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PAOLO VI
tratto dal n. 06 - 1999

Montini e la politica italiana


L’esperienza del padre parlamentare. La Fuci e don Sturzo. Il rapporto con De Gasperi. Gli anni delle leggi su divorzio e aborto. E poi il 1978, con la tragedia Moro…


di Giulio Andreotti


Paolo VI con il segretario Pasquale Macchi nei corridoi del Palazzo Apostolico

Paolo VI con il segretario Pasquale Macchi nei corridoi del Palazzo Apostolico

Non mi nascondo una certa duplice commozione: per vedere qui così tanti e tanto qualificati presenti, e per ricordare Paolo VI. Vorrei cominciare da un momento che mi sembra sia particolarmente da ricordarsi in relazione a una regione come la vostra. Alla vigilia del centenario della presa di Porta Pia, Paolo VI, cardinale Montini, fece un discorso in Campidoglio dicendo che bisognava ringraziare la provvidenza di Dio per avere liberato lo Stato Pontificio da tutte le cure temporali. Mi ricordo che quella sera andai a salutarlo e gli dissi: «Speriamo che non venga riprodotto tutto il suo discorso in Paesi come il Belgio, dove ancora oggi gli eredi degli zuavi tornano a riunirsi per ricordare la difesa di Porta Pia fatta dall’altra parte». Difesa, per la verità, pressoché simbolica.
Perché ricordo questo? Perché, a mio avviso, nella personalità di monsignore Montini c’era qualche cosa che veniva dall’esperienza di suo padre. Suo padre, uomo politico, parlamentare popolare di Brescia, aveva sofferto quello che nella vostra regione fu ancora più marcato: aveva sofferto cioè quel periodo di disagio per i cattolici, stretti da un lato dal desiderio di poter dare alla vita civile l’apporto delle proprie coscienze e della propria formazione, dall’altro da un senso di obbedienza alla Santa sede che li obbligava a stare fuori. Per carità, non allargo il discorso al modernismo e all’antimodernismo – ci sto lavorando e sto pubblicando anche un libro su questo – perché ci sono da rivedere molte cose. D’altra parte si è rivisto Savonarola, si sono rivisti gli ugonotti… a maggior ragione si può rivedere, anche sotto questo profilo, il modernismo, per distinguere quello che era un atteggiamento di carattere religioso, teologico, sul quale allora il rigore era necessario, da quello che invece era un precorrere i tempi di una visione più moderna che considerava superato con Porta Pia tutto il problema del temporalismo. Noi sappiamo che ci sono state delle vere e proprie situazioni drammatiche. Non dovrò che ricordare la tragedia interiore di Fogazzaro. E poi anche il fanatismo che c’era, in questo caso non a Padova, ma a Vicenza: i fratelli Scotton che, con la loro intransigenza tutta particolare, avevano un riecheggiamento nella curia che portò anche Pio X a compiere qualche errore. Poi, però, nelle vie della santità, e vengo immediatamente al tema, bisogna avere dei criteri tutti particolari. Si può diventare santi, ed è diventato santo Pio X; ed è diventato per ora beato, ma insomma siamo lì, il cardinale Ferrari, che su denunce dei fratelli Scotton veniva rimproverato dalla curia di Pio X con l’accusa che il suo seminario di Milano, e non era vero, fosse un semenzaio di modernismo.
Perché riconosco l’utilità di dire questo? Non per prendere il tema alla larga. Ritengo infatti che Montini aveva, in un certo senso, maturato fin da giovane, e questo si può vedere da alcuni suoi scritti, la necessità di distinguere bene i due campi. Quando suo padre, obbedientissimo, si associò ai bresciani che criticavano monsignor Bonomelli, uno dei precursori di questa visione più moderna, direi postemporalista, deve aver cominciato a riflettere. Posseggo delle carte straordinarie di monsignor Montini che ho avuto per bontà dell’archivio dell’Istituto Paolo VI di Brescia. Il notaio Camadini mi consegnò una serie di appunti. Me li dette invitandomi a “cucirli” per poi scrivere un libro. Il libro non l’ho mai potuto scrivere perché è un lavoro molto difficile. Paolo VI fin da giovanissimo scriveva moltissimi appunti: brani di discorsi che avrebbe tenuto, tracce di colloqui che poi avrebbe avuto. C’è quindi una quantità enorme di materiale da cui traggo solo tre citazioni per venire poi direttamente al periodo che mi è stato chiesto di illustrare e che conosco naturalmente più da vicino, avendolo vissuto.
Uno di questi appunti – sono tutti appunti manoscritti e me li sono fatti dattilografare perché la comprensione della grafia non è molto immediata – è sulla «Politica della Chiesa nei primi secoli»: «a) soddisfare i bisogni religiosi che il politeismo non soddisfaceva; b) ridare alle coscienze libertà di religione; c) rivolgersi agli umili». È la traccia presa da un libro di un teologo francese che commentava la teologia di Tertulliano. Un altro di questi appunti, intitolato «Politica», dice: «San Giovanni Battista indirizzando le sue parole fiere e profetiche contro Erode non sollevava questioni sulla legittimità o sul modo del suo governo, quanto sulla onestà della sua condotta da giudicarsi con criterio non diverso da quello adoperato per ogni altro uomo». Il terzo è un appunto datato luglio 1933 che si intitola «Rinuncia»: «La cosa più difficile a comprendersi in quest’ora grave e tumultuosa è come la Chiesa debba rinunciare a molte istituzioni e attività sorte sotto la sua ispirazione e per la sua protezione quando queste cose non rappresentavano già per la Chiesa né un pericolo per la dottrina né un disordine per la disciplina ma una emanazione cosciente, forte, docile, onesta di vita sociale, e come sembri, e forse per divina disposizione sia, ciò un vantaggio per la vita interiore religiosa della Chiesa. Se questo patrimonio che le è tolto fosse stato cattivo o pericoloso sarebbe la cosa più spiegabile al nostro bisogno di scoprire le vie della Provvidenza. Ma questa privazione sembra, ed è, il distacco di forze oneste e vive ed è compiuto da forze non certo cristiane. La Chiesa sembra doversi migliorare per una violenza che è fatta a figli e cose sue e forse Dio vuole proprio che il sacrificio sia compiuto quando queste cose e i figli sono buoni e fedeli e utili perché sia sacrificio meritorio di chissà quali future fortune. Ma quanta fame di giustizia appare insoddisfatta in quest’ora penosa e forse salutare».
Giulio Andreotti, Pio XII e Guido Gonella al tempo dell’“Operazione Sturzo”

