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STRASBURGO VISTA DA VICINO
tratto dal n. 05 - 1999

La crisi della sedia vuota


1965. Una controversia poteva pregiudicare quanto fino ad allora si era acquisito nel processo di integrazione. Ricostruisce quei giorni uno dei protagonisti, ex primo ministro e ministro delle Finanze del Lussemburgo


di Pierre Werner


Nel 1975, quando ero primo ministro del Belgio, avevo avuto il privilegio di presentare al Consiglio europeo un rapporto sull’Unione europea. Nel documento dichiaravo che «l’Unione europea rimarrà incompleta fintanto che non avrà una politica di difesa comune». Un’affermazione ancora oggi molto pertinente.
Dal 1975, la Comunità europea – divenuta poi, col Trattato di Maastricht, Unione europea – ha subito trasformazioni notevoli: gli Stati membri sono passati da 9 a 15, e in futuro saranno 27 e forse più; grazie all’Atto unico europeo si è dotata di un mercato unico e, col Trattato di Maastricht, di una politica estera e di sicurezza comune (Pesc) e di una moneta unica. Il 1 gennaio 1999 l’euro è divenuto una realtà; ma la politica di difesa comune deve ancora essere messa in piedi: per questo quanto dichiarai nel ’75 conserva tutta la sua attualità.
Considerato sotto questo punto di vista, il Trattato di Amsterdam non soddisfa le aspettative, tuttavia prepara la strada a sviluppi futuri. Esso contiene disposizioni utili al rafforzamento della Pesc, quali ad esempio l’istituzione di un alto rappresentante (un “signore” o una “signora Pesc”) e di un’Unità di analisi e pianificazione, e la possibilità per l’Unione europea di fare appello all’Unione dell’Europa occidentale (Ueo) per la realizzazione delle missioni di Petersberg.
Il primo ministro belga Paul-Henri Spaak dietro le sedie vuote della delegazione francese. La Francia, che si era opposta al progetto di rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo, boicotta così i lavori del Consiglio dopo il 30 giugno 1965

Il primo ministro belga Paul-Henri Spaak dietro le sedie vuote della delegazione francese. La Francia, che si era opposta al progetto di rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo, boicotta così i lavori del Consiglio dopo il 30 giugno 1965

