Solo la carità attrae
Il cardinale Christoph Schönborn racconta la sua vita nell’Ordine di san Domenico. Davanti alla presuntuosa confusione teologica dei nostri tempi, meglio tornare a Ireneo, Agostino e Tommaso d’Aquino. Ai grandi resi umili dall’aver contemplato l’opera di Dio
Intervista con il cardinale Christoph Schönborn di Gianni Valente
Narrano che anticamente
fossero contemplate tre modalità di uscire da un Ordine religioso:
abbandonare per propria scelta, essere cacciati per qualche mancanza
gravissima, essere eletti vescovi.
Christoph Schönborn, 54 anni, arcivescovo di Vienna dal 1995, creato cardinale nel concistoro del 21 febbraio ’98, ammette che adesso i nuovi impegni sopraggiunti hanno rarefatto la sua familiarità con la vita dell’Ordine. Ma non dimentica la sua appartenenza alla grande famiglia dell’Ordo praedicatorum. Un’appartenenza che affiora naturalmente nelle parole e nelle immagini che ricorrono nelle sue prediche e nei suoi scritti.
Schönborn è l’ultimo arrivato nella blasonata pattuglia dei cardinali domenicani. A questo figlio di san Domenico dai modi aristocratici e gentili sono state finora affidate imprese impegnative. Si è distinto come coordinatore della redazione del Catechismo della Chiesa cattolica. E ora gli tocca l’arduo compito di mediatore nelle lotte tra partiti ecclesiastici nella Chiesa d’Austria.
Nell’intervista che segue, Schönborn racconta la sua storia di domenicano cresciuto tra la Summa di san Tommaso e l’estetica teologica di von Balthasar. L’intervista è anche l’occasione per ripercorrere gli ultimi tormentati decenni di storia della famiglia di san Domenico. E per dare giudizi illuminanti sulla condizione attuale della teologia e della Chiesa.
Eminenza, come è iniziata la sua vocazione domenicana?
CHRISTOPH SCHÖNBORN: Sono diventato domenicano per una serie di fatti e incontri capitati. Non è stata una cosa troppo “concepita”. Io avevo il desiderio di diventare sacerdote già a dieci-undici anni. A quattordici anni ho conosciuto un padre domenicano, padre Paulus Guntz, della Provincia di Austria, che si trovava per un periodo di vacanza nella città dove frequentavo il liceo. Lo conobbi facendo il chierichetto alle sue messe, e poi ho cominciato con lui anche uno scambio di lettere.
La sua famiglia, di nobile lignaggio, ha avuto un ruolo nella sua vocazione così precoce?
SCHÖNBORN: Non esplicitamente. Io sono nato vicino a Litomerice, nel nord della Boemia, dove la mia famiglia aveva una proprietà. Alcuni mesi dopo la mia nascita, alla fine della seconda guerra mondiale, siamo dovuti fuggire, come tanti altri, espulsi dalla Cecoslovacchia perché eravamo di lingua tedesca. Dopo varie peripezie abbiamo trovato una nuova patria nel Vorarlberg, nell’Austria occidentale. Più che la mia famiglia, sul mio desiderio di diventare sacerdote influì la passione del mio professore di religione, che seminava l’entusiasmo per il sacerdozio tra i ragazzi. Poi, a Bludenz, ho incontrato padre Paulus… Alla fine del liceo, ho detto senza esitazione alla mia famiglia che sarei entrato nell’Ordine Domenicano. Sono giunto all’Ordine in maniera quasi impercettibile, tramite l’amicizia con questo domenicano.
Cosa la colpiva di questo domenicano?
SCHÖNBORN: Conservo una grande venerazione per lui. Ho visto in lui quello che per me è rimasto per tutta la vita l’ideale domenicano. Padre Paulus era un teologo scolastico. Amava san Tommaso e la teologia tradizionale dell’Ordine. Era stato anche assistente di padre Garrigou-Lagrange all’Angelicum. Dunque era un tipico esponente della grande tradizione domenicana tomista. Ma in lui questa vocazione allo studio e al lavoro intellettuale si coniugava con una pietà quasi di bambino. Un attaccamento semplice alla devozione popolare. Lui era un grande promotore della pratica del rosario. Questo per me è rimasto per tutta la vita l’ideale tipico dell’Ordine Domenicano: l’appartenenza a una grande tradizione teologica che non si trasforma in superbia intellettuale ma, al contrario, si esprime in una pietà molto umile, popolare, quella che si manifesta anche nella pratica del rosario. Questo ideale io l’ho visto in padre Paulus. E poi tante volte ho potuto sperimentare che quando si perde questo equilibrio, anche l’Ordine Domenicano perde la sua identità.
