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PIAZZA COLONNA
tratto dal n. 05 - 1999

Chi è interessato a non farci uscire dalla stretta


Continua la raccolta degli articoli del nostro direttore pubblicati sul quotidiano romano Il Tempo


Gli articoli di Giulio Andreotti apparsi sul quotidiano romano Il Tempo nel mese di maggio


3 maggio
Dal nuovo beato una speranza anche per i non credenti

Non rammento una mobilitazione popolare così massiccia e dalle provenienze tanto diffuse.
Mi è stato chiesto come lo si spiega. Penso che il fascino che con intensità crescente emana da Padre Pio è dovuto a due fattori: la sua profonda fede, espressa nella celebrazione della messa con una partecipazione personale quasi drammatica, e la premura per il sollievo della sofferenza degli ammalati.
È una personalità che attrae proprio per essere completamente contro corrente. In un mondo nel quale anche molti cattolici praticanti hanno sempre fretta, cronometrano la durata del precetto festivo e considerano superato il sacramento della penitenza, Padre Pio riusciva a chiamare folle immense attorno all’altare e a sottoporre la gente a lunghe prenotazioni per essere da lui confessata. Di più. Mentre si ampliano le teorie del deferimento allo Stato anche dei compiti ospedalieri, il Padre volle un grandioso ospedale ai servizio delle trascurate popolazioni meridionali, sorretto dalla carità dei fedeli.
Ma c’è forse un drammatico fattore che si è aggiunto negli ultimi mesi: la guerra che sta sconvolgendo una zona dei Balcani e che vede ogni giorno masse di sbandati, di profughi, accampate in Macedonia e in Albania, con forti nuclei che tentano di trovare, traversando l’Adriatico, uno sbocco alla loro tragedia.
Certo ci si affida anche alle trattative diplomatiche per far uscire dal caos e dare alle genti del Kosovo una convivenza accettabile, ma anche tra i non credenti c’è chi guarda a Padre Pio.


8 maggio
Comiso: da centro missilistico a rifugio per i kosovari in fuga

Comiso. Il nome ricorda la località della Sicilia nella quale furono collocati i missili che nella strategia dell’Alleanza servivano a bilanciare – e frenare – le forze dell’Urss.
Non mancarono proteste politiche in tutta Italia ma non trascesero mai in violenze, né vi furono tentativi o atti di sabotaggio. Questo è bene farlo sapere ai giovani.
Crollato l’impero comunista, su Comiso – con le sue bellissime attrezzature recettive per migliaia di militari – si delinearono idee, tra cui un centro postuniversitario euromediterraneo. La necessità umana di dare un letto ai profughi del Kosovo ha accantonato tutti questi piani.
È una nuova vocazione per Comiso, egualmente provvisoria, perché i kosovari hanno il diritto a essere aiutati a tornare nelle loro case. E si riprenderanno allora studi e propositi.


18 maggio
Il conflitto per il Kosovo visto dai barboni delle città

Quando si leggono i risultati dei sondaggi di opinione, a parte l’accredito del rilevatore, si cerca di conoscere la qualità e la quantità del campione assunto; e, di regola, a seconda che corrisponda o meno con le nostre preferenze, si è portati a dare o no credito all’esito appreso.
Leggo un sondaggio tutto particolare che è stato fatto da un foglio che circola fuori commercio e che merita di essere conosciuto. Il giornalino si intitola Il barbone vagabondo ed è edito da un piccolo gruppo di poveri facenti capo alla Comunità periferica romana San Leone. I redattori firmano soltanto con il nome. Il breve editoriale dell’ultimo numero si intitola Questa brutta guerra. «Abbiamo un po’ parlato tra noi di questa guerra con l’impegno di approfondire la storia della Iugoslavia, perché, come ci dice Guido, la maggior parte delle persone sono ignare delle motivazioni che hanno indotto la Nato a iniziare i bombardamenti e pochissimi conoscono la storia dei Paesi balcanici».
Seguono le testimonianze.
Christian: «In televisione scorrono immagini agghiaccianti. Uomini, donne e bambini buttati fuori dalle loro case e dalla loro terra in cammino per giorni interi per trovare un rifugio. Anche io non conosco bene la storia di quei poveri, ma la guerra è inutile e non pensavo, a cinquantaquattro anni, di vedere questi massacri».
Luisa: «È una guerra brutta e crudele come tutte le guerre, dove si mescolano i bombardamenti delle grandi potenze a guerriglie e soprusi di ogni genere. È gente dell’Est che in questi ultimi anni abbiamo imparato a conoscere che si è ritrovata senza più una casa, con grandi lutti nel cuore e poche certezze. Forse un sorriso o un piccolo gesto di amicizia può bastare per rendere meno difficile il peso di questo viaggio non cercato».
Rosina: «Mi auguro che quando il giornalino sarà distribuito sia tutto finito e non ci siano più morti. Anche se in tutto il mondo ci sono state manifestazioni e prese di posizione diverse dei politici si continua a sparare. Ho parlato con due miei amici, Giovanni e Vincenzo, anche loro senza fissa dimora. Il primo, che ha sessantacinque anni, è favorevole all’intervento della Nato e pensa che i bombardamenti servano. Vincenzo, che è molto più giovane, ha partecipato ad alcune manifestazioni per la pace perché crede che non sia giusto che per colpa di una sola persona sia la povera gente a morire. Per lui l’unico responsabile è Milosevic, ed è lui che dovrebbe pagare».

