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PIAZZA COLONNA
tratto dal n. 04 - 1999

La guerra in Iugoslavia e l’elezione del presidente della Repubblica


Continua la raccolta degli articoli del nostro direttore pubblicati sul quotidiano romano Il Tempo


Gli articoli di Giulio Andreotti apparsi sul quotidiano Il Tempo da gennaio ad aprile


28 gennaio
Tempi certi per i lavori pubblici

Non è un fatto solo romano ma qui sembra talvolta che i problemi debbano assumere dimensioni millenarie. Capita spesso di sentir invocare decisioni di pubblici lavori per un migliore assetto urbanistico o anche per soddisfare le esigenze di abitazioni popolari. I cittadini sollecitano, i deputati interrogano, i cronisti caldeggiano. E finalmente viene l’annuncio auspicato. Tutti contenti? Nemmeno per sogno. Ogni cantiere che si apre comporta deviazioni di traffico, difficoltà di parcheggio, rumori. Di qui il mugugno anche di quelli che avevano spinto nel senso decisorio. Vi sarebbe un modo per superare questa contraddizione. Fissare tempi certi per l’esecuzione dei lavori e rispettarli rigorosamente.
Non si dica che è impossibile. Invece di scimmiottare l’America con la creazione di agenzie, di authorities e di altri marchingegni strutturali, adottiamo la regola della determinazione effettiva della durata dei lavori. È noto che le progettazioni durano laggiù molto più a lungo che da noi e sono definite fin nei più piccoli dettagli. Sicché quando ha inizio l’esecuzione si sa già con precisione quanto durerà. Non a caso in meno di sei mesi si abbatte un complesso e si costruisce un nuovo grattacielo, consegnandolo alla scadenza chiavi in mano. La filosofia dei tempi lunghi sembra davvero invincibile.


3 febbraio
Ma Silone non era fascista

L’apertura degli archivi, che è giustamente considerata uno dei segni positivi dei tempi nuovi dopo le dittature di vario colore e dopo l’eccesso di riservatezza che dominava in altre aree geopolitiche, rischia di produrre effetti non buoni.
Quando si confondono da parte dei ricercatori notizie certe e supposizioni interpretative, ne vengono fuori immagini arbitrarie, sia panegiristiche che di denigrazione.
Ad accrescere confusioni si aggiungono le anticipazioni riassuntive pubblicate nei quotidiani prima dell’uscita e quindi della possibilità di una attenta lettura dei saggi.
Ignazio Silone fu un uomo politicamente scomodo, considerato in foro interno un non allineato che, accortosi dell’iniquità del socialismo reale, prese le distanze senza però impegni organizzativi. Visse una specie di sostanziale isolamento. Dargli oggi del fascista non solo è gratuito, ma mi sembra – forse senza che i “ricercatori” lo vogliano – una ingiuria del tutto immeritata. Quando vennero fuori le liste dell’Ovra, intere o tagliate, mai circolò il nome di Silone.


Le chiese del Kosovo
Un esempio di arte cristiana in Kosovo: l’arcivescovo Danilo II (a destra), fondatore della chiesa della Madonna Odighitria, particolare degli affreschi della chiesa della Madonna Odighitria, nel complesso monastico del Patriarcato di Pec

Le chiese del Kosovo Un esempio di arte cristiana in Kosovo: l’arcivescovo Danilo II (a destra), fondatore della chiesa della Madonna Odighitria, particolare degli affreschi della chiesa della Madonna Odighitria, nel complesso monastico del Patriarcato di Pec

12 marzo
L’onorevole Paciotti

L’annunciata candidatura europea della magistrata Elena Paciotti ha suscitato commenti vari che ci allontanano però dal problema generale della eguaglianza dei cittadini. Non a caso la legge si è astenuta per mezzo secolo dal rendere operativo il possibile divieto costituzionale di iscrizione dei giudici ai partiti politici. Credo che si sia reso così omaggio alla suddetta eguaglianza e anche alla saggia prevenzione dalle affiliazioni clandestine. Con rigorismo eccessivo la Bicamerale aveva proposto che i magistrati potessero candidarsi ma dovessero dimettersi dalla carriera. Così non solo non potevano rientrare nei ranghi a mandato concluso, ma rimanevano del tutto a terra se, presentatisi, non fossero stati eletti. Più equo è il principio che lo spazio politico-elettorale sia e resti diverso da quello in cui si è resa – per così dire – giustizia. Sono oltre trenta i parlamentari nazionali in carica. Forse sarebbe utile un sondaggio tra di loro per sapere se, visto da vicino, questo mondo politico è poi così… anomalo.