Il periodo della sua formazione ha coinciso con una fase burrascosa per l’Ordine…
SCHÖNBORN: Sono entrato nell’Ordine nel ’63, quando era iniziato l’ultimo Concilio ecumenico. Poco dopo è iniziata la crisi nell’Ordine. Una crisi tremenda, che ha colpito la vita religiosa in modo drammatico. Tanti confratelli lasciavano la vita religiosa. Si buttavano via come roba vecchia tutte le abitudini monastiche della vita religiosa: il silenzio, sanctissima lex silentii, la pratica della lettura a tavola, o quella della preghiera comune. Un vero smantellamento, una secolarizzazione rapidissima di tutta la vita religiosa. Tutto avveniva in pochi mesi. E, non meno drammatico, è stato tutto il cambiamento della teologia. L’abbandono di san Tommaso che, prima in Germania e poi altrove, veniva messo da parte come base dell’insegnamento e veniva sostituito con Bultmann e coll’ermeneutica bultmaniana. Tutto questo era il sintomo di un cambiamento, di uno snaturamento nella comprensione globale della Chiesa e della vita religiosa.
Lei come visse tutto quel periodo? Da spettatore, da protagonista o da emarginato?
SCHÖNBORN: La crisi arrivò così brutalmente che molti rimasero semplicemente frastornati. Non si sapeva cosa fare. Per un buon numero, quello che succedeva era una buona occasione per rovesciare radicalmente l’ottica della teologia. Io, nei primi anni, quando ero molto giovane e stavo ancora in Austria a studiare filosofia, ebbi un periodo di entusiasmo per questa nuova ermeneutica e per le sperimentazioni liturgiche. Ma presto ho percepito che non era quella la via. Nel frattempo, c’era anche un venir meno delle vocazioni. Quando io sono entrato nell’Ordine, nel ’63, eravamo 18 novizi provenienti da Germania e Austria. Pochi anni dopo, dalle stesse province arrivavano al massimo due o tre novizi. Questa tendenza è stata in parte riequilibrata durante gli anni Settanta, ma a mio avviso la crisi non è mai stata superata nel profondo. Ci stiamo ancora dentro. E la difficoltà è resa più grave dalla retorica e dalle sue conseguenze, da quella retorica che vieta persino di vedere la crisi, di riconoscere che c’è una crisi. Non lo permetteva già negli anni Settanta l’ideologia dominante, secondo cui tutto doveva essere descritto in termini di progresso, di miglioramento. Adesso la crisi è coperta ancora di più dalla nuova retorica secondo cui le cose vanno meglio di allora.
Lei visse buona parte di quegli anni vivaci in Francia, nel mitico istituto domenicano di Le Saulchoir. Le leggende su quegli anni a Le Saulchoir parlano di un clima da assemblea permanente, di bandiere rosse sventolanti dal campanile…
SCHÖNBORN: Io la bandiera rossa non l’ho sventolata… (ride). I primi anni, quelli dedicati allo studio della filosofia, li ho passati in Germania, nella nostra casa di studio, a Walberberg, che è stata chiusa poco dopo. Poi i superiori mi hanno concesso di andare a studiare teologia in Francia, e sono entrato a far parte dell’ambiente dei domenicani francesi. Sono arrivato nel ’68, quando arrivava in Francia quella crisi che in Germania aveva squassato gran parte della vita religiosa… Quattro anni dopo, nel ’72, anche la grande casa di formazione di Le Saulchoir è stata chiusa.
La fine di una storia gloriosa…
SCHÖNBORN: Le Saulchoir era stato un luogo eccezionale. Aveva un grande nome per la sua vita intellettuale. Con la sua biblioteca di 350mila volumi aveva alimentato gli studi di grandi teologi domenicani come padre Yves Congar e padre Marie-Dominique Chenu. Già nel ’54 c’era stato un periodo critico, quando l’esperienza dei preti operai aveva fatto temere una chiusura da parte delle autorità. Poi, negli anni Sessanta, con padre Congar, Le Saulchoir era diventato il centro di tutti i fermenti del tempo. Ma il biennio ’68-69 portò una rovina radicale. Una distruzione della vita religiosa, consumata in pochi mesi. Io ho vissuto lì proprio gli ultimi quattro anni, prima della chiusura. Ricordo quegli anni. Ricordo che in convento alla fine eravamo rimasti un piccolo gruppetto di frati, che vivevano nella foresteria di quest’enorme casa ormai vuota. La casa vuota di quella grande scuola di cui François Mauriac, durante la crisi del ’54, aveva detto: «Distruggere Le Saulchoir sarebbe come distruggere una delle più belle cattedrali di Francia».
