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GEOPOLITICA
tratto dal n. 06 - 1999

BALCANI. Un approfondimento del direttore della rivista Limes

La folle pretesa di rappresentare l’umanità


Distruzione della Serbia, incerto futuro del Kosovo, destabilizzazione dell’intera area balcanico-danubiana. Questo il bilancio del conflitto che si è chiuso. Mentre altri stanno per esplodere. Da dieci anni la miopia geopolitica dell’Occidente, alimentata da un clima da “primavera dei popoli”, continua a provocare tragedie


di Lucio Caracciolo


Il bilancio provvisorio della guerra del Kosovo ha almeno tre volti. Il primo è la sconfitta storica della Serbia, dalla quale la più grande tra le nazioni ex iugoslave potrà forse riprendersi tra un paio di generazioni. La vastità dei danni fisici, economici, ma soprattutto morali e politici subiti dai serbi è tale da spingere chi può a fuggire da quel Paese per cercare fortuna altrove. Ai serbi le avventure di Milosevic hanno tolto la speranza, e senza speranza al massimo si cerca di sopravvivere. Giacché ai serbi abbiamo imposto lo stigma – di per sé ingiusto – della colpa collettiva per le nefandezze compiute dai paramilitari e da truppe regolari iugoslave nel Kosovo bombardato dalla Nato. Anche se essi stentano a prenderne coscienza, i serbi sono marchiati come popolo razzista e feroce. In Europa non capitava dal 1945. Ancora oggi i tedeschi, che ai tempi del nazismo furono responsabili di crimini incomparabilmente più gravi, sono alle prese con il “passato che non passa”. Conseguenza pratica: la Serbia appare esclusa dai peraltro vaghi progetti di ricostruzione dei Balcani, sicché si calcola che occorreranno decenni per riportarla al livello di vita del 1989. Per chi ricorda la Iugoslavia di allora, di gran lunga il più vicino agli standard occidentali tra i Paesi socialisti, il destino della mini-Iugoslavia di oggi appare beffardo.
L’altro volto del conflitto riguarda l’incerto futuro del Kosovo. Due mesi e mezzo di bombardamenti e di pulizia etnica hanno devastato quella terra già povera. Per molto tempo ancora i kosovari vivranno dei sussidi esterni. Alcuni caratteri del Kosovo futuro cominciano già ad apparire: esso sarà comunque monoetnico, con qualche enclave serba. Ciò renderà probabile la sua piena indipendenza nel momento, apparentemente lontano, in cui le potenze alleate decideranno di poterlo fare uscire dall’incubatrice in cui si trova – una sorta di protettorato Nato con russi e neutrali in funzione sussidiaria. Al massimo, i pochi serbi rimasti potranno ritagliarsi una zona di pertinenza, che potrà rimanere in Serbia. Gli albanesi saranno padroni della regione. Vedremo poi se ne faranno il Piemonte di una Grande Albania o se invece le rivalità clanicopolitico-mafiose tra i vari gruppi che si contendono il potere in campo panalbanese non produrranno uno scenario afghano, con scontri tra bande.
Infine, la terza faccia del dopoguerra è la destabilizzazione dell’intera area balcanico-danubiana. La guerra del Kosovo, invece di stabilizzare la regione, sembra piuttosto averne accelerato i movimenti tellurici che da dieci anni ne stanno sconvolgendo la carta geopolitica. Risultano infatti del tutto impregiudicati gli assetti regionali. Il conflitto ne ha semmai accentuato la labilità. A parte il Kosovo stesso, dove dalla tragedia può comunque emergere l’indipendenza di tutto o di gran parte di un territorio delle dimensioni dell’Abruzzo, tutt’intorno covano futuri conflitti.
Cominciamo dal focolaio forse più pericoloso: il Montenegro. Il piccolo Stato federato alla Serbia ha ormai un piede e mezzo fuori dalla Iugoslavia. Le spinte indipendentiste sono sempre più forti, quasi inarrestabili. È evidente che un nuovo referendum per l’indipendenza scatenerebbe in Montenegro una guerra civile di spaventose dimensioni, che avrebbe probabilmente il suo epicentro nel Sangiaccato, una terra a cavallo del confine serbo-montenegrino a forte impronta turco-islamica.
Del tutto incerta resta la parabola della Macedonia, il più improbabile tra i gadgets geopolitici post titini, tenuto in vita solo dalla presenza delle truppe americane. E Macedonia significa a un tempo questione bulgara, questione serba, questione greca e questione albanese: nessuna delle nazioni citate è soddisfatta dei suoi attuali confini, anche se l’Unione europea esercita un efficace vincolo contro tentazioni irredentiste elleniche.
Quanto alla Bosnia, dopo quattro anni di semiprotettorato è convinzione comune che il Paese sarebbe di nuovo in preda alla guerra un minuto dopo il ritiro del contingente Nato che ne garantisce i fragilissimi equilibri. Dayton è stato un cessate-il-fuoco, non una pace. La spartizione della Bosnia è nei fatti, anche se resta da stabilire quale parte della Repubblica Serba di Bosnia potrà forse un giorno confederarsi a Belgrado, mentre le tensioni tra croati e musulmani sono tutt’altro che sopite.
Non dimentichiamo infine il bacino danubiano. Uno degli effetti geopoliticamente – oltre che economicamente – devastanti di questa guerra è stata la destabilizzazione dell’area danubiana. Pochi hanno colto il ritorno del fantasma della Grande Ungheria. Per quasi ottant’anni, dal Trattato di Trianon, che ne umiliò l’orgoglio nazionale, i magiari hanno rotto il tabù dei confini. Un autorevole esponente della maggioranza di governo a Budapest ha detto quello che molti ungheresi pensano: che cioè la sconfitta della Serbia riporterà prima o poi la Vojvodina, provincia di Belgrado abitata da una minoranza ungherese (17%), alla sua collocazione “naturale”, insieme alla madrepatria magiara. E mentre la condizione degli ungheresi di Slovacchia appare tutt’altro che definita, in Transilvania (Romania) rialza la testa la consistente etnia ungherese, che rivendica come minimo un’autonomia “sostanziale’’ stile Kosovo, facendo infuriare il presidente Costantinescu.