19 marzo
Attenti al superpremio

Guai a chi non è capace di comprendere che, salvo i princìpi fondamentali, il tempo obbliga a modifiche anche sostanziali delle proprie posizioni. Quando però vedo il Parlamento che, entusiasta, attribuisce un forte premio di maggioranza (portando il 40 al 60 per cento dei seggi) al partito di un sindaco eletto a primo scrutinio, non posso non pensare alle durissime polemiche del 1953 quando si propose di dare un piccolo premio alla coalizione che avesse raggiunto il 50 per cento dei voti. Si scatenò l’inferno, bollando come legge truffa il disegno governativo. Consiglierei prudenza. Di questo passo si rischia di guardare con benevolenza anche alla famigerata legge Acerbo. La stabilità è un bene oggettivo, ma attenzione agli eccessi.


20 marzo
La bomba Bernabei sul secondo mandato

Mi sono trovato a vivere da vicino le elezioni presidenziali: dalla prima del 1946 all’ultima del 1992; ma di una credevo di conoscere particolarmente tutti i risvolti, essendo in quel momento (1971) presidente dei deputati democristiani. Perché dico «credevo»? Ho letto nel recente libro di Ettore Bernabei un episodio gravissimo, che faccio fatica a ritenere autentico. Che Saragat aspirasse allora a un secondo mandato è più che certo, ma che vi sia stata una trattativa con la Deutsche Bank e con i socialdemocratici tedeschi per acquistare i voti dei comunisti italiani a favore dello stesso Saragat, mi fa cadere dalle nuvole. Il negoziato sarebbe fallito per dissenso sul prezzo (250 miliardi) e specialmente per la mancata approvazione dal Politburo di Mosca. Bernabei specifica addirittura che Mosca bloccò l’affare con un solo voto di maggioranza. Non è improbabile che Bernabei sia rimasto vittima di una fonte disinformativa e che possa chiarirlo. Lungo il penoso corso dei ventitré scrutini del 1971 non mi sembrò che vi fosse la minima disponibilità comunista verso Saragat; come del resto – nonostante una nostra esplicita richiesta – sul nome di Fanfani, per il quale invano si era recato a perorare presso le Botteghe Oscure Eugenio Cefis.


23 marzo
Speranze in Algeria

Si è fatta così l’abitudine alle stragi in Algeria che se non ci sono almeno venticinque morti la notizia è relegata dalla stampa internazionale in qualche fondo pagina, quando non del tutto cestinata.
C’è però all’orizzonte immediato qualche spiraglio di normalizzazione.
Il presidente della Repubblica si è dimesso per dar luogo a una elezione di forte ispirazione democratica che dovrebbe segnare il ritorno dell’Algeria alla normalità quotidiana e all’assolvimento del ruolo che, nell’area mediterranea e oltre, l’Algeria ha nel passato svolto con autorevolezza ed efficacia. La lunga parentesi terroristica sta auspicabilmente per finire. Tra i candidati vi sono anche figure con un curriculum internazionale molto positivo e la decisione delle forze armate di non avere un proprio candidato è molto importante.
Non dimentico il ruolo avuto dall’Algeria per indurre l’Olp sulla via del dialogo con Israele. Tanto per fare un esempio di quello che l’involuzione terroristica ha fatto venire meno.


24 marzo
Troppi discorsi sul Quirinale

Secondo la Costituzione, il presidente della Repubblica è eletto da un’Assemblea composta da tutti i deputati (630), i senatori (315 eletti e 10 a vita) e da 58 rappresentanti delle Regioni. Poiché le Assemblee regionali scelgono i propri delegati soltanto alla vigilia delle votazioni, possono ritenersi intempestivi tanti discorsi che si stanno intrecciando a sostegno o contro questa o quella possibile candidatura. Oltretutto, una quasi univoca esperienza dovrebbe indurre a non sottovalutare il ruolo decisivo dei grandi elettori e specificamente del motivato gruppo dei regionali.