Giulio Andreotti, Pio XII e Guido Gonella al tempo dell’“Operazione Sturzo”

Questo appunto si rifaceva a un elenco che Montini aveva fatto man mano che erano state dissolte delle organizzazioni – sul cui scioglimento egli non era d’accordo – a cominciare dal 1926: le cooperative cristiane, i sindacati cristiani, gli Scout, la Federazione autonoma delle associazioni sportive cattoliche (che fu dissolta nell’atto creativo del Coni, per assumere nello Stato anche le attività di carattere sportivo). Si era poi arrivati a quel momento difficile, che sembrava non doversi avere in quanto vi era stata la Conciliazione. Due anni dopo i Patti lateranensi, nel 1931, si sciolgono i circoli cattolici. È uscita di recente una documentazione molto corposa sulle attività di quel momento. Per raggiungere un modus vivendi e consentire la ripresa dei circoli cattolici si faceva assumere l’impegno a non fare politica. E qui sarebbe interessante vedere se fu uno svarione o no quell’articolo nel Concordato in cui si inibisce al clero di iscriversi ai partiti politici: nel 1929 il partito politico era uno solo. Dagli atti preparatori non si riesce a capire in che momento quel “partito” veniva ad essere “partiti”. Forse era qualche cosa che guardava lontano e che poi ritornò in discussione quando il presidente Einaudi nominò don Sturzo senatore a vita. Infatti sorse immediatamente il quesito giuridico se l’articolo del Concordato dovesse essere interpretato in modo estensivo, e cioè che non si potesse nemmeno essere sacerdoti e parlamentari. Anche qui, devo dire, la mano di Montini per far risolvere i problemi fu molto delicata ed efficace e molto più seria di quella di alcuni dei professionisti della vita pubblica. Si era chiesta, infatti, ai giuristi, una memoria e, naturalmente, vi furono interpretazioni in un senso e nell’altro. Si fece un bel fascicolo che fu portato in Senato al presidente di quella che allora era la Giunta delle elezioni, Vittorio Emanuele Orlando. Io ero sottosegretario e fui incaricato, insieme al senatore Giuseppe Paratore, di portare questo fascicolo. Orlando ci disse di lasciarglielo, assicurò che lo avrebbe esaminato e ci invitò a tornare all’indomani. Nel frattempo c’era stata una azione distensiva dietro le quinte perché la preoccupazione di De Gasperi era partecipata da monsignor Montini. Bisogna tenere conto del rapporto personale di monsignor Montini con De Gasperi. Un rapporto fatto di grande fiducia reciproca e anche di una grande delicatezza da parte di Montini quando ci furono momenti di incomprensione nei confronti dell’attività di De Gasperi. Non vi sembri strano ma, tornando il giorno dopo da Vittorio Emanuele Orlando, vedemmo che non aveva nemmeno aperto il fascicolo che gli avevamo lasciato e disse a Paratore: «Peppino, ma ti dimentichi che è siciliano come noi?». Così fu risolto il problema costituzionale pur evitando però che si affermasse poi il principio come tale: l’eccezione che era stata fatta nei confronti di don Sturzo rimase, come tale, un’eccezione.
Nel 1931 Pio XI in modo particolare si sentiva offeso. Si era assunto su di sé la responsabilità della Conciliazione. La Conciliazione era già molto matura. Sono usciti di recente due volumi di documentazione su un alto funzionario del Ministero dell’Interno del periodo di Benedetto XV, il barone Monti. Carlo Monti era appunto in rapporti personali, da Genova, con Benedetto XV. Si comprende come – anche attraverso discussioni che si facevano a Parigi con il nunzio, che poi divenne cardinale, Cerretti – erano già arrivate a soluzione quelle che poi furono, con pochi ritocchi, le clausole del Concordato. Pio XI si era assunto questa responsabilità, non partecipata da molti. Quindi, nel vedere che due anni dopo veniva sciolta quella che lui chiamava la pupilla dei suoi occhi, la Gioventù cattolica, si sentì particolarmente offeso. Io ne ho un ricordo personale particolarissimo. Eravamo un gruppo di ragazzini che monsignor Respighi conduceva a visitare le catacombe e a partecipare alle stazioni quaresimali. Mi trovai ad assistere al discorso che Pio XI fece il 31 maggio del ’31 da cui poi venne fuori il documento Non abbiamo bisogno. Il discorso era per un’occasione del tutto particolare: un decreto per le virtù eroiche di un beatificando. Pio XI parlò, con quella sua oratoria asciutta, in un modo talmente drammatico che io svenni. Per non disturbare la cerimonia, fui acciuffato e messo, mi ricordo ancora – eravamo nella sala del concistoro –, dietro a delle tende di seta bianca. Poi rinvenni, ma non capivo niente di quello che succedeva. Il solo vedere questo Papa così emozionato mi faceva impressione. La soluzione che poi fu trovata non mi piace del tutto. Infatti era accettabile dire “non vi dovete occupare di politica”, benissimo. Ma non era giusto, a mio avviso, dire che l’Azione cattolica si impegnava a non nominare dirigenti quanti avevano avuto responsabilità nel Partito popolare. Questa è una cosa che – forse per necessità bisogna anche prendere delle medicine amare – storicamente non mi pare buona. Del resto qui il discorso andrebbe approfondito meglio. Ritengo che se, nel momento in cui Sturzo si vedeva costretto ad andare in esilio, con la lettera di dimissioni minutata dal cardinal Gasparri, vi fosse stato Montini, questo non sarebbe accaduto. La Santa sede è, naturalmente, bravissima anche nelle forme. Quella lettera minutata da Gasparri dà infatti la patente di negatività al regime, dicendo che si voleva evitare che esso approfittasse per legittimare persecuzioni dal fatto che un prete fosse a capo di un partito politico. Però obbligare il segretario del Partito popolare ad andare in esilio… Montini, che poi lasciò la funzione di assistente della Fuci perché aveva avuto incarichi più importanti dei precedenti in Segreteria di Stato, di fatto ha sempre rappresentato il punto fermo della nostra attività di fucini. Ci riservava, anzi, delle attenzioni significative. Voleva essere informato del nostro lavoro, ci convocava a mezzogiorno e, giustamente, ci metteva in coda a tutti gli ambasciatori e alle persone importanti che doveva ricevere. Poi però, con grande sacrificio, ci riceveva e ci teneva a lungo. Questo rappresentava uno di quegli aspetti umanamente toccanti.
Montini, arcivescovo di Milano, al seminario di Venegono. Il terzo da destra è padre Enrico Motta