Cosa l’accompagnò in quegli anni turbolenti?
SCHÖNBORN: C’è stato un tempo, che è coinciso proprio con il periodo dei miei studi, in cui il curriculum studiorum tradizionale era stato come frantumato. Mancavano parti essenziali della formazione. In Francia ho avuto la fortuna, la grazia di alcuni incontri e rapporti individuali con alcune persone che mi hanno aiutato molto. Ad esempio padre Martin Hubert, che ha dato un’impronta importante a un piccolo gruppo di frati nello studio di san Tommaso attingendo direttamente al testo originale, e non ai commentari. Poi c’è stato l’incontro con un monaco ortodosso, André Scrima, che ci ha aperto la strada verso i Padri della Chiesa d’Oriente. Direi che siamo sopravvissuti in questo ambiente, dove la teologia e la filosofia erano completamente saltate, anche perché abbiamo trovato un centro spirituale nei Padri della Chiesa…
La sua sensibilità ai Padri della Chiesa d’Oriente non è un elemento atipico nella sua formazione di domenicano?
SCHÖNBORN: No. È una tradizione antica nell’Ordine. Già san Domenico pensava a iniziative missionarie in Oriente. I domenicani di Francia, almeno alcuni tra loro, hanno sempre avuto un rapporto forte con l’ortodossia. Avevano già allora un centro di studi orientali e di contatto ecumenico con l’Oriente cristiano, il centro Istina, dove ho incontrato il mio professore di tesi di laurea, padre Marie-Joseph Le Guillou. E anche un altro a cui devo molto, il padre Irénée-Henri Dalmais, il patrologo sotto la cui guida ho fatto la mia tesi di licenza su Sofronio di Gerusalemme.
Lei ha citato padre Yves Congar. Cosa ricorda di questo grande teologo domenicano?
SCHÖNBORN: Padre Congar l’ho conosciuto da vicino, vivendo insieme a lui per quattro anni. Per un certo periodo sono stato il suo “infermiere”, il frate più giovane che lo accudiva per le cose pratiche. Ho potuto ammirare la sua disciplina di lavoro, e anche la sua premura per il lavoro degli altri. Quante volte ho trovato nel mio cassetto per la posta dei piccoli biglietti con delle preziose notizie bibliografiche! Quando trovava nelle sue infinite letture qualche riferimento che sapeva poter interessare qualche altro frate nel suo lavoro, subito lo appuntava su un bigliettino e glielo faceva pervenire. Un segno di attenzione, di carità verso gli altri. Che lui univa a un grande senso del lavoro, dell’utilità del tempo che non va sprecato in discorsi inutili. Ho conosciuto anche padre Chenu, che però era molto anziano. In generale, l’ambiente dei Domenicani di Francia era anche segnato da questo voler essere presenti alle questioni del tempo. Ma è anche vero che in quegli anni si approfondiva la divisione ideologica tra i Domenicani. Tra chi spingeva per abbandonare gli usi tradizionali e chi voleva continuare nella linea di san Tommaso.
Nella sua formazione rientrano comunque tanti fattori atipici rispetto al tradizionale schema domenicano: gli scritti di von Balthasar, la sintonia con gruppi carismatici, la devozione per santa Teresa di Lisieux…
SCHÖNBORN: Questo è venuto molti anni dopo. Grazie anche ai lavori di un caro amico teologo carmelitano, padre François Léthel, che mi hanno fatto scoprire ciò che già von Balthasar aveva sviluppato sulla teologia dei santi. Santa Teresina è una vera teologa. Il suo è uno sguardo limpido e umile sul Mistero.
Lei, durante i suoi studi, ha avuto anche un periodo di frequentazione col professor Ratzinger…
SCHÖNBORN: Ho conosciuto il professor Ratzinger perché il mio direttore per la tesi di laurea, padre Le Guillou, lo conosceva molto bene. Infatti lo incontrava nelle riunioni della Commissione teologica internazionale. Fu Le Guillou a mandarmi da Ratzinger, che per un anno mi ha accolto nel suo seminario a Ratisbona. Lì ho scritto buona parte della mia tesi di laurea e ho potuto frequentare i corsi del professor Ratzinger.
Come giudica la situazione attuale dell’Ordine Domenicano?
