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LAOS
tratto dal n. 03 - 1999

CHIESA. Intervista con il vicario apostolico di Vientiane

Ci basta un’Ave Maria


Sotto un regime di tipo socialista, i cattolici sono in crescita. Le difficoltà non sembrano spaventare monsignor Jean Khamsé Vithavong: «Bisogna fare un po’ di tutto. Ma è una vita magnifica, una vita di fede condivisa con la gente». Sui rapporti con lo Stato dice: «Se le leggi non sono così cattive da impedire la vita, si obbedisce». E sul suo incontro a Roma con il Papa: «Gli ho detto che se dice un’Ave Maria per noi, ci basta. Non c’è altro che serva»


Intervista con Jean Khamsé Vithavong di Stefano Maria Paci


«È vero, per la prima volta dopo quarant’anni i vescovi del Laos hanno incontrato il Papa. Ma la nostra non era una visita ad limina: c’è chi aveva chiesto il visto d’uscita dal Paese per andare a trovare parenti in Francia, chi per visitare amici. E “casualmente” ci siamo ritrovati tutti insieme qui a Roma, in Vaticano. Così, già che eravamo lì, siamo andati a salutare Giovanni Paolo II». Sorride Jean Khamsé Vithavong raccontando la piccola astuzia che ha permesso, dopo decenni, all’episcopato del Paese asiatico di incontrare il Pontefice. Monsignor Khamsé è vicario apostolico di Vientiane, la capitale del Laos, una nazione in cui, nonostante le difficoltà vissute dalla Chiesa, stanno accadendo fatti sorprendenti. In un Paese grande quasi come l’Italia i sacerdoti sono solo 19 (di cui tre vescovi). Il governo li ostacola, perché appartenenti a una “religione straniera”. Ma ci sono comunità prive di preti da decenni che hanno conservato la fede. E, a sorpresa, interi villaggi chiedono di convertirsi al cattolicesimo.