Montini, arcivescovo di Milano, al seminario di Venegono. Il terzo da destra è padre Enrico Motta

Come intervenne allora nella vicenda politica? Vorrei dire due cose di carattere storico e poi quello che è più direttamente inerente alla formulazione di questa conversazione.
La prima cosa di carattere storico è poco conosciuta, però è documentabile. Io credo sia importante avere dei riferimenti documentali perché altrimenti si potrebbe, per affetto umano, confondere i fatti. Nel periodo dell’occupazione tedesca vi era stato un grave disagio per il corpo diplomatico accreditato presso la Santa sede. Una parte notevole di esso era andata via ma i più importanti rappresentanti erano rimasti ed erano alloggiati alla meglio in Vaticano. C’era però un problema molto delicato per la sicurezza dei corrieri. Questo aveva creato nei confronti dell’Italia uno stato d’animo di disagio che era sì relativo al governo del momento, ma inevitabilmente lo diventava rispetto all’Italia come tale. Mentre si discuteva del trattato di pace, a Parigi vi erano 21 nazioni vittoriose. Noi, nonostante la nostra non belligeranza dopo l’8 settembre, non fummo inseriti tra le nazioni abilitate ad interloquire nella formulazione del trattato di pace. Durante la discussione del trattato di pace vi furono almeno due fatti da segnalare. Dico almeno due perché questi due sono documentati e io li ho trovati. Uno relativo ad un emissario del presidente degli Stati Uniti, un parlamentare venuto a Roma per parlare in Segreteria di Stato del trattato di pace; un altro relativo all’ambasciatore irlandese. L’uno e l’altro chiedevano che cosa pensasse il Vaticano dell’inserimento nel trattato di pace di una clausola che desse alla Santa sede la garanzia internazionale. Questo naturalmente avrebbe rappresentato un motivo di grande offesa per l’Italia e, d’altra parte, la motivazione che qualcuno aveva fatto emergere era sul carattere temporale degli accordi del 1929 (accordi presi con un regime, che, oltretutto, era oramai caduto). Qui si situa l’attività di Montini. Veramente Montini amava l’Italia, facendo contemporaneamente gli interessi della Santa sede (interessi che, del resto, nonostante qualcuno ogni tanto ci faccia sopra dei romanzetti, ritengo non siano mai in contrasto. E se qualche volta, nella sua carità e nella sua lungimiranza – per esempio sul piano internazionale –, il papa può prendere delle decisioni e assumere degli atteggiamenti che qualcuno reputa più avanzati di quelli che prende e assume sul piano politico o diplomatico l’Italia o un’altra nazione, questo, a mio avviso, non ha mai disturbato né disturba). Montini scoraggiò questa iniziativa. Però da questo si capisce forse (appuntiamo l’attenzione perché penso sia un collegamento abbastanza nuovo ma di cui sono certo) la grande attenzione di Montini per la parte della Carta costituzionale che si stava costruendo riguardante i rapporti tra Chiesa e Stato. Si trattava di eliminare il dubbio sugli accordi del ’29. Essi, infatti, essendo stati stipulati in un periodo particolare, il periodo fascista, potevano essere considerati decaduti. Bisognava superare questa situazione con una formulazione esplicita. Questo è stato il frutto sia di una serie di elaborazioni all’interno dell’Assemblea costituente, della Commissione dei 75, della Sottocommissione, sia di una serie intensa di colloqui di Montini, in modo particolare con Dossetti che si occupò della formulazione di questo articolo [quello che diventerà l’articolo 7 della Costituzione italiana].
In questi giorni è venuto poi fuori un fatto la cui veridicità è molto discutibile. Il vecchio segretario di Togliatti, Massimo Caprara, ha pubblicato in un libro la notizia di un’udienza che Togliatti avrebbe avuto nel ’45 da parte di Pio XII. Io, dai riscontri fatti, ho qualche dubbio che questo possa essere vero e mi ha anche impressionato una duplice circostanza. La prima è che Caprara lo dica solo adesso, dopo che ha scritto molti libri. La seconda è che lo dica sulla testimonianza dell’autista che sarebbe stato fatto venire a Roma apposta per guidare Togliatti ad una visita ad una personalità. Questo autista, che è ancora vivo, ha detto che capì di essere stato accolto nel cortile da Montini solo quando, successivamente, riconobbe la sua faccia allorché divenne arcivescovo di Milano. Ma la cosa che ancora di più mi rende dubbioso è che questo stesso signore afferma che le istruzioni ricevute dal Partito comunista erano che, nel caso in cui l’interlocutore di Togliatti fosse stato Umberto di Savoia, lui avrebbe dovuto immediatamente ammazzare Togliatti. A me sembra tutto un po’ cervellotico. Però cervellotica non è (e si capisce da alcuni contatti, uno dei quali con Eugenio Reale che era stato anche ambasciatore a Varsavia e in quel momento ebbe rapporti con Montini) la preoccupazione di rimuovere in radice il pericolo di una internazionalizzazione. Montini aveva spiegato il rischio se la Costituzione avesse respinto i Patti lateranensi. E questo fa capire anche perché fino al mattino della votazione, il 25 marzo 1947, era pacifico che tutta la sinistra avrebbe votato contro questo articolo così come era stato predisposto. La mattina del 25 marzo si seppe che De Gasperi, che non aveva mai parlato alla Costituente, si era iscritto a parlare. A fine mattinata gli venne l’informazione diretta da parte di Togliatti che i comunisti avrebbero votato a favore e che però fino alle sei del pomeriggio, cioè fino a quando cominciava la seduta, questo doveva rimanere assolutamente segreto perché nemmeno il suo gruppo parlamentare ne era informato, e tanto meno lo erano i socialisti. Si ebbe poi la seduta e, in effetti, quando Togliatti si alzò e disse che avrebbe votato a favore, ci fu un’esplosione, in modo particolare da parte dei socialisti, con alcune espressioni che normalmente – salvo qualche eccezione – non rientrano nel linguaggio parlamentare. Ho voluto ricordare questo non per fare dell’episodica (è un fatto storico). Togliatti disse che non si poteva aprire un conflitto religioso in un momento nel quale c’erano da affrontare ben altri problemi per il popolo italiano. E a Nenni, che diceva che nessuno aveva voglia di fare la guerra al Vaticano, rispose che per fare la guerra non bisogna essere necessariamente in due: basta uno per poterla cominciare e quindi la reazione della Santa sede avrebbe potuto essere molto dura.
Paolo VI alla processione del Corpus Domini nel quartiere popolare di  Montesacro a Roma. È il 9 giugno del 1966