SCHÖNBORN: Non ho molti contatti con l’Ordine adesso, ma vedo con grande gioia che ci sono segni di una salute del carisma domenicano. Ad esempio tutto il gruppo intorno alla Revue Thomiste di Tolosa: sono buoni teologi, con un grande attaccamento a vivere in modo serio la vita domenicana. Ma anche in altri Paesi, ci sono tante realtà dove si vede che san Domenico non abbandona la sua famiglia.
Qual è secondo lei la situazione attuale della teologia?
SCHÖNBORN: È una situazione di confusione. E come spesso accade, confusione fa rima con presunzione. Della Scientia Dei, il sapere di Dio, l’uomo diventa partecipe attraverso la fede, non è una costruzione umana che si possa afferrare come un possesso. Certamente, potremmo intuire qualcosa delle ultime verità con grande fatica, andando come a tentoni e brancolando nel buio. All’uomo, però, il mistero più intimo di Dio ed il mistero delle sue vie rimangono nascosti senza la Rivelazione. La teologia cristiana ha poi come caratteristica il fatto che nel cristianesimo alcuni eventi concreti e storici, dell’Antica e della Nuova Alleanza, appaiono come l’agire divino. La teologia non è in grado di addurre alcuna prova riguardante la necessità di tali eventi. Può solo umilmente registrarli, e documentare la loro “opportunità”, la loro inimmaginabile corrispondenza al cuore dell’uomo per la sua felicità. Che Dio si sia fatto uomo, non può dedursi come necessità, come conseguenza obbligata di una tesi teologica. La ricerca teologica può al massimo rischiarare la sua significatività.
Oggi, il pensiero teologico si trova in uno stato di impoverimento. Vive una fase imitatoria, dove da una parte domina una sorta di enciclopedismo, e dall’altra si assiste a una crescente frammentazione, alla mancanza di un linguaggio comune. Spesso si approfondisce la formazione storica di un tema e il modo di porre una certa questione, piuttosto che la questione stessa, che dovrebbe costituire, propriamente, l’oggetto della teologia. Allo stesso tempo, ogni scuola teologica custodisce con gelosia la propria “posizione”, le proprie acquisizioni, e la comunicazione tra le diverse posizioni è difficile e stancante.
Ci sono suggerimenti possibili in tale situazione di confusione?
SCHÖNBORN: Penso che possa essere utile un ritorno diretto, senza eccessive mediazioni, ai grandi come Tommaso, Agostino, Ireneo, e agli altri Padri della Chiesa. Rileggere i grandi, riprendere direttamente i loro testi originali, lasciando da parte commentari e interpretazioni. Sono loro i grandi ermeneuti del Mistero. E non abbiamo bisogno di una ermeneutica della loro ermeneutica. Per esperienza personale so quanto può essere confortante un simile approccio a san Tommaso. Non nel senso di un ritorno a un determinato sistema ideologico, ma nel senso che il suo sguardo sulla res, sull’oggetto in quanto tale, è così limpido, che chiunque lo segue e assume la traiettoria del suo sguardo, è condotto a vedere con i suoi occhi. San Tommaso diceva che il buon teologo è colui che conosce le «cose divine» non solo concettualmente, ma colui che le ha provate, che le conosce per esperienza. E chi meglio di san Tommaso può condurci alla contemplazione di Dio? Certamente non i commentatori di san Tommaso.
Nel discorso che lo scorso novembre il Papa ha rivolto ai vescovi austriaci, c’erano diversi passaggi di grande interesse generale sulla natura della Chiesa. Il Papa ha detto tra l’altro: «Chi prende sul serio la Chiesa come realtà salvifica si rende conto che essa non è tale per virtù propria».
SCHÖNBORN: Non penso ci siano da fare commenti. Come diceva Paolo VI nel Credo del popolo di Dio, la Chiesa non ha altra vita se non quella della grazia. La frase del Papa ribadisce che la vita cristiana non è lo sviluppo di un progetto umano, nemmeno di un progetto ecclesiastico. Sola fide, dice il Concilio di Trento. Sola fide, solo per la fede si può riconoscere il carattere soprannaturale di attrattiva e di comunicazione di grazia della Chiesa.
