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BALCANI
tratto dal n. 03 - 1999

KOSOVO. Alle origini del conflitto che dura da dieci anni

1989: inizia la morte della Iugoslavia


Intervista con Sergio Romano: dalla sconfitta di Kosovo Polje del 1389 contro gli ottomani alla riconquista del Kosovo dopo le guerre del 1912-13, c’è sempre stato un legame forte tra la Serbia e questa regione. Tito fu abile nel tenere insieme i popoli dei Balcani infondendo un sentimento di traguardo comune. Poi con il crollo del muro di Berlino…


Intervista con Sergio Romano di Paolo Mattei


In uno dei luoghi più belli e drammatici d’Europa, alla confluenza tra due fiumi, la Sava e il Danubio, sorge la “bianca fortezza”, Belgrado, dove, dall’Alto Medio Evo vive una delle più fiere popolazioni slave, i serbi. Scesi nei Balcani con gli Unni, essi vivono dal VII secolo in questa che è una zona di confluenza non solo tra grandi fiumi, ma anche tra grandi imperi, religioni, culture e tradizioni.
L’interno della chiesa dei Santi Apostoli, con affreschi del XIII e XVII secolo

L’interno della chiesa dei Santi Apostoli, con affreschi del XIII e XVII secolo

Il processo di cristianizzazione del popolo serbo può considerarsi compiuto alla fine del IX secolo. La Serbia entra poi, per un periodo, nell’orbita culturale e politica dell’impero bizantino. Ma intorno alla fine del XII secolo si costituisce in un organismo statale indipendente che allargherà i suoi confini fino a raggiungere, nel 1346, il golfo di Corinto. Poi i serbi perdono la loro indipendenza a causa dell’invasione ottomana: «Fu dopo la battaglia di Kosovo Polje,» spiega Sergio Romano «combattuta nel 1389 contro gli ottomani che si spingevano verso il cuore dell’Europa. Nel giugno di quell’anno i serbi furono travolti dalla marea turca che saliva lungo la penisola balcanica». In seguito a questa battaglia, in cui trovò la morte il re serbo Lazzaro Hrebeljanovic, le truppe del sultano Bajazed sottomisero la Bosnia, la Valacchia, la Bulgaria, la Macedonia, la Tessaglia, minacciando anche la Grecia e l’Ungheria.
Fu una sconfitta che darà inizio ad un lungo periodo di “cattività” della Serbia. Una cattività che durerà fino agli albori del XIX secolo, laddove incomincia la sua storia moderna…
SERGIO ROMANO: Sì. I moti nazionali serbi del 1804, che precedettero di qualche anno quelli della Grecia, furono guidati dal ricco mercante di maiali Gjorgje Petrovic, a cui gli ottomani affibbiarono l’epiteto “Kara Gjorgje” – che significa “Giorgio il Nero” – da cui “Karagjorgjevic”, nome che assunse la sua famiglia, poi la dinastia. I turchi furono cacciati da Belgrado e da buona parte della Serbia.