***

La redazione fa seguire questo commento.
«Sono poche e semplici considerazioni di alcuni di noi. Anche qui le posizioni personali sono diverse così come capita di sentire ovunque, in strada, nei negozi, ma ciò che la redazione vuole affermare è il convincimento che una moderna democrazia non è solo un sistema in cui tutti devono e possono sentirsi uguali, ma è anche un incontro tra uomini e popoli che hanno tradizioni, cultura, religioni e ideologie differenti. E la scelta per vivere insieme è quella di non usare la violenza per risolvere le differenze, ma impegnarci tutti quanti a convincere gradualmente chi si ostina a usare la forza che viviamo in un’epoca in cui non c’è più giustificazione per le guerre».


19 maggio
Mentre parlava emergevano le sue qualità politiche

Mentre ascoltavo il discorso inaugurale del presidente Ciampi pensavo alla fragilità della distinzione che spesso usa farsi tra tecnici e politici. Il nuovo capo dello Stato è senza dubbio un economista e un uomo di finanza (con una originaria preparazione letteraria che non guasta) ma mi sembra che nulla nella sua odierna esposizione risulta carente di vera ispirazione politica.
Del resto, già la Banca d’Italia – di cui ha percorso tutto l’iter interno – e più tardi la guida di ministeri e la presidenza del Consiglio gli hanno dato in prima persona una preparazione non comune. Ma c’è di più. Ciampi conosce l’estero ed è conosciuto. In questo momento è particolarmente importante e, stante la nota globalizzazione dei problemi, lo sarà sempre di più.
Personalmente ricordo la preziosa collaborazione avuta dal dottor Ciampi in un momento difficilissimo, quando dovevamo dare la nostra adesione al sistema monetario europeo, in una fase di delicati rapporti parlamentari e di dubbi espressi anche da autorità tecniche importanti. Certamente quando ha lavorato con tenacia e coraggio per il successo dell’euro, Ciampi non ha dimenticato quelle notti del 1978 e neppure la gestazione tormentata del Trattato di Maastricht.
Il discorso inaugurale del presidente non è come i discorsi della Corona di cui l’illustre oratore (o oratrice come in Inghilterra) è soltanto lo speaker di un testo predisposto dal governo. Tuttavia con una crescita di poteri di fatto che di settennato in settennato si sono sviluppati, e in attesa della riforma, che potrà essere solo del metodo di scelta, l’odierno discorso di Ciampi non poteva essere solo protocollare. E non lo è stato. Le pesanti ombre di una guerra che c’è ma non si chiama tale incombevano su Montecitorio, in attesa di un chiarimento che dovrà elaborarsi nelle due Camere con grande consapevolezza dei nostri impegni internazionali, ma senza abdicazioni o rinunce che sarebbero vietate dalla Costituzione e da una coscienza nazionale che le alleanze vivificano e non possono mai mortificare.
La Costituzione. Riformarla o meglio aggiornarla è necessario. Basti pensare che la Comunità europea, divenuta poi Unione, ha cambiato in profondità competenza e meccanismi. D’altra parte una forte esigenza di decentramento è avvertita in tutta Italia, auspicando un federalismo che avvicini il potere alla gente e il popolo al “potere”. La sussidiarietà che è stata oggi evocata è una linea-guida molto importante. Alcuni termini non sono più in uso; ma i relativi problemi restano e come. Parlo della “politica della lesina”, dell’austerità e di altri non dimenticati momenti. In Europa ci siamo ma occorre restarci. E le regole strette dovranno sempre di più impegnarci. Il governo troverà certamente nel Quirinale uno stimolo, un consiglio e anche un controllo. Il patto sociale, che Ciampi ha ricordato, si inquadra in questo contesto, senza il quale vano sarebbe il richiamo alla lotta alla disoccupazione.
Applausi particolari – mi sembra doversi rilevare – hanno sottolineato i passi del discorso riguardanti l’Europa, gli italiani all’estero, l’istituto familiare e anche l’omaggio alla «Roma onde Cristo è romano», e personalmente alla figura di Giovanni Paolo II.
Pensavo all’Italia di una volta, nella quale anche in quest’aula di Montecitorio Stato e Chiesa si combattevano o, nelle fasi meno aspre, si ignoravano. E non potevo, mentre ascoltavo Ciampi, non rifarmi al 25 marzo del 1947 quando votammo qui il recepimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione della Repubblica. Le piccole cose passano. Le grandi scelte restano.