Paolo VI alla processione del Corpus Domini nel quartiere popolare di Montesacro a Roma. È il 9 giugno del 1966

L’altro episodio, di cui abbiamo ricostruito di recente su 30Giorni una dimostrazione documentale anche attraverso la Segreteria di Stato, ha riguardato il Patto atlantico, problema di attualità. Quando si discuteva il Patto atlantico (si cominciò a parlarne verso la fine del 1948, dopo la ripresa parlamentare) vi era uno stato d’animo, anche in ambiente cattolico, molto perplesso. I cattolici, nella loro tradizione, non sono favorevoli ai patti militari e in più c’era il famoso Patto d’acciaio che non aveva creato una buona fama alle intese militari, anche come risultato pratico. C’era quindi una posizione veramente molto difficile. De Gasperi si incontrava con monsignor Montini tutte le domeniche. Si incontravano nella villa pontificia dove il direttore Bonomelli, bresciano, invitava De Gasperi a pranzo e aveva modo di far scambiare delle idee su un piano personale tra il presidente e Montini. De Gasperi aveva ricevuto da Montini, proprio in virtù del fatto che il padre di Montini era stato un popolare, qualche atto di riguardo anche quando era impiegato in Vaticano. Da altri De Gasperi non ne aveva. Pio XI vide De Gasperi una sola volta, all’inaugurazione della Mostra della stampa cattolica. Non fu mai ricevuto in udienza particolare. Però Pio XI fece un gesto coraggioso, nel momento in cui Mussolini mandò una nota verbale, tramite l’ambasciata, affinché De Gasperi fosse mandato via: De Gasperi era riuscito ad avere, proprio dopo la Conciliazione, un piccolissimo impiego di scritturale in Biblioteca. Da parte del partito si pensava che questo potesse rappresentare un centro di carattere politico e si fece la nota per chiedere al Papa di allontanare De Gasperi. La risposta è molto bella, perché si dice non solo che non si può chiedere al Papa di togliere il diritto di esistere a un padre di famiglia che si acquista il pane per sopravvivere, ma anche per un’aggiunta molto significativa: dovrei ritenere – disse il Papa – che il regime si sente molto debole se ha paura che un impiegato della Biblioteca Vaticana possa metterlo in difficoltà. Questa è una cosa che ci fa, quindi, anche perdonare quei primi momenti, accennati poc’anzi, di non sufficiente riconoscimento del Partito popolare. Ebbene, in una di queste domeniche del 1948 venne fuori un’idea su chi poteva spiegare direttamente a Pio XII che cos’era il Patto atlantico. Si scelse la persona più adatta. Un “ultralaico”, ambasciatore italiano a Washington proveniente dal Partito d’azione: Alberto Tarchiani. Si organizzò un’udienza di Alberto Tarchiani con Pio XII, l’8 settembre 1948. Tarchiani di questo incontro fa un accenno in un suo libro, ma solo “tra una riga e l’altra”. Noi abbiamo pubblicato su 30Giorni una lettera protocollata della Segreteria di Stato in cui si conferma che l’udienza c’è stata. Si dice che non c’è traccia del contenuto perché il Santo Padre non ha conservato appunti né era una pratica ufficiale. Però ci è stata mandata in allegato la copia della lettera con cui l’ambasciatore presso la Santa sede chiedeva l’udienza, quindi un documento storico. E poi c’è un’altra cosa meravigliosa. Normalmente chi è ricevuto in udienza particolare dal Santo Padre viene menzionato in prima pagina dall’Osservatore Romano. Nel caso di Tarchiani questo non avvenne. Però mi è stato mandato dalla Segreteria di Stato l’Osservatore Romano del 5 settembre 1948. Stranamente, nella “cronaca” ci sono tre righe che suonano così: «L’ambasciatore d’Italia a Washington, Alberto Tarchiani, è giunto a Roma dopo un breve congedo trascorso in Piemonte». E si dà in questo modo certificazione.
Citati questi due precedenti che mi parevano di una certa importanza, ci sono stati momenti nei quali certamente la situazione è stata piuttosto difficile. Uno di questi momenti è relativo alla coalizione del governo dopo il 1948. Nel 1948 la Democrazia cristiana ebbe la maggioranza assoluta ma De Gasperi volle che nel governo rimanessero i partiti alleati – il Partito socialdemocratico, il Partito liberale e il Partito repubblicano – proprio perché riteneva, giustamente (ed è poi ciò che disse nel discorso finale che fece al Congresso del ’54), che l’Italia non si governa solo con i voti. Diceva: esistono le università, esiste la stampa, esistono le aziende di credito, esistono le culture, le tradizioni. Quindi avere un governo più rappresentativo era considerato un atto importante nel momento in cui, fra l’altro, si doveva consolidare una struttura nuova quale era la Repubblica. C’era chi andava continuamente da Pio XII a dire: così si stempera il carattere cattolico della Democrazia cristiana. Anche all’interno della Democrazia cristiana c’erano – fra l’altro non tra i conservatori – degli intransigenti un po’ massimalisti (il gruppo di “Cronache sociali”: è storia, insomma) i quali pensavano che fosse un annacquare il nostro modo di porre una base di carattere politico.