La valle del Mekong, in Laos

La valle del Mekong, in Laos

Quando, nel 1975, il partito marxista-leninista del Pathet Lao è giunto al potere, la Chiesa del Laos ha vissuto una drammatica esperienza: tutti i missionari e i sacerdoti stranieri sono stati espulsi. Come ha fatto la Chiesa a sopravvivere in tutti questi anni?
JEAN KHAMSÉ vithavong: Ricordo bene quel periodo: la Chiesa divenne improvvisamente una cosa fragilissima. Nel Paese non c’erano più né vescovi né la maggior parte dei preti. Ospedali, scuole, dispensari medici vennero chiusi. I beni sequestrati. Tutti ci domandavamo: e adesso, come sarà possibile sopravvivere? Eravamo in numero esiguo, dispersi, spaventati. Ma abbiamo ricominciato, in pochissimi, tutti nativi del Laos, l’avventura cristiana. Come già tante volte era accaduto nel mondo. I preti rimasti, proprio come avevano fatto un secolo prima i missionari venuti a farci conoscere il cattolicesimo, hanno iniziato a visitare le comunità disperse per tutto il Paese. Ricordo che noi sacerdoti, per esempio, ogni anno celebravamo decine e decine di volte il Natale e la Pasqua, girando in ogni comunità.
Ma è stato un tempo di purificazione. Quando nessuno più ci sostiene, quando non vi sono più opere, né si può aiutare materialmente la gente, appare più evidente che si vive per Cristo e non per qualche altro interesse.
E oggi? Cosa accade nella Chiesa del Laos attualmente?
KHAMSÉ: Posso raccontarle dei fatti. Formalmente, noi non possiamo organizzare nulla di missionario. E allora, semplicemente, rispondiamo a delle chiamate che ci arrivano. Come quella giunta dal villaggio di Huei Dok Mai. Gli abitanti non avevano mai sentito parlare di cattolicesimo. Ma qualche anno fa hanno incontrato alcuni cristiani. Sono rimasti colpiti da loro. E, dopo un po’, hanno chiesto che un sacerdote si recasse nel villaggio. Ma noi dobbiamo essere prudenti. Ho aspettato due anni, prima di andare. Loro, però, hanno atteso. E sono rimasti fermi nel loro desiderio. Quando sono andato, mi hanno detto: «Padre, noi toglieremo dagli altari i nostri dèi, e ci faremo battezzare nella fede cattolica». Stupefacente: non sapevano nemmeno con precisione cosa fosse essere cattolici, ma volevano diventarlo.
Cosa li aveva colpiti, dei cristiani che avevano incontrato?
KHAMSÉ: La loro libertà. E poi, il fatto che il cristianesimo toglie la paura. Loro, gli abitanti del villaggio, erano animisti, e credevano che ogni collina, montagna o sorgente fosse abitata da un certo spirito. Bisognava pagare offerte in natura a questi spiriti. Si sentivano soffocati. Incontrando il cristianesimo, si sono sentiti liberati dalla paura. Ma noi non possiamo liberarli solo da questo, occorre far loro conoscere Cristo vivo nella Chiesa. Aiutando la loro comprensione della fede.
Come hanno reagito le autorità?
KHAMSÉ: Violentemente. Hanno riunito tutti i bambini e le donne del villaggio, intimando loro di dire ai padri e ai mariti di abbandonare questa “nuova” religione. Che se volevano potevano smettere di praticare l’animismo, e abbandonare ogni religione, ma non aveva senso abbracciarne un’altra, per di più straniera. Però tutti gli abitanti del villaggio hanno rifiutato queste minacce. Sono rimasti saldi.
Lei ha detto che gli abitanti del villaggio vogliono convertirsi al cattolicesimo perché si sentono liberati dalla paura degli spiriti. Se fosse solo questo, come spiegare la loro resistenza di fronte alle autorità?
KHAMSÉ: È verissimo. Non è sufficiente a spiegarla. La Chiesa del Laos è debolissima. Se le autorità minacciano queste persone, noi non possiamo fare nulla per difenderle. Non abbiamo nessun ambito di dialogo con le autorità. Eppure, gli abitanti di questo, come di altri villaggi, restano saldi nella loro decisione di abbracciare il cattolicesimo. E non chiedono a noi sacerdoti nulla in cambio, né aiuti economici né altro. Perché si convertono? Non è facile rispondere.
Vuol dire che si tratta di una sorpresa anche per lei?
KHAMSÉ: Esattamente: è una sorpresa anche per me. Un vero stupore. Come spiegare che malgrado la diffidenza che è stata diffusa in Laos verso le religioni, specialmente verso il cattolicesimo, che è considerato una religione straniera, gli abitanti di un intero villaggio domandino di diventare cattolici? E ci sono molti altri villaggi che hanno chiesto di incontrarci e aspettano ancora la visita di un sacerdote. E migliaia di persone che stanno facendo un cammino di catecumenato. Vi sono alcune comunità in villaggi sperduti che, pur non ricevendo la visita di un sacerdote da decenni, hanno conservato la fede. Glielo dico molto semplicemente, e con un po’ di pudore: io ho pregato molto quando i missionari stranieri sono stati obbligati a partire e noi siamo stati lasciati a noi stessi. Ho pregato che lo Spirito Santo, che soffia dove vuole (e che è l’elemento un po’ selvaggio, se così si può dire, delle tre persone della Trinità), soffiasse su di noi. Ebbene, io credo che sia accaduto proprio questo. Che lo Spirito Santo sia venuto, e ci abbia chiamato ad andare verso i non cristiani.
Jean Khamsé Vithavong