Euroslavia oggi
Questo sommario elenco delle questioni aperte in Europa del sud-est ci ricorda l’errore più grave commesso dagli occidentali – americani ed europei – nell’approccio alle guerre di successione iugoslava. Non abbiamo mai avuto un’idea definita dell’assetto da dare alla regione. Abbiamo inseguito, sempre in ritardo, le singole crisi, rattoppandole alla disperata, quando già troppo sangue era stato sparso. Non abbiamo mai capito, o voluto capire, il nesso che collegava – per esempio – la secessione della Slovenia a quella della Croazia e quindi all’inevitabile guerra in Bosnia. Da questo punto di vista l’atteggiamento della Germania, dell’Austria e della Santa sede nei primi anni Novanta, quando contro il parere del resto del mondo incoraggiavano i secessionisti sloveni e croati, dovrebbe essere ricordato come un grave monito a non ripercorrere vecchi sentieri. La miopia geopolitica di quelle forze, alimentata dal clima da “primavera dei popoli” aperto dalla riunificazione tedesca, è purtroppo all’origine delle tragedie successive. Ebbene, rischiamo di ripetere lo stesso errore dopo il Kosovo. In seguito alla guerra, qualcuno pensa di poter chiudere il capitolo con l’ennesimo “protettorato” benedetto dall’Onu.
Occorre invece affrontare le questioni balcaniche nel loro insieme, cogliendone le interrelazioni che sono cariche di rischi ma anche foriere di soluzioni. Qualche anno fa lanciammo, sulla rivista Limes, l’idea di Euroslavia. Molto banalmente, si trattava di aprire ai popoli balcanici la prospettiva dell’Europa a condizione che si riconciliassero fra loro, senza rimettere in discussione tutte le frontiere ma rendendole più aperte e meno importanti, dunque più europee. Un primo passo in questa direzione poteva essere un’area balcanica di libero scambio. Credo che l’idea proposta con una certa dose di ingenuità, abbia ancora qualche fondamento. Giacché indica la prospettiva di un sistema regionale, precondizione dell’integrazione in Europa, come modello per il futuro. Qualcuno, fraintendendo o volendo fraintendere, pensò che si trattasse della riproposizione sotto mentite spoglie della Iugoslavia. Era esattamente il contrario: la presa d’atto della fine della Iugoslavia. Rifare la Iugoslavia – obiettivo in sé tutt’altro che disprezzabile – significherebbe passare per nuove e devastanti guerre. All’inverso, Euroslavia voleva marcare la necessità di demistificare l’epica maniacale dei confini, del Blut und Boden di cui si nutrono i nazionalismi contrapposti. E intendeva anche ricordare che la pura e semplice accettazione in Europa di una manciata di staterelli etnici avrebbe balcanizzato l’Europa assai più di quanto avrebbe europeizzato i Balcani.
Oggi, dopo il Kosovo, questa idea necessita forse di un importante emendamento. Se dopo la guerra in Bosnia si poteva sperare che le tensioni fra nazioni e gruppi di potere balcanici non avrebbero prodotto nuovi conflitti armati, il Kosovo ci riporta a una visione più sobria. Non solo una nuova guerra c’è stata, ma altre se ne preparano, se non sapremo disinnescare le micce. Ecco la necessità di una conferenza internazionale sui Balcani. Perché non si riduca a una maratona diplomatica o peggio a una mega-Rambouillet, occorre che almeno l’Occidente si metta d’accordo su un piano regionale. A questo punto, esso non può che prevedere la revisione di alcuni confini in una logica confederale e lo spostamento di alcuni gruppi di popolazione (la priorità essendo, quando possibile, il ritorno dei profughi). In concreto, la Serbia potrebbe essere compensata della perdita del Kosovo con una confederazione con la Repubblica Serba di Bosnia o parte di essa (Banja Luka sembra ormai gravitare nell’orbita di Zagabria); la Croazia potrebbe confederarsi con l’Erzegovina, il Montenegro potrebbe ottenere lo status di repubblica confederata con la Serbia, la Macedonia occidentale potrebbe, insieme al Kosovo, confederarsi all’Albania. La Vojvodina potrebbe ottenere un’ampia autonomia, ma non un legame con l’Ungheria, che renderebbe esplosiva l’intera questione magiara.
Se decisi in modo pacifico e consensuale, in una logica di do ut des su scala regionale, simili cambiamenti potrebbero stabilizzare i Balcani almeno per qualche tempo, prevenendo i conflitti imminenti. Condizione fondamentale, un’area di libero scambio come premessa di un mercato comune balcanico, la libera circolazione delle persone, delle merci e dei capitali attraverso frontiere politiche sempre meno rilevanti, dunque sempre più europee. I progetti di ricostruzione postbellica, che non possono escludere la Serbia senza riprodurre le condizioni per una nuova guerra, dovrebbero fin d’ora ispirarsi a questa visione integrata. Certo, sarà un processo graduale, di lunghissima lena, ma inevitabile se veramente vogliamo una Unione europea capace di trasformare l’Adriatico in un mare interno. Fra l’altro, un indirizzo di questo genere sarebbe il migliore antidoto contro le mafie che dominano oggi tutti (leggasi: tutti) gli Stati balcanici, per rendere il nostro auspicio di democratizzazione qualcosa che sia più di un esercizio retorico.