26 marzo
Discutiamo in Parlamento la strategia della Nato

La trascrizione dell’intervento di Giulio Andreotti nel dibattito al Senato sulla guerra in Iugoslavia

Non credo di essere stato il solo che nelle settimane passate, sentendo ogni giorno ripetere la parola ultimatum, ha pensato che questo fosse un mezzo di pressione per arrivare a una soluzione diversa da quella che è stata adottata. Noi sappiamo tutti che cosa era la Nato e sappiamo che a un certo momento, per le profonde modifiche intervenute nel quadro europeo, venuta meno la necessità di difesa associata contro la possibile aggressione sovietica, si sono delineate due strade. La prima era stata immediatamente individuata e prevedeva alcuni scenari, nessuno dei quali comportava il mantenimento della Nato ed il suo allargamento; ricercava cioè mezzi diversi tra cui, in un certo senso, il più suggestivo era quello di affidare alla Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa un ruolo e degli strumenti più efficaci. Successivamente è stato adottato un modello diverso con l’allargamento della Nato. Però stiamo attenti. L’allargamento della Nato – i testi sono questi – non sta a significare una modifica delle sue regole, dei suoi ambiti, ma solo una estensione della mutua sicurezza ai Paesi che ne hanno fatto parte. In quel momento la difficoltà era rappresentata dalla possibile reazione della Russia. Si è compiuto un lavoro attento, avviato proprio dagli Stati Uniti che crearono l’idea del modello della Partnership for peace e, attraverso dei contatti molto decisi dello stesso presidente Clinton e del cancelliere Kohl con il presidente Eltsin, si arrivò a far accettare la formula della Partnership for peace alla Russia. In questo modo si disinnescò la possibile reazione nei confronti dell’allargamento della Nato, già avvenuto per tre Paesi e programmato ulteriormente.
Stiamo discutendo in questi giorni di quella che è stata definita «la nuova strategia della Nato» che dovrebbe essere, non so se approvata, comunque discussa nel Consiglio Atlantico di fine aprile. Siamo stati tutti concordi nel dire che una decisione di questo genere non può essere presa se non dopo un dibattito che si deve sviluppare nel Parlamento. Vorrei ricordare che nel 1949 il governo, prima di votare e firmare il Patto Atlantico, sottopose il problema al Parlamento con una seduta durata tre giorni e tre notti, anche piuttosto vivace, ma che dava una forma di legittimazione ineccepibile alla firma del Trattato stesso.
Nella sua relazione il sottosegretario Brutti ha detto che la Nato può offrire non soltanto una difesa ai propri Paesi membri contro un attacco diretto ma anche uno strumento alla comunità internazionale per produrre sicurezza. Bene, discutiamone; stabiliamo con precisione cosa questo significhi e diamo a tutti certezza politica, nonché fisica a coloro che di eventuali decisioni di un certo tipo rispondono più direttamente di persona, anche se al momento si dice che l’Italia non è direttamente impegnata con la propria aviazione. Sono delle forme che mi piace anche poco che vengano dette. Cosa significa? L’Alleanza è alleanza ed all’interno della stessa siamo tutti uguali. Quindi non possiamo dire, forse per tranquillizzare qualcuno, che questo non ci riguarda direttamente; come pure stiamo attenti a non usare l’espressione: «L’Alleanza ha deciso e quindi…». Signori, l’Alleanza siamo anche noi; l’Alleanza non decide se non vi è il consenso. Affermo questo non per criticare ma per sottolineare che in queste vicende dobbiamo essere estremamente decisi. Dinanzi a una soluzione che – anche da un punto di vista tecnico-operativo – è molto dubbio che possa ottenere il suo risultato, non possiamo non cercare di analizzare cosa si può fare. Nella question time, che per il Senato rappresenta una innovazione, sia l’onorevole Fumagalli Carulli sia il presidente Migone – che del resto esprimeva largamente quel che nella nostra Commissione è molto sentito – hanno chiesto perché non si cerca di attivare per la soluzione di questo problema proprio l’utilizzo della Partnership tra la Russia e la Nato. Il ministro disse che tale percorso era difficile e certamente lo è; ci è stato anche detto dal vicepresidente del Consiglio, onorevole Mattarella, che era stata a un certo momento proposta tale strada, però non vi è stata risposta da parte della Russia né tanto meno di Milosevic; a parte che non mi piace riferirmi a lui personalmente, ma al governo serbo: abbiamo visto che il Parlamento serbo ha solidarizzato con Milosevic. E sono proprio gli stessi che facevano cortei di protesta quando fu rieletto.
Potrei citare il momento della guerra d’Africa, quando Vittorio Emanuele Orlando mandava telegrammi di solidarietà a Mussolini perché l’Italia era soffocata dalla Società delle Nazioni ed illustri e colti senatori regalavano alla patria l’oro della loro medaglietta. Quindi, le solidarietà si sviluppano in una maniera facile quando si è sottoposti a una forza dall’esterno.
Due ultime considerazioni. Il vicepresidente Mattarella ha ricordato l’articolo 3 del Trattato. L’articolo 3 non prevede affatto questo, bensì recita: «Per assicurare in modo più efficace la realizzazione dei fini del presente Trattato, le parti, agendo individualmente e collettivamente in maniera continua ed effettiva per lo sviluppo dei propri mezzi e prestandosi mutua assistenza, manterranno e aumenteranno le possibilità di resistenza contro attacchi armati». Quindi, attacchi armati alla realtà della Nato, non problemi diversi.
Voglio con questo dire che certamente il problema esiste e ci turba profondamente. Sappiamo che è difficile. Però vediamo se può essere riassunto in extremis questo modello del Partenariato per la pace anche con la Russia; vediamo se può rappresentare un almeno momentaneo raffreddamento della situazione quello che ha detto Romano Prodi parlando di una conferenza dei Balcani; i modi possono essere molti. Credo però che dobbiamo fare di tutto perché lo strumento militare, che oltretutto non risolverebbe il problema, non debba essere considerato valido, dopo quello che ormai è già stato fatto.
Vi sono Paesi che forse non hanno mai conosciuto i bombardamenti. E non mi riferisco agli americani ma all’America; gli americani li hanno conosciuti, perché sono venuti per difendere in Europa e nessuno di noi in Italia dimentica che forse, specie in un certo momento, sono stati più i morti americani che non quelli italiani. Quindi non c’è nessun retropensiero nelle mie parole; c’è una continuità in quella che era l’ispirazione della Nato per la quale non credo possano valere differenziazioni né di prime né di seconde né di terze Repubbliche.


