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SANTI
tratto dal n. 05 - 1999

«È il Signore che fa tutto nella nostra Opera»


Così scrisse don Giovanni Calabria, uno dei sacerdoti più famosi della prima metà del secolo. Costituì la Casa Buoni Fanciulli, un’opera grandiosa di accoglienza degli orfani che aveva il suo centro a San Zeno in Monte, vicino Verona: «Tutti coloro che vedono quest’Opera sono costretti a dire: “Noi che conosciamo don Calabria, sappiamo quant’è poveretto e ignorante; perciò la Casa non può essere opera sua di certo, ma opera di Dio! Noi ne abbiamo una prova!”»


di Giovanni Ricciardi


Al cardinale Bartolomeo Bacilieri, vescovo di Verona nei primi anni del secolo, capitava ogni tanto di discutere con dei liberi pensatori. «Per credere» osservò un giorno uno di essi «bisognerebbe incontrare un santo, vedere dei miracoli». «Andate a San Zeno in Monte» rispose il cardinale «e vedrete l’uno e gli altri».
A San Zeno in Monte, poco fuori città, c’era Giovannino, o meglio, don Giovanni Calabria, con i suoi fratelli e i suoi orfani. E lui lo conosceva fin troppo bene. Sapeva che l’Opera di don Giovanni era opera di Dio, e di che pasta era fatto quel pretino. L’aveva accettato lui in seminario, quando era rettore, nel 1892. Anzi, per la verità, una volta l’aveva cacciato.
Nell’81° anniversario del battesimo di don Calabria, il 1 novembre 1954, viene benedetta la campana di San Zeno in Monte (Vr)

Nell’81° anniversario del battesimo di don Calabria, il 1 novembre 1954, viene benedetta la campana di San Zeno in Monte (Vr)

Giovanni Calabria, l’idea di farsi prete l’aveva avuta fin da bambino. Ma per coronare quel sogno bisognava studiare, e in una famiglia del popolo non era così facile. Mamma Angela, orfana di entrambi i genitori, aveva sposato un ciabattino, Luigi, e si arrangiava prestando servizio in case benestanti. Con la malattia del papà, anche Giovanni conobbe presto la necessità di portare soldi a casa. Aiutava la mamma nelle consegne, faceva il garzone di bottega. A otto anni si mise al servizio delle sorelle Sara e Rebecca Camis, stiratrici. Le due donne ebree gli volevano bene, Giovanni era incuriosito dalla loro fede. Gli piaceva seguirle in sinagoga al sabato, e poi fino a porta Vescovo, a oriente, dove andavano immancabilmente «a vedere se arrivava il Messia». Il bambino ripeteva, con la fede appresa dalla mamma, che il Messia era già venuto. Ma esse rispondevano invariabilmente: «Venga il Messia, ch’io non ci sia, ma il Messia verrà».
Non era tagliato, Giovanni, per i lavori manuali. Era una necessità. Collezionò molti impieghi, e molti licenziamenti, durante la malattia e poi dopo la morte del papà, avvenuta nel 1886, che lasciò la famiglia in miseria. Finché, all’ennesimo posto perduto, Giovanni confidò alla mamma la sua piccola idea: entrare in seminario. Mamma Angela esitò, prese il suo scialle, uscì di casa in cerca di don Pietro Scapini. Il rettore di San Lorenzo era una vecchia conoscenza della famiglia Calabria, e non solo per ragioni spirituali. Molte volte aveva messo mano al portafoglio per sovvenire alle necessità più impellenti. Conosceva bene Giovanni. S’impegnò a prepararlo agli esami di ammissione al liceo. Al resto avrebbe pensato il Signore.