21 maggio
Qualcuno non vuole un Paese forte

Non è facile scrivere sotto la profonda emozione suscitata dall’agguato mortale al professor D’Antona. Già in se stesso questo assassinio è sconvolgente, ma addirittura angoscioso diviene per il dubbio che pone sul possibile sintomo di una ripresa della violenza terroristica di stampo politico o sindacale. Per questo è più che mai necessario che si faccia ogni sforzo per far luce sull’imboscata di via Salaria.
Fare delle ipotesi può sembrare inopportuno, ma inutile non è. Sullo sfondo dei cosiddetti anni di piombo vi fu la propaganda per addebitare ai comunisti la rinuncia alla “via rivoluzionaria” quando abbandonarono l’opposizione governativa e presero gradualmente le distanze da Mosca (ricordo il discorso di Berlinguer sul rigetto della tesi del partito guida – il Pcus – e di partiti guidati).
La sinistra estrema, divenuta extraparlamentare, prese la via della clandestinità e degli attentati. Gambizzando e uccidendo pensavano di conquistare loro il potere, spazzando via traditori e moderati. Anche la morte di Moro e della sua scorta si inquadra in questo perfido disegno.
Può pensarsi oggi a una rinascita di questa follia, speculando sulle vicende del Kosovo; su un presunto americanismo dei socialdemocratici europei che sono la maggioranza dei governi; sullo sconfinamento della Nato dal suo carattere meramente difensivo? Non è che una ipotesi, ma va meditata.
Sotto un diverso profilo si deve riflettere ai programmi economico-sociali ispirati alla cooperazione e di cui si annunciano disegni ministeriali per fronteggiare la disoccupazione, che, specie nel Sud, è oltre i livelli di guardia ed ha suscitato esplosioni di rabbia e di disperazione. Qualcuno può ritenere di bloccare queste misure per così dire moderate, speculando sulla insostenibilità della crisi.
Lo stato generale della pubblica opinione fino a questo momento non è risultato troppo eccitato dalle vicende della guerra che non si chiama guerra ma lo è. Negli ultimi giorni però l’allarme delle bombe vaganti nell’Adriatico ha prodotto un effetto profondo. La protesta dei pescatori e le preoccupazioni di tutta la costa rischiano di far uscire dalla tolleranza fin qui mantenuta. Non a caso il Parlamento ha spinto verso una restituzione della controversia nella sede dell’Onu, superando la fase della reazione della sola Nato alla politica dissennata di epurazione etnica nei vicini Balcani. E D’Alema si sta muovendo con vigore al riguardo.
Troppi potrebbero essere interessati a non farci uscire dalla stretta. Ho detto altre volte che a pensar male si fa peccato, ma non sempre si sbaglia.


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