10 aprile
L’Unione Europea riprenda l’iniziativa

Crollata l’Unione Sovietica e dissolto il Patto di Varsavia, il fondato timore di un attacco, convenzionale o nucleare, da parte di Mosca venne meno. La Nato avrebbe potuto dichiarare il proprio scioglimento per raggiunto fine sociale, spingendo altri scenari: potenziamento effettivo dell’Unione europea occidentale; creazione di una forza di polizia interna tra tutti i Paesi dell’Osce, ecc. Si è deciso invece di mantenere in piedi la Nato, aprendola a nuove adesioni. Che la Russia si sentisse minacciata da tale ipotesi, era ovvio. Ma si iniziò subito un negoziato tra Nato e Russia che ebbe due sbocchi significativi: la creazione di un Partenariato per la pace tra la stessa Nato e la Federazione Russa; e l’elevazione del G7 a G8, con un posto al tavolo per il signor Eltsin. Con questi ammortizzatori fu dato il via all’ampliamento della Nato, arrivandosi appunto ai confini russi.
Questo delicato nuovo modello di stabilizzazione dei rapporti Nato-Russia rischia di retrocedere a causa delle vicende del Kosovo. Anche per questo è urgente uscire dall’emergenza. A Rambouillet, venuta meno la possibilità di mettere confederati e kosovari attorno a un tavolo, mi sembra però che un dato sia stato acquisito: l’obiettivo è la restituzione al Kosovo dell’autonomia data da Tito e cancellata dal governo Milosevic rinunciando gli albanesi al referendum per la secessione e ponendo ovviamente fine gli altri alle persecuzioni della cosiddetta pulizia etnica. Il testo non è stato accettato dai rappresentanti di Belgrado perché prevedeva l’evacuazione delle loro milizie e il controllo sul posto di forze militari Nato (o anche Nato). Di qui gli attacchi aerei e, per taluni, la prospettiva di operazioni a terra. Con oggettiva sintonia il Papa, la Russia e il Parlamento italiano hanno invocato il cedant arma togae, con impegni precisi da parte serba, ma anche con la smentita di disegni occulti della Nato o di altri per andare oltre l’autonomia. Mi auguro e prego Dio perché questo possa avvenire. È paradossale intanto che per aiutare un popolo si sia dovuto provocare in esso un massiccio esodo, mettendo a repentaglio gli equilibri interni della Macedonia e caricando sull’Albania – così presa dalla sua difficilissima costruzione interna – un peso schiacciante, sia pure in parte attenuato dall’intervento umanitario nel quale l’Italia prima di tutti si è prodigata. Occorre però che in parallelo l’Unione europea riprenda l’iniziativa per un rapporto speciale con i Paesi dell’ex Iugoslavia. Si chiama Progetto Royaumont. Perché se ne parla poco?