«Scarso fra tutti», «di poco ingegno»: questi erano i giudizi che davano i suoi professori. Don Pietro ascoltava, annuiva, e alla fine dell’anno andava a cercare raccomandazioni dai professori, molti dei quali erano stati suoi alunni. «Non deve andar prete!», battibeccò un giorno un professore. «Sì, che ci deve andare» rispondeva don Scapini. «Ma non vede che è un malato, un ignorante?». Certo, non è facile studiare quando si mangia poco e ne risente la salute. Ma in seminario Calabria Giovanni ci era entrato, ed era questo che contava. Poi, nel 1892, venne la chiamata alle armi. Una benedizione, per i superiori, che avrebbero potuto rimandare il discernimento definitivo sulla sua vocazione di ben tre anni. Tanto durava allora la ferma militare.
La trascorse quasi tutta nei reparti di infermeria. Era stato giudicato inadatto a maneggiare le armi. E aveva imparato a curare e a consolare, fino a contrarre il contagio nell’epidemia di tifo scoppiata nella primavera del 1895, per la generosità che lo aveva spinto a offrirsi volontario nell’assistenza ai commilitoni ammalati. Ne guarì, e ottenne una licenza di sessanta giorni. Mamma Angela, che non sapeva dove trovare i soldi per confezionargli un abito civile, lo accolse con un vestito nuovo, frutto di una provvidenziale vincita al lotto.
E al ritorno in seminario, Giovanni si presentò puntuale nella prima classe di teologia. Monsignor Bacilieri se lo vide davanti, come tre anni prima, seduto al primo banco, quel problema da risolvere. E lo cacciò. A rifare la terza liceo. Calabria prese le sue cose e andò via senza proferire parola. Don Scapini non commentò, raccomandando l’ubbidienza. Ma all’esame di ammissione in teologia, l’anno dopo, alzò la voce. Ai professori che non ne volevano sapere di ammetterlo per la scarsità della sua preparazione disse che avrebbero risposto davanti al Tribunale di Dio di una mancata vocazione. E don Giovanni vestì l’abito talare da studente di teologia.
Nei momenti liberi dallo studio non mancava di far visita agli ammalati, insieme ad alcuni amici, tra cui il conte Francesco Perez, che anni dopo abbandonerà tutto per seguirlo nella fondazione della sua Opera, o il giovane Goffredo Friedmann, protestante, che lo accompagnava alle funzioni e che si fece prima cattolico e poi padre stimmatino.
Troppa pietà e poca applicazione. Era questa l’anomalia di quel seminarista. Una mamma minata dalla tisi, vedendone la premura e la carità, gli chiese di confessarsi. «Non sono che una tonaca nera di povero chierico» rispose Giovanni «e purtroppo sotto questa tonaca non c’è niente, proprio niente». La donna prese tra le mani un lembo della tonaca e lo baciò, raccomandandogli i suoi due figli che sarebbero presto rimasti orfani.
Don Giovanni Calabria