Jean Khamsé Vithavong

E riuscite, in così pochi come siete, a rispondere a tutte queste chiamate?
KHAMSÉ: In realtà, la Chiesa non ha abbastanza “personale” nemmeno per occuparsi di quelli che sono già cristiani. Anche io, vescovo, devo essere parroco di molti villaggi. Come dice un proverbio del Laos, sono nello stesso tempo suocero e genero, padrone e operaio: sono, cioè, chi ordina il lavoro e chi lo esegue. Bisogna fare un po’ tutto, ed è una vita magnifica. È una vita di fede, condivisa con il popolo. Un altro genere di vita rispetto a quella del vescovo che fa il grande amministratore della sua diocesi. Ma come si fa a non rispondere, se qualcuno chiama?
La Chiesa ha vissuto una persecuzione violenta, in Laos?
KHAMSÉ: Non so se si può davvero utilizzare questa parola. Nel 1975 un nuovo regime di tipo socialista marxista-leninista ha conquistato tutta l’ex Indocina francese: Cambogia, Vietnam del Sud, Laos. In Cambogia ha preso il potere Pol Pot, che ha commesso un genocidio che ha inorridito il mondo. In Vietnam, le restrizioni verso le religioni sono state davvero molto severe. In Laos, invece, le cose sono state fatte in modo più dolce. Ci sono state restrizioni, non è sempre stato possibile spostarci, ma abbiamo sempre avuto la possibilità, nelle chiese che ci sono state lasciate, di celebrare messa, e anche di fare il catechismo. In paragone alla Cambogia e al Vietnam, noi abbiamo avuto una certa libertà. E, all’interno di questa, c’è stata la possibilità di fare qualcosa. La Chiesa del Laos è riuscita a sopravvivere. Dal punto di vista della statura della fede e della vita ecclesiale, la nostra Chiesa ha un’età differente da quella del Vietnam. In Vietnam la Chiesa è forte, come un ragazzo giovane e vigoroso. Ha avuto molti più anni, molta più formazione, molto più radicamento nella fede. In Laos c’è una Chiesa infante: è come un bimbo nato da poco. L’impressione che ho io, come vescovo, è che il Signore permetta le difficoltà sufficienti per fare crescere questo “bebè”. Non di più.
E come vive la Chiesa adesso?
KHAMSÉ: Noi possiamo, e in verità abbiamo sempre potuto, radunarci in certi posti: per esempio nelle grandi città. Nella capitale, poi, arrivano stranieri, e le chiese devono restare aperte, in modo che tutto il mondo possa constatare che si permette alle religioni di sopravvivere. Certo, viviamo anche con molte difficoltà. E con restrizioni: ci sono certe celebrazioni che non possiamo più fare. Ci si dice che rischierebbero di creare disordini nella comunità civile. Noi non ci siamo mai messi in contrapposizione violenta con lo Stato. In questo modo ci è stato concesso di vivere. Ed è già molto.
Monsignor Aloysius Jin Luxian, il vescovo “patriottico” di Shanghai, in un’intervista a 30Giorni (n. 1, gennaio 1999) ha detto: «Se la legge non è contro Dio, noi dobbiamo obbedire». Anche voi vi siete dunque comportati così?
KHAMSÉ: Sì, il principio è lo stesso. Noi abbiamo seguito il consiglio dato da san Pietro nella sua prima lettera quando spiega come comportarsi rispetto alle autorità civili: «State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore». I laotiani non amano dire le cose troppo direttamente. E quindi anche la Chiesa, qui, fa le cose alla laotiana: non tanto da scendere a patti su cose importanti, ma se le leggi non sono così cattive da impedire la vita, si obbedisce.
Eppure la vostra Chiesa ha avuto anche dei martiri, come padre Mario Borzaga (cfr. 30Giorni, n. 10, ottobre 1998). Sarebbe stato facile, per voi, dire: «Lo Stato è nemico. Ci uccide e ci perseguita»...
KHAMSÉ: Sì. Ma abbiamo deciso di non affrontare le cose in questo modo. Sarebbe iniziata una guerra in cui la Chiesa sarebbe stata stritolata. Noi sappiamo che lo Stato non ci ama. Ma è obbligato ad accettarci. Nel mio vicariato apostolico, per esempio, c’è una regione in cui ci sono molti villaggi, cattolici da lunga data. Finché gli abitanti lavorano, obbediscono, e vivono senza lamentarsi troppo (alla laotiana, appunto), le autorità ci sopportano. E non ci forzano troppo. Tutti i vescovi hanno scelto questo atteggiamento: in questi decenni siamo stati concordi, abbiamo seguito una linea unica. Non siamo mai arrivati a dire che bisogna obbedire in ogni caso allo Stato. Ma la gente lo fa, e noi non la rimproveriamo. Noi riteniamo che tra la Chiesa e lo Stato c’è la gente. Non sono due poteri che si confrontano: il nostro rapporto con lo Stato passa attraverso il popolo.
Faccio un esempio: quando bisogna costruire un luogo di preghiera, una chiesa o una cappella, è la gente del villaggio che chiede il permesso alle autorità, non i vescovi o i sacerdoti. La gente chiede: «Adesso abbiamo una casa di preghiera in bambù, ma sta crollando. Vorremmo costruirne un’altra. Ce lo permettete?».
Il permesso non viene concesso facilmente, ma a poco a poco si cerca di costruirla. A volte dicono: «Provate a cominciare con le fondazioni. Poi si vedrà». E l’anno seguente, si inizia a costruire il tetto. È questo il modo in cui viviamo: senza aut-aut, ma ci permette di sopravvivere.
Dopo quarant’anni, l’episcopato del Laos ha potuto incontrare il Papa. Lei cosa gli ha detto?
KHAMSÉ: Il Papa è il successore di Pietro, centro della comunione della Chiesa. E io sono un piccolo figlio, che si trova alla frontiera delle nazioni. Non ci sono stati grandi discorsi tra noi: io non ne sono capace. L’ho salutato dicendo che, anche se siamo dall’altra parte del pianeta, apparteniamo alla stessa Chiesa. Che lo ringraziamo per il suo sostegno. E gli ho detto che se lui dice un Rosario, o semplicemente un’Ave Maria per noi, ci basta. Non c’è altro da fare. E non c’è altro che serva.