Tuttavia, a cosa servono gli strumenti – o le istituzioni – se manca la volontà comune di utilizzarli? Inoltre, per quanto riguarda la Pesc, gli Stati membri sono attualmente occupati più a discutere tra di loro per definire la posizione dell’Unione piuttosto che ad agire rapidamente verso l’esterno per risolvere i problemi a livello internazionale. Di fatto i nostri Paesi hanno un diverso modo di percepire gli avvenimenti internazionali e mancano di una linea comune per quanto concerne gli interessi dell’Unione considerata nel suo insieme. Il caso Ocalan ne è stato l’esempio più recente. Di fronte alla lentezza della reazione dell’Unione europea il più delle volte sono gli Stati Uniti ad agire al posto degli europei, oppure il Gruppo di contatto – il nuovo Concerto europeo –, come nel caso della ex Iugoslavia.
L’assenza della volontà politica di dotare l’Unione europea di una politica estera efficace traspare nella concezione di una politica di difesa comune. Nonostante tutti gli Stati abbiano sottoscritto i Trattati di Maastricht e di Amsterdam, bisogna tuttavia constatare che questi stessi Stati non sono disposti ad impegnarsi allo stesso modo nella costruzione di una politica di difesa comune. Così, alcuni Paesi (sei, per l’esattezza) sono favorevoli all’integrazione dell’Ueo nell’Unione europea, come hanno dichiarato nel corso dell’ultima Conferenza intergovernativa; altri propongono di fare dell’Ueo il quarto pilastro dell’Unione europea, la quale assumerebbe le capacità politiche dell’organizzazione, mentre quelle militari verrebbero trasferite alla Nato; un terzo gruppo di Stati, infine, si dichiarano soddisfatti dello status quo che preserva le loro politiche di neutralità o di non allineamento perché non intendono confrontarsi con le rispettive opinioni pubbliche.
È noto altresì che alcune forze politiche in Europa contestano l’idea stessa di una politica di difesa comune, sostenendo che le minacce principali non sono più di ordine militare bensì ambientale (l’effetto serra, il rischio di una catastrofe nucleare e, in generale, tutte le minacce che gravano sull’ambiente), economico (il divario Nord-Sud), sociale (la frattura sociale), per non parlare dei nuovi conflitti di tipo etnico e religioso presenti in alcuni Stati (Bosnia, Kosovo, Albania, Cecenia, Nagorno-Karabach). Altre forze politiche, delle quali faccio parte, pensano invece che questi pericoli reali o potenziali non debbano escludere la necessità di preservare una capacità militare credibile, poiché nessuno sa come sarà il mondo di domani. Dopo l’euforia che ha contagiato i popoli a seguito della caduta del muro di Berlino, bisogna constatare che la guerra non è affatto scomparsa: essa è presente alle frontiere dell’Unione europea e la violenza genocida che si credeva sopita è riapparsa in Ruanda. Di conseguenza, rinunciare a difendersi sarebbe un atto irresponsabile da parte di tutti gli Stati europei.
L’Unione europea, che è la prima potenza commerciale del mondo e che si è finalmente dotata di una moneta comune, non potrà più per molto tempo continuare a recitare un ruolo di comparsa nelle relazioni internazionali. Gli Stati Uniti la incoraggiano a cambiare atteggiamento per non essere più costretti a sostenere da soli il fardello della sicurezza mondiale, e anche molti altri Paesi desiderano vedere la nostra Unione esercitare un ruolo alla sua altezza, di modo che il corso delle questioni internazionali non dipenda da un solo attore, per quanto animato dalle migliori intenzioni. L’Unione si dovrà inevitabilmente assumere nel mondo una parte di responsabilità maggiore di quanto non abbia fatto finora e farsi carico progressivamente della propria sicurezza, incluso l’aspetto della difesa, nel rispetto delle alleanze, sviluppando contemporaneamente relazioni di sicurezza con altri Paesi, a cominciare dalla Russia e dall’Ucraina. L’Unione europea non può più continuare a figurare come il principale finanziatore dei Paesi o delle regioni da ricostruire (Medio Oriente, Bosnia), mentre sono altri a trarne prestigio e influenza.
Per conservare la propria credibilità di fronte ai suoi cittadini e al resto del mondo, l’Unione europea dovrebbe essere motivata a far emergere la sua identità, mettendo in primo piano gli obiettivi di politica estera. Essendo il risultato della volontà comune di Paesi dalla storia e dalle tradizioni differenti, interessati a condividere un destino comune, l’Unione possiede un’esperienza eccezionale da far valere nelle relazioni internazionali. Se ne avesse la volontà potrebbe imprimervi un marchio positivo e duraturo. Ma, a tale scopo, deve attuare una politica estera più audace e incisiva.