Don Giovanni Calabria

Gli orfani. Una sera di novembre del 1897 Giovanni rientrava a casa dalla visita a un ammalato. Riconobbe, in un angolo, su un mucchio di stracci, un bambino a cui faceva spesso l’elemosina in corso Castelvecchio. «Che fai qui, a quest’ora?». «Mi hanno picchiato, mi picchiano sempre». «Chi ti batte, perché?». «Mi dicono di andare a lavorare, che non son buono a nulla; vogliono che porti a casa tanti soldi ogni sera, se no, son botte. Anche oggi le ho prese. E allora sono scappato, e ho pensato: andrò dal pretino». Era finito, chissà come, in una compagnia di zingari, che lo sfruttavano. Giovanni lo portò a casa sua. Fece ricerche, chiese al suo padre spirituale, il carmelitano padre Natale di Gesù, consigli sul da farsi. E padre Natale disse di tenere il bambino con sé e chiedere un segno. Pochi giorni dopo un signore ebreo di sua conoscenza fece arrivare a casa Calabria tutto ciò che occorreva per vestire a nuovo il piccolo orfano. Che fu poi facilmente sistemato in una casa di accoglienza a Bussolengo e battezzato. Il segno era stato chiaro, ma significava molto di più di quanto quel giovane chierico e il suo stesso padre spirituale potessero immaginare.
Nel frattempo arrivò il nuovo secolo e il momento di decidere dell’ordinazione di Giovanni. A Verona serve un nuovo vescovo. La scelta cade su Bartolomeo Bacilieri, rettore del seminario. Che si ritrova fra le mani il “caso” Calabria. Il nuovo rettore, presentando i candidati al sacerdozio per l’anno 1901, pone il problema: «Ci sarebbe Calabria». «Calabria… Che ne dicono i professori?». «Vostra eccellenza sa che i pareri sono discordi, specialmente per la scarsezza in fatto di studi». «Per scienza siamo quasi a terra, lo sappiamo. Ma per bontà?». «Oh, per questo niente da obiettare». «Ebbene,» conclude il vescovo «abbiamo ammesso tanti chierici dotti; ammettiamone uno pio. Nella casa del Padre sono molte le mansioni».
Il giovane viceparroco di Santo Stefano, don Giovanni Calabria, non passò certo inosservato nei primi mesi del suo ministero. Fosse perché si recava a votare scortato dai suoi amici socialisti, che non volevano gli accadesse qualcosa di male per mano dei massoni, o perché le sue visite agli ammalati già lo portavano ben oltre i confini della sua parrocchia, o ancora perché il rettore del seminario lo aveva chiamato, dopo soli sei mesi di messa, al ruolo di confessore dei giovani chierici. «La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo», commentò ironicamente uno dei suoi professori. E don Calabria sgusciava via, tra quelle tonache di monsignori, imbarazzato. Tra i bambini e gli ammalati, o in confessionale, era senza dubbio più a suo agio. Aveva anche lui, d’altra parte, gravi questioni teologiche da risolvere. Ad esempio, durante una visita in ospedale aveva chiesto a un bambino gravemente ammalato: «Vai volentieri in Paradiso?». «No, padre». «E perché non ci vai volentieri?». «Perché ho giocato troppo poco con quel cavallo a dondolo». «Ma in Paradiso giocherai per sempre!». «Si può giocare anche in Paradiso?». «Ma sicuro!». «Allora ci vado volentieri». E volentieri si confessavano a don Giovanni i più riluttanti, i più difficili ad aprirsi alla grazia di Dio. Come l’ubriacone a cui don Calabria faceva l’elemosina, cosa per cui lo stesso don Scapini l’aveva rimproverato: non si dà denaro in carità perché venga speso all’osteria. Poi, un giorno, in ospedale, una suora lo condusse da un moribondo: «Senta, qui c’è un vecchio molto grave, che di preti non ne vuol sapere. Dice solo che si confesserebbe se gli conducessero un pretino che gli faceva la carità ogni giorno. Provi lei a sentirlo, magari riesce a capire di chi si tratti».
Non amava la discussione su argomenti religiosi. A un avvocato che voleva discutere con lui di questioni di dogmatica diede appuntamento in ospedale, lo pregò di accompagnarlo per la consueta visita agli ammalati, che durò piuttosto a lungo, finché questo capì l’antifona, congedandosi in fretta. Ma più di ogni altra cosa, prendeva a cuore i bambini bisognosi. Cercava di sistemarli dai Salesiani o in istituti di suore, alcuni se li portava a casa, finché, nel 1906, mamma Angela si ammalò gravemente. Insieme al conte Perez, l’amico di sempre, promise davanti a Dio che se la mamma fosse guarita e vissuta almeno un anno ancora si sarebbe dedicato in toto alla carità per l’infanzia abbandonata. La signora Angela guarì improvvisamente. Era il 1907. Fu questo l’inizio dell’Opera dei Servi della Divina Provvidenza, la congregazione da lui fondata di lì a pochi anni. L’incontro con un giovane sacerdote, don Diodato Desenzani, gli fornirà la spinta decisiva. E la maggiore libertà che gli viene, provvidenzialmente, dal nuovo incarico di rettore della chiesa di San Benedetto. Qui don Calabria inizierà ad accogliere i primi ragazzi. E a imparare sempre più l’abbandono fiducioso nella Provvidenza. «È il Signore che fa tutto nella nostra Opera», scriverà molti anni più tardi. «Quando in principio, a San Benedetto, ho incominciato a raccogliere i primi, non c’era niente. E allora mi dicevano: “Dove mai li metterà a dormire questi ragazzi?”. Ma il Signore, capite, se mandava il ragazzo, mandava subito anche il letto».
Don Calabria presenta gli orfanelli della sua Casa all’arcivescovo di Chieti in visita a San Zeno in Monte

Don Calabria presenta gli orfanelli della sua Casa all’arcivescovo di Chieti in visita a San Zeno in Monte