SCHEDA. Quanti sono oggi i cattolici nel Paese

Sotto il comunismo sono raddoppiati

Dopo una lunga guerra civile tra chi si ispirava al modello nazionalista-comunista vietnamita e chi simpatizzava per la Francia, che aveva fatto del Laos un “protettorato” cuscinetto tra Vietnam e Thailandia, il 2 ottobre 1953 il Laos proclama l’indipendenza. Ma il Pathet Lao, il Partito comunista laotiano, continua la lotta. E sulla scia delle vittorie in Vietnam e Cambogia conquista il potere nel 1975. Quattrocentomila persone trovano rifugio in Thailandia. Nel Paese si aprono campi di rieducazione. Tutti i missionari e le religiose stranieri vengono espulsi. Un vescovo e molti sacerdoti locali vengono incarcerati o rinchiusi nei lager. Sono nazionalizzate le 16 scuole cattoliche che accoglievano novemila alunni, gli ospedali e le altre opere caritative della Chiesa. La maggior parte delle chiese viene chiusa. Il Ministero della Sanità viene installato nella casa provinciale degli Oblati a Vientiane, il Ministero provinciale dell’Educazione in quella di Luang Prabang. Nel 1989 viene proibita ogni celebrazione religiosa nel nord del Paese. Ma due anni dopo, nel 1991, inizia il disgelo religioso. Aumenta la libertà di culto, vengono concessi alcuni permessi per costruire edifici sacri, tutti i sacerdoti vengono liberati. Ma ancora il 24 gennaio dell’anno scorso viene arrestato, nella provincia di Bokeo, nel nord-ovest del Paese, padre Tito Banchong, un prete cattolico accusato di aver fatto visita ad alcune famiglie cristiane. La settimana dopo vengono espulsi quattro volontari cristiani che avevano organizzato un incontro religioso illegale. Attualmente, oltre a tre vescovi e 16 sacerdoti, in Laos ci sono un centinaio di suore e oltre cento catechisti. All’inizio del secolo i battezzati erano 10mila, nel 1973 45mila. Attualmente, è difficile stimare il numero dei cattolici: le cifre variano tra 36mila e centomila.


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