Aporie dell’umanitarismo
Finora abbiamo concentrato la nostra attenzione sui Balcani e sulle nostre politiche per la regione. Ma questa guerra ha detto anche molto su noi stessi. Anzitutto, su noi italiani. Contrariamente alle previsioni di molti, governo e Paese hanno tenuto. Sarà anche perché non è stata una guerra classica, ma una campagna aerea i cui rischi erano comunque contenuti, gli italiani hanno individuato e perseguito l’interesse nazionale. Prima cercando fino all’ultimo minuto di evitare una guerra che non poteva essere all’altezza della sua retorica umanitaria. Poi combattendola sul serio, al fianco degli alleati. Abbiamo fatto la guerra per la Nato, per affermare il nostro buon diritto a essere considerati un partner affidabile e leale dell’Alleanza che garantisce da mezzo secolo la nostra sicurezza.
Questa guerra ha peraltro confermato che l’Europa non esiste sul piano delle relazioni internazionali. All’interno dell’Unione europea (oltre che della Nato) si sono segnalate posizioni quasi contrapposte. A un estremo dello spettrogramma, la Grecia unanimemente filoserba, all’altro, la Gran Bretagna pronta a marciare su Belgrado. In mezzo, la Francia, appiattita sugli inglesi con molti mal di pancia, mentre Germania e Italia sono state le più pronte a individuare nella Russia la chiave della soluzione. Immaginiamo che cosa sarebbe accaduto se veramente avessimo potuto disporre del tanto auspicato (a parole) esercito europeo. Come minimo, ognuno sarebbe andato per conto suo, come massimo avremmo rischiato di spararci addosso.
La priorità resta quindi quella dell’unità politica europea. Che a questo stadio della costruzione comunitaria, con il rischio incombente della diluizione dell’Ue in una mini-Osce a venticinque o trenta membri, significa la preparazione di un nucleo duro politico che si dia come obiettivo gli Stati Uniti d’Europa. Un nucleo comprendente i sei membri fondatori più Spagna e Portogallo, che cominci a porre le basi di uno Stato comune, aperto in prospettiva ad altri membri dell’Ue. Esso costituirebbe un ancoraggio geopolitico contro la diluizione dell’Unione e potrebbe dialogare quasi da pari a pari con gli Stati Uniti.
L’esercito europeo è dunque una conseguenza dello Stato europeo, non la sua premessa. Dopo l’euro, il funzionalismo, l’economicismo, il monetarismo europeista hanno esaurito la spinta propulsiva. Parafrasando Marx, si potrebbe dire che dopo tanto (hegeliano) camminare a testa in giù, è l’ora di rimettere l’Europa sui suoi piedi, di riaffermare il primato della politica. Altrimenti lo scetticismo sull’Europa, così evidente in Germania, può mettere in discussione il progresso dell’integrazione comunitaria.