Nascerà presto, sotto la guida dell’amico don Diodato, la prima Casa Buoni Fanciulli. Sarà il seme di un’Opera grandiosa che avrà il suo cuore nella chiesa e nella casa di San Zeno in Monte, che conoscerà l’adesione di molti fratelli laici e sacerdoti, un’approvazione ecclesiastica tormentata, e anche molti nemici, dentro e fuori la Chiesa. Un’Opera sempre e in tutto fondata sulla Provvidenza. Il centuplo da subito, insomma, insieme a persecuzioni. «Tutti coloro che vedono quest’Opera» dirà poi don Giovanni «sono costretti a dire: “Noi che conosciamo don Calabria, sappiamo quant’è poveretto e ignorante; perciò la Casa non può essere opera sua di certo, ma opera di Dio! Noi ne abbiamo una prova!”». Per questo ripeteva ai suoi primi confratelli: «Non mendicate aiuti, né protezioni umane: anime, anime e vedrete rinnovati i miracoli dei primi tempi della Chiesa. Stimate, cercate, agonizzate per le anime e vi assicuro che tutto il resto, che dà tanto pensiero, verrà fuori anche dai sassi».
In una parte della Casa di San Zeno don Calabria aveva fatto scrivere la frase del Vangelo di Marco che riassumeva questo suo programma di vita: «Tutto è possibile a chi crede» (Mc 9, 22). La Casa, che accolse negli anni centinaia di orfani, dando riparo a tutti quelli che lo chiedevano, fu intitolata al “padre degli orfani”, san Girolamo Emiliani, e recava scritto in una lapide all’ingresso: «Cariche perpetue della Casa Buoni Fanciulli: Padrone assoluto dal quale ogni cosa si deve dipendere è nostro Signore Gesù Cristo; Padrona, la sua Santissima Madre, la Vergine Immacolata; Economo, san Girolamo Emiliani; Cassiere, beato Giuseppe Cottolengo; Consiglieri, san Giuseppe, san Vincenzo de’ Paoli, san Gaetano da Thiene, il venerabile Giovanni Bosco; Segretario, san Giuseppe Calasanzio; I componenti la casa, poveri servitori».
Delle amicizie di don Calabria e della sua crescente fama di santità col tempo si accorsero in molti. Come il pastore anglicano Clive Staples Lewis, autore del famoso libro Le lettere di Berlicche, che ebbe con lui una fitta corrispondenza. O il cardinale arcivescovo di Milano, il beato Ildefonso Schuster, che lo confortò della sua amicizia soprattutto negli ultimi anni di sofferenze fisiche e spirituali, offerte da don Calabria per l’Opera e per la Chiesa, che, specie nel dopoguerra vedeva minacciata da imminente crisi. Scriveva un giorno al cardinale Schuster: «Ho scolpito le parole che una volta lei mi disse: “La veste canonica c’è, manca lo spirito!”. E poiché le parlo con tutta confidenza, le voglio anche dire, come da anni, con crescente insistenza, sento ripercuotersi in fondo al mio cuore il lamento di Gesù: “La mia Chiesa!”. Qualche volta mi pare che non ci sia fede, certo vi è tanto guasto, siamo così lontani dalla santità a cui dobbiamo tendere, per cui il cuore di Gesù mi sembra tanto addolorato. E mi domando: si può sempre tacere, lasciar correre o non si dovrebbe piuttosto parlare, affinché i più riottosi e distratti sentano, si scuotano e si ravvedano? Evidentemente non è possibile un ravvedimento nel popolo cristiano se non vi è prima un ravvedimento nostro». Nel luglio del 1951 scrive: «La situazione, umanamente parlando, è impressionante, non solo per tutto quello che satana sta preparando in odio a Cristo, ma assai più per lo stato di decadenza di molti cristiani: dovremmo batterci contro l’infernale nemico e invece in larghi strati della cristianità non si fa nulla. Quante battaglie quasi perdute nel campo della moralità […]. Battaglie condotte con tanto dispendio di energie non hanno dato quel frutto che era nelle aspettative. […] L’opera di Gesù Cristo, la redenzione, la grazia, la civiltà cristiana, la Chiesa, tutte cose ignorate, che si lasciano andare miseramente perdute». Per questo, negli ultimi anni, dal suo letto di dolore, e fino alla morte nel 1954, don Calabria offrirà se stesso come vittima per la Chiesa, fino a provare un buio spirituale vicino alla disperazione. A confortarlo, oltre ai fratelli della sua Congregazione, arriveranno delle lettere di un anonimo religioso fiorentino, piene di consolazione e di speranza: «Lei, padre,» leggiamo in una di esse «è il palpito più delicato del cuore materno di Maria. La Madonna l’ha posto per illuminare e riscaldare questo povero mondo avvolto dalle tenebre e dal gelo […] per questo la tiene al buio e al gelo affinché sia associato intimamente alla passione di Gesù».
Negli ultimi giorni lo assale il dubbio sulla sua salvezza eterna: «Cosa sarà di me, povero? Urge, urge, urge pregare per me […]. Cose nuove, gravi! Amato don Luigi mio, sono nell’angoscia per l’eternità. Venga più presto che può». Chiamava uno dei suoi più cari amici e confratelli, don Luigi Pedrollo. Che, di lì a poco, lo informa della grave malattia che aveva colpito Pio XII. È la fine di novembre del 1954. Don Calabria offre la propria vita in cambio della salute del Papa. E il suo cuore si rasserena. I testimoni delle sue ultime ore di vita terrena raccontano che gli affiorava sulle labbra una filastrocca mariana della sua infanzia popolare: «Quando penso alla mia sorte, che son figlio di Maria, ogni affanno, o Madre mia, si allontana allor da me». E, pochi istanti prima di morire, rivolto a un confratello che gli stava accanto: «Ecco,» sussurrò «mi pare proprio che Gesù mi venga incontro. E benedirà anche te». All’alba del 3 dicembre 1954, mentre don Calabria si spegneva, la salute del Papa cominciò a migliorare.


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