Purtroppo vi sono casi in cui la diplomazia non può evitare il ricorso alla forza. Senza l’intervento della Nato non ci sarebbero mai stati gli accordi di Dayton; senza la minaccia di un ricorso alla forza non ci sarebbe stata alcuna Conferenza di Rambouillet sul Kosovo. In queste condizioni, una politica di difesa comune appare come complemento indispensabile – anzi naturale – della politica estera.
Il Kosovo potrebbe rappresentare la prima occasione per l’Unione europea di affermarsi come potenza diplomatica e militare: la Forza di estrazione degli osservatori dell’Osce in Kosovo è europea, comandata da un generale francese; la Conferenza di Rambouillet è stata copresieduta da Robin Cook e Hubert Védrine e la Kfor, comandata da un generale britannico, è essenzialmente europea.
Il Trattato di Amsterdam prevede che l’Unione faccia ricorso all’Ueo per mettere in atto decisioni con implicazioni a livello militare. L’Unione europea deve dare corpo a questa disposizione del Trattato incaricando l’Ueo di importanti missioni al servizio della Pesc: in Albania ci siamo lasciati sfuggire quest’occasione, non ripetiamo lo stesso errore. Troviamo per l’Ueo un ruolo nel Kosovo oppure riflettiamo sull’incapacità degli europei di fare intervenire questa organizzazione.
Il dibattito sulla difesa europea, affievolitosi dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (Ced), malgrado numerose iniziative, quali ad esempio il Piano Fouchet, torna a essere attuale alla luce delle crisi che scuotono il mondo dopo la fine della guerra fredda. L’abbiamo visto in occasione dell’ultima Conferenza intergovernativa con il memorandum finno-svedese che proponeva di rafforzare il ruolo dell’Unione europea nella prevenzione delle crisi, con il progetto franco-tedesco di sicurezza e di difesa e con la proposta presentata da Belgio, Germania, Spagna, Francia, Italia e Lussemburgo di inserire progressivamente l’Ueo nell’Unione europea. È sintomatico il fatto che sia stata proprio la presidenza austriaca dell’Unione ad aver preso l’iniziativa di convocare – a titolo informale, certo, ma un fatto del genere non si era mai verificato prima – i ministri della Difesa dell’Unione per parlare di difesa europea. E non va dimenticato il forum di dialogo Ue-Ueo organizzato dall’Italia il 16 novembre 1998 a Roma.
Nel momento in cui le azioni militari diventano indispensabili per il sostegno di un’azione diplomatica, non è più possibile eludere la questione dell’istituzione di una politica di difesa e di sicurezza comune. In questo senso si devono interpretare probabilmente le proposte del primo ministro britannico Tony Blair espresse a Pörtschach e l’importante Dichiarazione franco-britannica di Saint-Malo. La svolta intrapresa dalla Gran Bretagna è certamente l’avvenimento più importante della storia dell’Unione europea. Da osservatore scettico, penso che Londra si stia trasformando in un attore impegnato nella costruzione europea, anche nell’ambito della difesa, che costituisce l’ultimo baluardo della sovranità nazionale. Auguriamoci che quest’esempio faccia scuola e che gli Stati membri neutrali o non allineati si avvicinino alle strutture euro-atlantiche di difesa, così che si possa aprire definitivamente la via a una politica di difesa comune.
Nel contesto geopolitico successivo alla guerra fredda, non esiste più la frontiera che separa la sicurezza dalla difesa: le missioni di Petersberg comprendono missioni umanitarie e missioni di imposizione della pace (peace enforcement), con l’impiego della forza se necessario. Non è un caso che queste missioni siano state inserite nel Trattato di Amsterdam. E non è neanche un caso che questo stesso Trattato aggiunga la salvaguardia dell’integrità dell’Unione agli obiettivi della Pesc, conformemente ai principi espressi dalla Carta delle Nazioni Unite, e faccia riferimento alle frontiere esterne dell’Unione e alla solidarietà politica reciproca che lega tra loro gli Stati membri. Queste disposizioni non hanno lo stesso valore della clausola di assistenza reciproca contenuta nel Trattato di Bruxelles modificato e in quello di Washington, cionondimeno costituiscono un orientamento politico importante. La sicurezza tra gli Stati membri è una e indivisibile: un principio che i Paesi dell’Europa centrale e orientale in cerca di sicurezza non mancheranno forse di ricordare agli attuali Stati membri dell’Unione.