Il momento più difficile, e qui torna Montini, e sto nel tema, si ebbe per le elezioni amministrative romane del 1952: quella che si ricorda come “Operazione Sturzo”. Tutto nacque da una risposta data da Guido Gonella, segretario della Democrazia cristiana, a chi gli chiedeva se c’era il rischio che si potessero perdere le elezioni. Gonella rispose in un modo, credo, onesto. Disse: «Ma nelle elezioni c’è sempre rischio». Avevamo avuto già in precedenza momenti difficili, proprio in occasione delle amministrative romane, quando si impose – sia pure con il fulgore di una sola occasione – il Movimento dell’uomo qualunque, che ebbe più voti della Democrazia cristiana. Fu secondo dopo il Fronte popolare, noi arrivammo terzi. Quindi c’era il timore che potesse riaccadere qualcosa di simile in chiave di sinistra. Avere un sindaco comunista era considerato, in modo particolare da Pio XII, una cosa non tollerabile e che doveva essere evitata. Ci fu allora chi suggerì una formula un po’ strana per depoliticizzare le elezioni di Roma. È sempre difficile depoliticizzare le elezioni di una qualunque città ma a Roma era ancora meno facile. E non era facile, tra l’altro, mantenere una coalizione di governo e, nello stesso tempo, fare qualche cosa che urtasse profondamente contro questa coalizione. Lo si chiese a Sturzo. Sturzo era veramente un sant’uomo, aveva un carattere impossibile ma era veramente un sant’uomo. Era di una disciplina straordinaria verso la Chiesa. Si chiese a Sturzo di dare il nome a questa iniziativa di depoliticizzazione, tanto è vero che essa si ricorda con il nome di “Operazione Sturzo”. Ma Sturzo pensava di potere veramente ottenere che proprio tutti i partiti facessero una specie di voto di castità elettorale in quel momento e che si creasse una coalizione che impedisse una vittoria del Fronte popolare. Il Fronte popolare aveva una straordinaria duttilità di movimento. Per esempio, in una delle consultazioni romane, non avendo la sensazione di riuscire a sfondare, presero il vecchio Francesco Saverio Nitti e gli offrirono di essere capolista. Nitti disse a me, poco dopo: «Pensi che maturazione ha l’Italia: io, senza un partito alle spalle, sono riuscito in due giorni a mettere insieme una lista per le elezioni di Roma!». Quindi vivevamo in una situazione leggermente evanescente per alcuni problemi. Però questa idea di Sturzo avrebbe creato sicuramente una crisi governativa perché i partiti con noi associati l’avrebbero considerata un modo per mettere assieme i voti del Movimento sociale, i voti dei monarchici e i voti nostri. Di questo, in effetti, si trattava. De Gasperi ne soffrì enormemente. Poi, per fortuna, ci furono alcuni piccoli intoppi nella formulazione perché anche gli altri partiti, ad una presa di contatto con l’elettorato, incontrarono qualche difficoltà. Io non ho mai visto soffrire De Gasperi come in quei giorni. Era proprio veramente avvilito. Allora presi un’iniziativa. Feci un appunto dicendo che non era vero che c’era pericolo perché, pur non avendo un grande margine, con gli altri partiti avremmo raggiunto la maggioranza. Poi spiegavo le difficoltà: questa operazione avrebbe provocato la crisi di governo, avrebbe originato probabilmente una rottura di rapporti che con molta fatica si erano costruiti con gli altri partiti. Allora – siccome in alcuni momenti bisogna non solo non fidarsi della posta ma nemmeno dei tramiti ufficiali – presi questo appunto e lo portai a madre Pascalina, che era un po’ la guardarobiera del Papa. Le dissi: «Per piacere, deve dare subito questo appunto al Santo Padre perché sicuramente non è stato informato in maniera corretta». Passarono forse due ore. Mi chiamò monsignor Tardini dandomi intanto una piccola stracciata bonaria perché non mi ero servito della Segreteria di Stato (però ritengo che se me ne fossi servito probabilmente l’appunto sarebbe ancora lì). Ma poi disse: «Guardate che vi sbagliate del tutto. Non è assolutamente vero. Il Papa non vuol creare nessun imbarazzo a De Gasperi. È incaricato Montini di spiegarvi la situazione perché ha più rapporti con lui». De Gasperi, per dimostrare l’impegno che c’era per le elezioni di Roma aveva detto: «Se è necessario mi presento anche io nella lista del Consiglio comunale».La risposta venne immediata tramite Montini, il Santo Padre disse: «No, ci mancherebbe altro che si mettesse in crisi anche De Gasperi». Quindi la cosa fu risolta. Ma sempre grazie a questo nostro nume tutelare. Non l’ho mai visto occuparsi delle piccole cose, occuparsi, ad esempio, di nomine. Proprio per questa sua linea devo dire che si vedeva il figlio del deputato popolare perché avvertiva il fondo dei problemi politici che avevamo.
Paolo VI nel suo studio