Su scala occidentale, la leadership americana esce a un tempo riaffermata e incrinata. Riaffermata, perché ancora una volta la decisione di una istanza sulla pace e sulla guerra l’hanno presa gli Stati Uniti. Ragioni domestiche – dare al secondo mandato di Clinton un senso altro dal Sexgate – e geostrategiche – proteggere il fianco sud della Nato e punire la Serbia – hanno cospirato nello spingere gli Stati Uniti a una guerra che avrebbe dovuto risolversi in una rapida dimostrazione di forza ma che ha sconvolto la regione. Incrinata, perché l’insipienza strategica degli americani non ha permesso di identificare un chiaro obiettivo bellico. A un certo punto, sembrava che il vero capo della coalizione, l’unico che avesse poche idee ma chiare, fosse Tony Blair. La “pace” attuale è figlia delle oscillazioni e delle incertezze strategiche americane, e per conseguenza europee.
Abbiamo tutti cercato, americani ed europei, di colmare il vuoto strategico con un’assordante retorica umanitaria. I risultati sono davanti ai nostri occhi: decine di migliaia di morti, centinaia di migliaia di profughi (oltre agli albanesi, che stanno tornando, molti serbi e zingari che lasciano il Kosovo per timore delle vendette), la Serbia economicamente in ginocchio (Kosovo incluso), una singolare quanto rivelatrice inefficienza nell’assistenza umanitaria. Un bilancio definitivo è impossibile, dato che le violenze e le distruzioni sono ancora in corso.
Quel che colpisce è la distanza fra le parole e i fatti. All’inizio del conflitto, Henry Kissinger osservava che il problema dei Balcani non erano tanto i suoi bellicosi e vendicativi abitanti quanto gli interventi esterni nelle dispute intrabalcaniche. Ogni volta che abbiamo provato a mettere il dito nell’ingranaggio, abbiamo moltiplicato la tragedia. La lezione della prima guerra mondiale merita ancora di essere studiata.
Forse potremmo analizzare il conflitto del Kosovo anche sotto questo aspetto. Presentare i nostri interessi o anche solo le nostre percezioni in termini universalistici, di principio, è sbagliato e pericoloso. Sbagliato perché nessuno, nemmeno il ricco, colto, civilissimo Occidente, può permettersi di parlare per tutti; chi pretende di rappresentare l’umanità va cautamente accompagnato in un sanatorio e lì affidato alle pazienti cure degli psichiatri. Pericoloso, perché altri potrebbero, allo stesso nostro titolo, pretendere di parlare per l’umanità e intervenire in un conflitto etnico – c’è solo l’imbarazzo della scelta. E poi, questo moralismo universalistico, se preso sul serio, comporterebbe la militarizzazione permanente delle nostre società, in modo da intervenire dovunque si compie un’ingiustizia. A esempio, mentre l’attenzione del mondo si concentrava sul Kosovo, in Sierra Leone si compivano stragi assai più gravi e le truppe corazzate turche penetravano nell’Iraq settentrionale per fare piazza pulita dei curdi locali. Il tutto nell’indifferenza di noi “umanitari”.
Le dure repliche della storia, Kosovo compreso, dovrebbero indurci a un più responsabile – dunque più etico – realismo. Non spetta a noi imporre il Bene nel mondo. Non possiamo pretendere di essere giudicati per le nostre intenzioni, ma solo per le nostre azioni. Le stesse nostre democrazie ne guadagnerebbero in legittimità e in efficienza. Il difficile dopoguerra nei Balcani sarà una prima pietra di paragone della nostra riconquistata sobrietà.


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