16 aprile
Le speranze di pace affidate alla Russia

Non so se qualcuno ha pensato che il signor Milosevic volesse imitare Pio IX che, dopo lo sparo di un paio di cannonate, innalzò bandiera bianca. Non è stato così. E incombe su tutti l’angoscia di una guerra senza dichiarazioni di guerra, i cui sviluppi sono ancora oscuri. Fonti americane accennano, credo paradossalmente, che i bombardamenti potrebbero durare anche tutto l’anno; cosicché il successore di Pio IX sarebbe costretto a chiedere per la seconda volta una tregua, in coincidenza con l’apertura della Porta Santa. Il Consiglio Nato, nella riunione di lunedì scorso, ha escluso il ricorso a quella che una volta si chiamava la fanteria e cioè a propositi di invasione dei confini iugoslavi di terra.
Le iniziative politiche fin qui affacciate, compresa quella del segretario generale dell’Onu, non hanno avuto seguito. La più articolata è stata quella tedesca che, pur richiedendo ai federali il ritiro anche dell’esercito, prevede però il disarmo dei guerriglieri dell’Uck. Quest’ultimo è a mio avviso il tasto più caratterizzante perché, senza una rinuncia alla lotta partigiana, non vedo come potrebbero avere valore accordi sull’autonomia del Kosovo e sullo stesso rientro della massa di espatriati. Resta, poi, l’altro ostacolo per stabilire chi garantisce i risultati dell’accordo una volta raggiunto, bloccando qualunque ritorno al conflitto interetnico. Comunque l’iniziativa tedesca non è stata accettata nemmeno dagli altri alleati. Ora, molti guardano a una possibilità mediatrice della Russia. Chi poteva immaginare che si arrivasse a fare, ora per allora, gli elogi di Tito e a collocare in Mosca le maggiori speranze di pace?


19 aprile
Adesso c’È un coro di rimpianti per il ruolo del maresciallo Tito

La crisi del Kosovo, ultimo anello dell’assestamento della grande ex Federazione iugoslava, sta suscitando un coro di rimpianti per il maresciallo Tito, anche da parte dei comunisti che lo maledirono quando nel 1948 prese le distanze da Mosca.
Rileggo un passo della discussione alla Camera per la ratifica del Patto Atlantico (16 luglio 1949).
«Montagnana (Pci)… ogni volta che noi attacchiamo il vostro nuovo amico Tito voi vi mettete a gridare che era nostro. Tito è un Giuda. Anche gli apostoli, prima del tradimento, consideravano Giuda un amico, un fratello».
E a rafforzare la sua scomunica l’onorevole Montagnana disse: «Io non mi vergogno di dichiarare che nella mia prima gioventù ho gridato viva Mussolini: però Mussolini era socialista».
La discussione sul Patto Atlantico: forse non è inutile una rilettura.