Paolo VI nel suo studio

I disagi furono molto forti per il problema dell’aborto e, prima ancora, del divorzio. Come forse ricorderete, per il divorzio vi erano state una serie di proposte per diverse legislature. Un deputato di Napoli, Sansone, presentava una proposta di legge che rimaneva sempre regolarmente negli archivi, e nessuno la sollecitava mai. Del resto, nell’Assemblea costituente, quando si votò l’articolo sulla indissolubilità del matrimonio, il problema era così poco sentito che non ci fu una mobilitazione generale. E non passò per pochissimi voti, ma senza clamori. Non era quello il momento. Più tardi la questione divenne di emergenza. Venne anche usata come forma di coagulo tra i partiti, sempre nel tentativo di risolvere il problema del divorzio, ma anche per creare un possibile distacco dei cosiddetti laici dalla Democrazia cristiana. Noi alla Camera facemmo tutto il possibile perché la legge non passasse, però i voti sono voti. Ci iscrivemmo tutti a parlare, più di questo non potevamo fare. Quando si arrivò al dunque, naturalmente prevalsero i voti favorevoli alla legge Fortuna-Baslini. Il momento era delicato. C’era il governo di coalizione con i socialisti, il governo Rumor. De Martino fece una proposta. La Costituzione prevede il referendum ma non si era mai parlato della legge per renderlo esecutivo. De Martino propose, proprio per “tranquillizzare” gli ambienti contrari a questa legge, di attivare lo strumento del referendum che in quella fase assunse la sua esecutività. Il referendum non fu chiesto né dalla Chiesa né dall’Azione cattolica. Fu chiesto da un gruppo di cattolici, in particolare da Gabrio Lombardi. E la risposta di Paolo VI, a chi preconizzava una sconfitta, fu questa: noi non lo abbiamo chiesto ma non possiamo impedire che un gruppo di cattolici prenda un’iniziativa legale, prevista dalla Costituzione, per cercare di far abrogare una legge che noi stessi reputiamo sbagliata. Quindi, una posizione di grande rispetto democratico. Altri invece si erano illusi. Vescovi e sacerdoti confondevano i modi cortesi dei loro interlocutori con l’impegno a votare contro il divorzio. Così, don Costa, don Bartoletti, soffrirono fortemente loro, e fecero poi soffrire il Papa. Di fatto il risultato, come sapete, fu di conferma della legge. Anzi, con una maggioranza superiore a quella che c’era stata nelle aule parlamentari. Io avevo fatto inutilmente una proposta. All’epoca dirigevo una rivista, Concretezza. Feci una proposta che mi pareva ragionevole, anche perché non mi piaceva il referendum come tale in quanto apriva una forma veramente esagerata di dissidio. Vedere poi a piazza Navona quelle manifestazioni di Malagodi abbracciato a Nenni… mi dava, sinceramente, un po’ di fastidio fisico. Dissi: in fondo il matrimonio civile fino a qualche tempo fa veniva considerato canonicamente un concubinato, tanto è vero che il vescovo di Prato è andato a finire anche in tribunale per avere ricordato questo. Ora, badate, non mi piacerebbe affatto il sistema per cui il ragazzo che va a sposarsi debba dichiarare prima se vuole un matrimonio stabile o meno… Questo può andare bene nei libri di Khomeini ma non nella nostra disciplina matrimoniale. Mi pareva tuttavia un male minore che il matrimonio civile potesse essere sottoposto a divorzio. Chi sceglieva invece il matrimonio concordatario, e quindi la disciplina del diritto canonico, restava legato all’indissolubilità. Ebbi un insuccesso totale perché, naturalmente, Gabrio Lombardi e gli altri dicevano che io volevo sabotare il risultato del referendum. Altri ancora dicevano che non era possibile fare questa discriminazione. Fu una proposta comunque non accettata.
Più delicata fu la questione dell’aborto che creò un problema grave in molti di noi. Badate, se avessimo avuto allora le cognizioni scientifiche che si sono avute successivamente, probabilmente si poteva fare qualcosa di diverso e dico in che senso. Io, per una pura combinazione, ho visto una pubblicazione inglese molto documentata. L’ho trovata nella biblioteca dell’Università di Teheran, dove ero in visita. In biblioteca ho visto un recente volume inglese nel quale è visivamente documentato proprio questo concetto: la nascita avviene dal concepimento e non si tratta di dover dire i due mesi, tre mesi, quattro mesi… Quindi, di fatto si può considerare l’aborto una forma di assassinio, una vita che si spegne, e questo è un problema che, credo, la scienza dovrà ulteriormente pubblicizzare, rendere più aperto. Dovrà essere un discorso da potersi riproporre su una base più ampia che non sia una semplice base nazionale. Però anche su questo naturalmente si creò un momento grave. Io ero presidente del Consiglio ed ebbi veramente il desiderio di non firmare questa legge e di poter andare via. Perché non l’ho fatto? È una delle cose di cui, credo, dovrò rispondere nell’altro mondo; mentre di cose di cui mi fanno rispondere qui, nell’altro mondo, siccome non esistono, non dovrò discolparmi… [applauso]. Era un momento difficilissimo. Pensate che la spinta degli abortisti era tale che alla Camera dei deputati si volle continuare a discutere anche in pendenza dei giorni di cattura di Moro. E al Senato, quando il 10 maggio si fece la commemorazione di Moro successivamente al tristissimo rinvenimento, si riprese immediatamente dopo una breve sospensione. Questa legge era fortemente voluta dalla maggioranza divorzista. Ma mettere in crisi in quel momento il governo significava veramente compiere qualche cosa di molto rischioso. Solo dopo abbiamo saputo che le Brigate rosse forse erano meno forti, meno compatte di quello che si riteneva. Ma in quel momento, avendo ottenuto un risultato così clamoroso come quello di aver messo sotto scacco lo Stato e di avere ucciso Aldo Moro (nonostante tutte le pressioni che erano state fatte, compresa quella – ne parlo tra un attimo avviandomi poi a conclusione – di Paolo VI), mi sembrò sinceramente un atto di vigliaccheria; e senza mancare di riguardo a nessuno, siccome si porta sempre come comparazione il re del Belgio, beh, il re del Belgio se ne andò per un giorno, la legge la firmò un reggente e il giorno dopo è ritornato… Insomma, io allora avrei potuto marcare visita e lasciare il compito al vicepresidente del Consiglio di firmare… Ma credo che sarei stato scudisciato se avessi fatto una cosa di questo genere. Comunque, anche con una crisi di governo la legge era ormai definita.
Sono stati due episodi di grande amarezza per Paolo VI. Il segreto di tutta la pedagogia di Montini fucino e di Montini dei laureati cattolici era quello di non badare al numero, ma di badare alla qualità e alla profondità della ricerca e degli approfondimenti. Tuttavia l’esito del referendum obbligava a riconoscere che vi erano delle zone, a cominciare da Roma (dove pure c’è una discreta popolazione ecclesiastica e paraecclesiastica) con i risultati dell’uno e dell’altro referendum molto deludenti, al di sotto della media nazionale. Questo amareggiò fortemente Paolo VI. Qualcuno lo rimproverò quando dava qualche piccolo ammonimento a dei vescovi stranieri per circostanze analoghe. La risposta veniva facile: ma, scusate, come mai voi in Italia non siete riusciti a bloccare questa situazione? Furono momenti di grande amarezza, furono momenti nei quali però il Papa non perse mai la fiducia nei confronti di quella che era una certa linea, chiamiamola pure di democrazia pluralista, che doveva essere mantenuta.
Aldo Moro con Paolo VI