L’Europa già dispone di strumenti che le consentono di essere presente nella gestione delle crisi e di farsi carico della propria sicurezza: esistono delle euroforze, come l’Eurocorpo, l’Eurofor, l’Euromarfor e il Gruppo aereo europeo. Si sta istituendo progressivamente una cooperazione in materia di armamenti, inserita tra gli obiettivi del Trattato di Amsterdam, in particolare nell’ambito dell’Ueo e attraverso strutture multilaterali, quali l’Organismo congiunto di cooperazione in materia di armamenti (Occar), con lo scopo di creare un’Agenzia europea degli armamenti. Le stesse società europee, incoraggiate dai governi, stanno procedendo a importanti ristrutturazioni industriali il cui scopo è quello di consentire agli europei di disporre degli strumenti della loro politica di sicurezza e di difesa. Gli strumenti già esistono o stanno per essere creati. I Paesi europei devono incrementare i loro sforzi in materia di trasporto aereo pesante sulla lunga distanza e di aeromobilità strategica, di informazione spaziale e di comunicazione. È necessario coronare il tutto con una politica di difesa comune al servizio di una politica estera comune, poiché è l’unico modo per dare coerenza alle azioni degli europei.
Se non si intraprende una politica di difesa comune, saranno delle coalizioni composte essenzialmente dagli Stati più importanti a determinare la politica estera dell’Europa. Lo abbiamo visto in Bosnia con la creazione della Forza di reazione rapida franco-britannica o in Albania con la Forza di protezione multinazionale sotto l’egida dell’Italia. Non intendo criticare gli Stati che non hanno preso iniziative analoghe per non mettere a repentaglio vite umane, ma bisogna pur constatare che in tutti questi casi si è trattato di decisioni prese in sede nazionale per l’assenza di capacità decisionale a livello di Pesc. Una politica comune, sia essa estera o di difesa, dovrebbe impegnare tutti gli Stati dell’Unione e non solo alcuni di essi.
La prossima Conferenza intergovernativa avrà come obiettivo prioritario quello di decidere il rafforzamento delle istituzioni per far fronte all’allargamento ai Paesi dell’Europa centrale e orientale, a Cipro e a Malta. Forse sarebbe il caso, in questa occasione, di dar corpo alle disposizioni del Trattato di Amsterdam, ponendo così le basi per una futura politica di difesa comune. In effetti, i futuri Stati membri sollecitano una politica di sicurezza. Nell’attesa, i ministri della Difesa dei nostri Stati potrebbero già riunirsi in sede di Consiglio dell’Unione europea qualora vengano affrontate determinate questioni, quali ad esempio il futuro delle industrie di difesa europee. Potrebbero anche essere organizzate delle riunioni congiunte dei ministri degli Affari esteri e della Difesa dei Paesi membri quando si tratti di intraprendere delle azioni di carattere politico-militare, come le missioni di Petersberg. Infine, l’Unione europea potrebbe dotarsi di unità in grado di condurre delle operazioni di polizia in caso di crisi.
Nel caso in cui alcuni Stati membri si mostrassero reticenti ad accettare questi orientamenti, converrebbe ispirarsi alla formula adottata per l’unione economica e monetaria e costituire un gruppo ristretto di Stati, animati da una volontà forte, che uniscano i loro mezzi diplomatici e militari per far sentire la voce dell’Europa negli affari mondiali.
L’Unione europea rappresenta un modello originale di civiltà basato sulla tolleranza, la diversità di culture, i diritti dell’uomo, lo Stato di diritto e la sussidiarietà. È indispensabile che essa sia in grado di difendere i suoi valori fondamentali – come anche i suoi interessi –, nel rispetto dei principi del diritto internazionale, quando questi siano minacciati. Se l’Unione europea non compie il passo ulteriore della realizzazione di una politica di difesa comune, rischia di mancare all’appuntamento con la storia e di restare solo una nebulosa politica dotata di un grande mercato e di una moneta comune. Ma, nel fare questo gioco, rischia di perdere la sua anima e la sua ragione di essere e di diventare così facile preda di mercanti senza scrupoli. È legittimo chiedersi quale vocazione potrà mai avere un’Europa priva di volontà di difesa comune, se le manca il coraggio di impegnarsi per difendere il diritto, la giustizia e la sicurezza.


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