Bisogna ricordare che in quel periodo l’impero ottomano stava attraversando una fase di declino. Le comunità nazionali che conquistavano forti autonomie erano in realtà molto vicine all’indipendenza perché, inevitabilmente, il potere dell’impero su queste province cristiane della periferia si era andato nel tempo sempre più indebolendo. È importante anche sottolineare un altro fatto. I moti nazionali delle comunità se da un lato sono il risultato del declino dell’impero ottomano, dall’altro sono stati attizzati dalle presenze europee, le quali vedevano in questi movimenti indipendentisti la possibilità di partecipare alla successiva spartizione dell’impero e di acquistarsi degli alleati giovani. In questa prospettiva fu la Russia ad appoggiare – in alcune fasi, non sempre – la Serbia. In chiave antiturca.
Fu in quel momento che la Serbia raggiunse l’indipendenza?
ROMANO: Non subito. L’appoggio della Russia durò solo fino al 1812, anno in cui lo zar Alessandro firmò a Bucarest la pace con i turchi, esponendo i serbi alla rappresaglia delle truppe ottomane. Comunque, conquistata prima una forte autonomia, poi una piena sovranità, inizia, per così dire, la “fase piemontese” dello Stato serbo nella penisola balcanica.
Vale a dire?
ROMANO: Vale a dire che la Serbia aspira non soltanto alla piena indipendenza, ma anche a un ruolo balcanico importante. Le sue tradizioni, la fierezza del popolo, l’amore per l’indipendenza, il fatto di avere lottato per raggiungerla, tutto questo in qualche modo dà ai serbi un “titolo” di orgoglio nazionale e quindi l’aspettativa ad un ruolo balcanico significativo. A quel punto il vero nemico non è più l’impero ottomano, anche se praticamente lo è ancora nelle guerre del 1912-1913. È proprio durante queste guerre che la Serbia conquista il Kosovo. Il Kosovo ritorna ad essere serbo solo allora, da quando era stato perduto nella battaglia di Kosovo Polje.
Che cosa era stato del Kosovo in tutti quegli anni?
ROMANO: Era semplicemente una provincia dell’impero ottomano, prevalentemente abitata da albanesi musulmani, perché negli anni trascorsi dalla battaglia del 1389, naturalmente, i serbi, per la maggior parte, se n’erano andati. Gli albanesi avevano preso il loro posto e la provincia si era progressivamente islamizzata.
Eppure il Kosovo è sempre rimasto per i serbi un luogo importante…
ROMANO: Beh, i serbi nel Kosovo ci sono sempre stati, anche dopo il 1389, seppure in misura molto ridotta. Il problema era, piuttosto, la presenza dei monasteri. In una parte del Kosovo sono presenti questi luoghi-simbolo della spiritualità serba, dell’identità nazionale, religiosa. Il cuore del popolo serbo, diciamo così, metaforicamente e un po’ retoricamente, è sempre stato considerato lì, nel Kosovo.
La chiesa dell’Annunciazione, secondo decennio del XIV secolo