Aldo Moro con Paolo VI

Non sto qui ad accentuare la delicatezza del carattere del Papa. Quando lo si vuol far passare per un uomo incerto, per un uomo preso da scrupoli, non è così. Aveva un enorme rispetto per tutti i suoi interlocutori. Considerava che, certamente, la verità non è qualcosa di opinabile, però bisognava fare in modo che chiunque avesse la possibilità di esprimere la sua verità e il suo concetto di verità. Non a caso, quando si cercò di tirarlo in mezzo per ostacolare la creazione della moschea a Roma, la sua risposta fu proprio all’opposto. Disse: no, questo arricchirà il carattere di civiltà universale della nostra città, che certamente è la Roma «onde Cristo è romano», ma è anche la Roma dove tutti devono avere la possibilità di parlare e di esprimersi. Sono cose che gli costavano, anche perché la curia non è che sia disciplinatissima, qualche volta “fanno le bucce” anche al papa, e ancora di più, ci si figuri, ai quadri intermedi…
Vorrei dire due ultime cose su quello che riguarda la posizione di Paolo VI rispetto alla tragedia di Moro. Monsignor Macchi, il suo segretario particolare, ha scritto un saggio con documentazione ineccepibile, tra l’altro mettendo in luce due cose importanti. Di una sono particolarmente grato. È stato infatti ripetuto da alcuni che la frase «senza alcuna condizione» nella lettera del Papa fosse stata suggerita dal governo o da me personalmente. Questo non è vero. La lettera che il Papa ha scritto io l’ho letta due giorni dopo… Insomma, che certamente quella fosse la linea del governo e che non avessimo la possibilità di fare diversamente è una realtà. Dopo sono venute fuori molte polemiche. Certo, lo Stato era debole. Vorrei però ricordare che ancora in quella fase, una misura di polizia così tenue come era la legge Reale – cioè la possibilità del fermo di due giorni, prima della convalida della magistratura – suscitò una reazione fortissima, ci fu un referendum. È vero che il referendum non abolì la legge, ma vi furono sette milioni di italiani che votarono per abrogarla. Tutto andava in una direzione nella quale questo Stato, che era considerato dagli extraparlamentari come il nemico, come ostile, non aveva dei grandissimi mezzi a disposizione. Lo Stato però incoraggiò tutti i possibili sforzi, e qui c’è la documentazione che anche la Santa sede aveva attivato un contatto. Contatto che era stato allacciato dal cappellano delle carceri di Milano, monsignor Curoni, che poi divenne cappellano nazionale dei sacerdoti addetti agli stabilimenti penitenziari. Monsignor Curoni aveva una forte preoccupazione che il magistrato lo interrogasse e che fosse costretto a dare il nome della persona contattata. Non poteva dire che era segreto confessionale perché non lo era. Se avesse detto che era segreto confessionale temeva si aprisse una questione costituzionale sulla validità del principio secondo cui il segreto confessionale deve essere opposto anche al magistrato. La mia opinione, mi guardo bene dal tornarci stasera, è che questo “contatto” fosse un imbroglione e non fosse un elemento che aveva veramente il potere di modificare l’atteggiamento dei brigatisti. Anche perché io non credo che anche per una cifra così forte che era dieci miliardi di lire di riscatto, le Brigate rosse avrebbero concluso una vicenda che gestivano in maniera, per loro, di principio, che era per loro di portata storica, accettando di essere declassati ad una specie di sequestratori di persona. E certamente non è che ci faceva piacere l’idea che le Brigate rosse incassassero dieci miliardi di lire, che non avrebbero certo speso in vacanze… Però, se fosse stato possibile, lo avremmo visto bene… Mentre non era possibile il loro riconoscimento giuridico, cioè il riconoscerli come partito, cosa che le Brigate rosse volevano, perché questo significava mettere in crisi il sistema politico italiano. E guardate che il problema può tornare di attualità. Dobbiamo stare molto attenti in questo senso: perché si era sviluppato e aveva allignato questo furore delle Brigate rosse? Perché prendevano come motivo o come pretesto, o comunque come argomento di propaganda, il fatto che i comunisti, dal 1976, uscendo dal lungo periodo di opposizione ai governi che durava dal 1947, avevano appoggiato – sia pure all’inizio con l’astensione, cioè con la non sfiducia – e facevano reggere un governo democristiano, presieduto da un democristiano, che tra l’altro ero io (ma questo non ha molto importanza). Alcuni storici tendenziosi hanno criticato Togliatti a suo tempo, e poi Berlinguer, per avere abbandonato la via rivoluzionaria. Perché dico che dobbiamo stare molto attenti alla situazione attuale e cercare di avere le idee molto chiare? Perché se potessero farsi accreditare delle voci o delle teorie secondo le quali tutto ciò che era l’opposizione al Patto atlantico sia diventato invece un’adesione ad esso – per giunta allargato nelle sue finalità e nei suoi mezzi – attraverso un atteggiamento diverso nei confronti dell’America e nei confronti delle bombe, il timore che possano rinascere dei movimenti di autonomi che si considerino i vendicatori e i sostituti di una sinistra storica che “ha tradito”, è qualche cosa su cui, io credo, dobbiamo riflettere e che non possiamo non considerare.