1 aprile

Intervista. Il senatore a vita ed ex ministro degli Esteri prende posizione sul conflitto in Kosovo e invita a un ritorno alla ragionevolezza

Andreotti: «Pacifisti O guerrafondai, non si salva nessuno»

Le critiche dell’opposizione al governo rischiano di screditare i tentativi per trovare una soluzione

di Alessandra Baldoni

Un richiamo forte a tentare tutte le strade possibili per riportare la questione Kosovo «nel campo della trattativa diplomatica»; una critica all’opposizione di centro-destra che a parole sostiene di appoggiare il governo e invece mina nella sostanza la credibilità stessa di «chi vuol far tutto il possibile per non alimentare la spirale di fuoco»; su tutto la radicata convinzione che «alla fine le persone ragioneranno, non ci si può certo rassegnare all’ineluttabilità». Il senatore a vita Giulio Andreotti, oggi membro della Commissione Esteri di Palazzo Madama, più volte ministro degli Esteri, seduto dietro la sua scrivania di via della Dogana Vecchia accetta di commentare con Il Tempo la crisi del Kosovo.
E la sua attenzione subito si concentra sui due fronti, quello internazionale e quello interno. «È stolto e provocatorio» dice Andreotti «elargire patenti di guerrafondai o di pacifisti, come si sta facendo in questi giorni da una parte e dall’altra. Non si salva nessuno: Clinton, il Papa, Primakov».

La crisi in Kosovo sembra avviarsi verso un’escalation.
GIULIO ANDREOTTI: A parte tutte le questioni giuridiche e sul ruolo indispensabile del Parlamento nelle decisioni che impegnano l’Italia credo non ci si possa rassegnare all’uso della forza o, peggio, all’intensificazione dei bombardamenti.
Lei in Senato non è stato tenero con l’opposizione: perché, visto che il centro-destra appoggia il governo nella sua adesione alle scelte Nato?
ANDREOTTI: La mozione della maggioranza ha impegnato il governo a operare per un ritorno della questione nel campo della trattativa diplomatica. E il governo si sta attivando. Non lo aiuta la campagna dell’opposizione che definisce morbido questo atteggiamento e lo attribuisce alla preoccupazione di non creare difficoltà a Cossutta. In tal modo gli altri Paesi della Nato possono ritenere che si tratti solo di bizantinismi interni e non prendono sul serio la profonda ispirazione di chi vuole fare tutto il possibile per non alimentare la spirale di fuoco.
Tornando al versante internazionale. Una ripresa del dialogo è possibile?
ANDREOTTI: Leggendo il testo approvato da una sola parte (albanese) a Rambouillet e quello presentato dal governo di Belgrado non si giustifica la rinuncia a uno sforzo di conciliazione.
Qual è il suo giudizio sulla mediazione tentata in queste ore dalla Santa Sede?
ANDREOTTI: È un’azione che si sta dispiegando e che mi auguro sia compresa bene e appoggiata anche dagli ortodossi.
Le due Chiese, quella cattolica e quella ortodossa, chiedono una tregua per la santa Pasqua.
ANDREOTTI: La tregua per le due Pasque, cattolica ed ortodossa, non è un’idea bizzarra. Tra l’altro la Chiesa ortodossa è molto forte in Serbia e non può negarsi a essa un ruolo. Forse anche il Patriarca ortodosso di Mosca potrebbe dare una mano a Primakov.
Pochi giorni dopo la missione di Primakov a Belgrado, lei stesso ha dichiarato di non disperare ancora in qualche risultato.
ANDREOTTI: Mi riferivo alla dichiarazione fatta da Primakov a Bonn che aveva dato un giudizio non negativo, dopo i due colloqui avuti a Belgrado, e anche alla convinzione che non credo Primakov abbia rinunciato del tutto a dispiegare qualche azione per sbrogliare la situazione. Già in un’altra occasione Primakov non riuscì, ma fece tutto il possibile per indurre Saddam Hussein a ritirarsi dal Kuwait per evitare quella che poi si chiamò guerra del Golfo. Tentò la mediazione a nome di Gorbaciov e tornò più volte da Saddam Hussein, non mollò alla prima difficoltà.
Quali spazi di manovra sono possibili?
ANDREOTTI: Vi è un punto, forse il più delicato, da chiarire. Si cerca l’accordo nell’ambito della Confederazione iugoslava, con tutte le garanzie possibili, o sul tappeto vi è l’indipendenza e cioè la secessione del Kosovo? Qualcuno ha interpretato in quest’ultimo senso le dichiarazioni di Clinton della notte scorsa. Alla lettera non mi sembra che sia esatto.


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