La chiesa dell’Annunciazione, secondo decennio del XIV secolo

La battaglia del 1389 ha rappresentato un momento mitico per la storia di questa popolazione. Addirittura, poemi epici che hanno per oggetto questa sconfitta vengono tuttora tramandati oralmente di padre in figlio anziché essere, come quasi sempre accade, riposti nelle biblioteche nazionali all’attenzione degli studiosi…
ROMANO: Certo, questo è vero. Ci sono fenomeni analoghi, ma che, alla fine, danno ragione a lei... La battaglia di Roncisvalle nel rapporto fra musulmani di Spagna e cristiani, quella di Hastings, quando Guglielmo il Conquistatore sconfisse i Sassoni e occupò l’Inghilterra... Tutte queste battaglie sono state, in diverse maniere, assunte come simbolo di riscossa... La vicenda della strenua resistenza di Vercingetorige ad Alesia e della sua successiva resa a Cesare, per un certo periodo fu utilizzata dalla nazione francese come il simbolo di una riscossa da realizzare. Ma tutto ciò, è vero, col tempo diventa semplicemente letteratura. Nel caso dei serbi non è accaduto. Sui motivi si possono elaborare solo delle supposizioni di tipo psicologico, perché certe realtà nazionali sono difficilmente valutabili con il criterio della razionalità. Non è facile applicare criteri scientifici a questo tipo di fenomeni. Premesso questo, io credo che un’ipotesi si possa fare. In generale, tali fenomeni di memoria collettiva si registrano nei popoli che si scontrano, lungo la loro traiettoria storica, con grandi difficoltà. Nei popoli che non riescono a superare alcuni passaggi. Il passaggio, per esempio, della costituzione di uno Stato nazionale forte. Oppure, addirittura, l’ostacolo della modernizzazione. La Spagna, ad esempio, ha vissuto la guerra ispano-americana del 1898 come una cocente umiliazione. E l’ha superata quando, a un certo punto, ha realizzato successi straordinari in altri campi. In quello della propria modernizzazione, dello sviluppo economico e civile. Quando questo non accade, la memoria tende a diventare patologia.
Torniamo alla storia, professore. Cosa accadde dopo le guerre balcaniche del 1912-1913?
ROMANO: Dalle guerre balcaniche la Serbia uscì vincente e anche territorialmente ingrandita. La prima e la seconda guerra mondiale presentano un’analogia: sono state combattute dai serbi in condizioni di grandissima difficoltà, con gravi sconfitte, con tracolli drammatici. Belgrado durante la prima guerra mondiale fu occupata dagli austriaci e l’esercito serbo fu messo in rotta. Tanto è vero che ciò che ne rimaneva fu salvato, nei porti dell’Adriatico, dai francesi e dagli italiani. C’è una Dunkerque balcanica durante la prima guerra mondiale che vede i serbi sconfitti, sempre con grande dignità e con grande onore, salvati dalla flotta francese e dalla flotta italiana, e quindi recuperati, per così dire, alla guerra. Nella seconda guerra mondiale i serbi, inizialmente, addirittura quasi non combatterono perché l’invasione tedesca del ’41, dopo il bombardamento di Belgrado, fu fulminea. Ci fu una “doppia resistenza” serba tra il ’41 e il ’45: ci fu la resistenza monarchica di Mihajlovic e quella comunista di Tito. Alla fine si fecero anche la guerra gli uni contro gli altri. Quindi fu una questione abbastanza complicata e sanguinosa. Comunque, nella memoria del popolo serbo è fortissimo il sentimento che gli fa dire: “abbiamo resistito”.
Siamo alla storia di ieri l’altro. Un maresciallo di origine croata, Tito, primo ministro nel 1945, fonda la Repubblica Socialista Federativa di Iugoslavia, uno Stato composto da sei nazioni e due regioni autonome. Che egli manterrà a lungo unite.
ROMANO: Tito ebbe un’idea chiara dello Stato iugoslavo. Lo realizzò e lo mantenne unito in base a dei criteri che non erano privi di una certa razionalità e anche di una certa astuzia. Per esempio attraverso la continua utilizzazione di pesi e contrappesi nei rapporti fra maggioranza e minoranza, dando agli uni e togliendo agli altri... Era sempre molto preoccupato dalla necessità di evitare che una delle minoranze a un certo punto riproponesse il problema, che si era creato fra la prima e la seconda guerra mondiale, della secessione, della spaccatura dello Stato. E lo poté fare anche perché dava ai cittadini dei diversi gruppi nazionali la prospettiva di una nazionalità comune rappresentata dal comunismo. Finché l’obiettivo del comunismo fu considerato come realisticamente perseguibile, lo Stato iugoslavo aveva una speranza, un’attesa, qualcosa da compiere e realizzare nell’unità. Il comunismo, la cittadinanza comunista, in questa prospettiva rappresentava qualcosa di più della cittadinanza nazional-religiosa di ciascuno degli iugoslavi. E devo dire anche che la cosa per un certo periodo funzionò. Altrimenti non ci sarebbero oggi otto milioni di “cugini interetnici” in Iugoslavia. Cioè risultati di matrimoni misti. Questo dà la misura del fatto che non si trattò soltanto di un esperimento. L’esperimento dette anche dei risultati. Ma sempre nella prospettiva del raggiungimento di un obiettivo comune rappresentato dalla creazione di uno Stato comunista, perché la cittadinanza comunista avrebbe in qualche modo stabilito una identità comune a tutti questi popoli. Nel momento in cui muore Tito e, pochi anni dopo, con la caduta del muro di Berlino, muore il comunismo, queste cose vengono a mancare. Viene a mancare il carisma di Tito che fu certamente fondamentale nel tenere insieme le varie etnie, nel dare agli uni e togliere agli altri. E poi viene a mancare il sentimento di un traguardo comune. Ci si dimentica che è la morte del comunismo la ragione fondamentale della morte della Iugoslavia.


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