L’ultima osservazione, anzi la penultima che vorrei fare: la delicatezza del Papa nei confronti delle Acli. Il Papa amò molto questo movimento, lo difese fortemente anche in momenti critici. Rimase piuttosto sconcertato quando le Acli non solo si disimpegnarono dalla Democrazia cristiana (questo non è teologicamente riprovevole) ma presero parte al movimento per il divorzio. Una persona a cui ho voluto bene, Livio Labor, che è morto recentemente, s’era un po’ arrabbiato, e mi dispiace, perché in un articolo io avevo scritto che qualcuno aveva abbandonato il campo pensando che spostandosi in un altro, potesse portare lì le sue idee. Dissi che poi invece capita che si finisce con il doversi allineare alle battaglie degli altri. Mi riferivo in quel caso in modo particolare al divorzio. Labor mi mandò una lettera in cui diceva: io non ho mai fatto propaganda per il divorzio. Beh, allora io gli mandai una copia dell’Avanti! di quel periodo in cui si parlava di un discorso fatto da Labor all’Università Cattolica sul problema del divorzio, quell’Università Cattolica che aveva vietato al professor Cotta di andare a fare un discorso per il fronte opposto, per gli antidivorzisti. Forse alcune di queste cose – anche se la carità cristiana porta a mettere un velo – facciamo bene a ricordarle. Ricorderei tanti altri momenti in cui Montini ci ha aiutato e orientato. Qualche mese fa c’è stato a Milano un seminario su Paolo VI e l’Europa e ho potuto io stesso, partecipando insieme ad altri, fornire una documentazione ampia di quello che è stato l’apporto allo sviluppo della coscienza europea fornito personalmente da monsignor Battista Montini prima e da Paolo VI poi. Vorrei ridire ciò che per le Acli egli sintetizzò in un piccolo augurio, nel Natale del 1957, augurio che poi fu diffuso attraverso un cartoncino: «Il pane, il tetto, l’abito, il lavoro non devono mancare a nessun uomo». Era il Montini considerato da alcuni aristocratico, insensibile ai problemi della gente che soffre. Non è affatto così.
E chiudo con altre due citazioni che penso possano rimanere nella vostra mente, nel vostro cuore. Ho tralasciato varie cose. Pazienza. Una prima citazione, della quale però non ho il riferimento dell’anno, fa parte di quegli appuntini che mi sono stati confidati e che rappresentano un patrimonio di cui sono geloso. Lascerò detto che se io non avrò tempo di scrivere il libro li rimandino a Camadini e lo faccia fare ad un altro. Magari si mettano nella prefazione due righe di mia commemorazione. Prima però dico solo i titoli di un altro appunto molto più lungo su cattolicesimo e politica: «Se la politica sia la meretrice corruttrice». «Pericoli: fine umano: regno della terra. Fine egoistico: arrivismo. Fine individualistico: ogni soldato un capo, quindi perché non fare politica e se sia dovere, talvolta, quando e come (fame di giustizia)». Alcune definizioni: «I molluschi: coloro che non vogliono che si faccia politica per non intralciarne un’altra. Gli adattabili: coloro che non hanno lottato e conquistato mai non comprendono come doveroso che un gesto solo: l’applauso a chi è riuscito, fare qualche cosa, viltà di chi scopre difetti nella parte più debole; vittima; forse gli uomini veri restano in piedi». E queste sono le due citazioni che prima ho preannunciato. Una riguarda questa tesi: «Se si riuscisse a rendere inerte o a sopprimere il cattolicesimo in Italia che cosa avverrebbe? Un immenso corpo grave e pigro peserebbe sulla vita del Paese». E alla domanda: «Di che ha bisogno l’Italia?» la risposta è questa: «Non tanto di uomini quanto di una coscienza legale e giuridica di rispetto alla legge». Questo è Paolo VI.



Il rettore dell’Università di Padova Giovanni Marchesini

Il rettore dell’Università di Padova Giovanni Marchesini

«Questo è Paolo VI»
Questo articolo è la trascrizione della conferenza tenuta da Giulio Andreotti a Padova il 10 maggio 1999, su Il rapporto di Giovanni Battista Montini con le vicende politiche italiane dalla Costituente alla tragedia di Aldo Moro. L’incontro, che si è tenuto nel centro congressi Papa A. Luciani è stato organizzato dalla Compagnia delle Opere con il patrocinio della Regione Veneto e del Comune di Padova. La conferenza di Andreotti è stata introdotta dal saluto del rettore dell’ateneo di Padova, Giovanni Marchesini: «Il mio è un rapidissimo saluto e un grazie al presidente Andreotti per essere qua con noi e per avere accolto anche l’invito di questa città, così famosa per la sua Università e anche per la storia sia della cultura che della politica. Io sono estremamente interessato ad ascoltare la viva voce del presidente Andreotti che è stato, sul palcoscenico della vita italiana, autore, attore, regista, sceneggiatore di una storia che non è finita e che certamente lo vedrà ancora in tutte queste vesti. Grazie, senatore».


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