 sfociata sul sistema di premio di maggioranza agli “apparentati”, incautamente e a torto bollato come “legge-truffa”.
Il problema era quello di assicurare il mantenimento in vita dei partiti minori. Per un attimo sembrò possibile riesumare un meccanismo elettorale che nel secolo scorso era stato applicato una tantum: il maggioritario pentanominale. Sembrava che in questo modo, votando insieme ai candidati democristiani uno o più “altri” nelle cinquine, si risolvesse il problema. Tecnicamente era possibile. Ma De Gasperi osservò che l’elettorato non era maturo per simili sofisticazioni; e che la presenza di “diversi” avrebbe allontanato dal consenso sia una parte del popolo democristiano che una parte del popolo dei minori.
Massimo D’Alema e Fidel Castro il 28 giugno 1999, durante il vertice euro-latinoamericano di Rio de Janeiro

Massimo D’Alema e Fidel Castro il 28 giugno 1999, durante il vertice euro-latinoamericano di Rio de Janeiro

Vi era anche l’obiezione che alcune zone dell’Italia centrale avrebbero avuto (socialisti e comunisti erano insieme) una sorta di monocolore politico. A chi, a sua volta, suggeriva di fissare, lasciando la proporzionale, un risultato minimo del cinque per cento, lo stesso De Gasperi obiettava che tre partiti governativi rischiavano di rimanere fuori dalla rappresentanza: fatto grave non per equilibri contingenti ma perché era dannoso cancellare dalla mappa politica correnti che avevano avuto e ancora avevano un grande significato storico-culturale, come i liberali, i repubblicani e i socialdemocratici. Non è male rammentarlo.
Con la vigente legge Mattarella, a parte il quinto proporzionale, si hanno accordi chiamati di desistenza, che nelle due edizioni sperimentali hanno prodotto due tipi di naufragio (dissociazione di Bossi da Berlusconi e di Bertinotti dal centrosinistra).
Si inseriscono qui le tematiche sulla possibile costituzione di un terzo polo, centrista; o sull’ardito ricorso al sistema inglese di maggioritario puro e semplice con turno unico.
Quest’ultimo è il metodo in vigore per i comuni con popolazione inferiore ai quindicimila abitanti dove nella gran parte dei casi si contrappongono liste civiche, non sempre con qualche indicazione sottintesa di topografia politica.
A titolo di curiosità, sfogliando i bollettini del 7 giugno, vedo piccoli centri dove è stata presentata una sola lista (che ottiene il risultato solo se gli elettori effettivi superano la maggioranza degli iscritti). Vi sono stati anche casi di liste incomplete con il risultato di avere un numero di consiglieri inferiore a quello minimo di legge.
Un politologo illustre, che da molti anni aveva dato l’allarme sulla caducità della Democrazia cristiana (preveggenza o concausa?) è ora uscito con la proposta di una formazione di centrosinistra unificato, denominata Polo della solidarietà.
Strana la sorte di questo vocabolo! Per alcuni decenni veniva – come equipollente di interclassismo – snobbato e contrastato dall’universo delle sinistre. Nella versione polacca, come indicatore di riscossa dalla dittatura comunista, ebbe invece, negli anni Ottanta, onori e ammirazione. L’odierna proposta ha un valore più che altro di definizione a contrariis: sarebbe cioè lo strumento politico antagonista al liberismo ispirato all’economia di mercato e all’individualismo. Ma è davvero così semplificabile la mappa della rappresentanza di interessi e di posizioni?
Collocando da una sola parte le ispirazioni spirituali o almeno non materialistiche non si opera una classificazione arbitraria?
Forse bisognerebbe ragionare attorno al concetto di moderazione, la cui natura virtuosa è spesso negata, poiché lo si assume come sinonimo di reazionarismo o di gretta conservazione. È sbagliato. La politica democratica è infatti sforzo di sintesi, di conciliazione, di punti di incontro. Tanto più oggi quando si parla di globalizzazione delle economie (o, più esattamente, come ha detto l’ambasciatore Ruggiero, che ha guidato ottimamente il quadriennio di avvio dell’Organizzazione mondiale del commercio, di interdipendenza).
Della vecchia Democrazia cristiana qualcuno vede esclusivamente il ruolo di difesa dal comunismo; ma è una concezione limitativa e non giusta. Il rispetto della persona, la sensibilità per la famiglia e per le comunità intermedie, gli indirizzi riformatori (vedi negli anni Cinquanta la riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno), la libertà religiosa intesa non soltanto come facoltà di culto: sono altrettanti risvolti di una conformità alla dottrina sociale della Chiesa che nella nostra responsabilità si era chiamati ad attuare storicamente, in collaborazione con altre forze democratiche.
Il momento politico attuale più che su preoccupazioni organizzative, deve ripiegarsi in una ricerca fondamentale di regole di una convivenza ancorata a radici non effimere di convergenze per lo sviluppo.
Se non si affronta così – e con analisi profonde – la annunciata stagione delle riforme, si rischia di essere travolti da schematismi incostruttivi che avviterebbero la nazione in una pericolosa spirale di sfiducia.
Il discorso è complesso. Nessuno ha ricette miracolistiche da proporre, ma con un grande sforzo intellettuale e morale si può tentare di edificare una civitas effettivamente nuova.
Per il momento la transizione continua.


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