Ecco un’altra frase di quel discorso del Papa: «È certo giusto non voler riconoscere alcuna verità se priva della carità». La battaglia in nome di una verità senza carità ha segnato anche la storia dell’Ordine Domenicano, ad esempio ai tempi dell’Inquisizione. È una tentazione che ritorna nella Chiesa di oggi, che spesso parla più il linguaggio della verità che quello della misericordia. Anche Ratzinger ha recentemente fatto cenno all’«imperialismo della verità»…
SCHÖNBORN: Sant’Alberto ha una bella frase: «In delectudine fraternitatis veritatem quaerere». Cercare la verità nella dolcezza della fraternità. Rimaniamo sempre cercatori della verità. Anche se la verità è certa, il nostro approccio alla verità sarà sempre quello della domanda. Questo vale anche per le certezze della fede. La fede è certa, più certa di tutte le certezze, perché è la certezza che sorge nello stupore di fronte all’opera di Dio, è opera di Dio. Dio si rivela e si comunica operando nella storia. Ma chi cammina nella fede questa certezza la porta nella debolezza della nostra intelligenza, del nostro capire, del nostro sentire e del nostro agire. Per questo il modo più adatto per la ricerca della verità è quell’ambiente della carità che sant’Alberto chiama la fraternità. Se manca la carità, la forma charitatis, anche il richiamo alla verità può diventare una pretesa, un’ideologia da imporre. Perché è come se mancasse l’occhio per vedere la verità. L’occhio che fa vedere la verità è la carità. È la carità che fa avanzare verso l’oggetto, mette l’oggetto nella vera luce. È la bellezza della carità che attrae, che fa andare verso l’oggetto. Come scrive sant’Agostino: «Parum est voluntate etiam voluptate traheris». Dio non soltanto ti attira in modo che tu stesso voglia, ma perfino in modo che tu gusti di essere attirato. Questa è l’essenza della libertà. Gustare di aderire, essere felici del compimento.
San Tommaso, nel primo articolo della Summa theologica su che cosa sia la carità, afferma: «È evidente che la carità è una certa amicizia dell’uomo con Dio»…
SCHÖNBORN: La carità è la virtù impossibile senza la grazia in atto. La fede, a modo loro, l’hanno anche i demoni. A modo loro anche i demoni riconoscono il Signore che rifiutano. Ma un atto di vera carità è impossibile senza che la grazia agisca. La carità è la virtù che non può in alcun modo operare senza una particolare azione della grazia. Come diceva santa Teresina: «Quando io sono caritatevole, è solo Gesù che agisce in me».
Christoph Schönborn, 54 anni, arcivescovo di Vienna dal 1995, creato cardinale nel concistoro del 21 febbraio ’98, ammette che adesso i nuovi impegni sopraggiunti hanno rarefatto la sua familiarità con la vita dell’Ordine. Ma non dimentica la sua appartenenza alla grande famiglia dell’Ordo praedicatorum. Un’appartenenza che affiora naturalmente nelle parole e nelle immagini che ricorrono nelle sue prediche e nei suoi scritti.
Schönborn è l’ultimo arrivato nella blasonata pattuglia dei cardinali domenicani. A questo figlio di san Domenico dai modi aristocratici e gentili sono state finora affidate imprese impegnative. Si è distinto come coordinatore della redazione del Catechismo della Chiesa cattolica. E ora gli tocca l’arduo compito di mediatore nelle lotte tra partiti ecclesiastici nella Chiesa d’Austria.
Nell’intervista che segue, Schönborn racconta la sua storia di domenicano cresciuto tra la Summa di san Tommaso e l’estetica teologica di von Balthasar. L’intervista è anche l’occasione per ripercorrere gli ultimi tormentati decenni di storia della famiglia di san Domenico. E per dare giudizi illuminanti sulla condizione attuale della teologia e della Chiesa.
Eminenza, come è iniziata la sua vocazione domenicana?
CHRISTOPH SCHÖNBORN: Sono diventato domenicano per una serie di fatti e incontri capitati. Non è stata una cosa troppo “concepita”. Io avevo il desiderio di diventare sacerdote già a dieci-undici anni. A quattordici anni ho conosciuto un padre domenicano, padre Paulus Guntz, della Provincia di Austria, che si trovava per un periodo di vacanza nella città dove frequentavo il liceo. Lo conobbi facendo il chierichetto alle sue messe, e poi ho cominciato con lui anche uno scambio di lettere.
La sua famiglia, di nobile lignaggio, ha avuto un ruolo nella sua vocazione così precoce?
SCHÖNBORN: Non esplicitamente. Io sono nato vicino a Litomerice, nel nord della Boemia, dove la mia famiglia aveva una proprietà. Alcuni mesi dopo la mia nascita, alla fine della seconda guerra mondiale, siamo dovuti fuggire, come tanti altri, espulsi dalla Cecoslovacchia perché eravamo di lingua tedesca. Dopo varie peripezie abbiamo trovato una nuova patria nel Vorarlberg, nell’Austria occidentale. Più che la mia famiglia, sul mio desiderio di diventare sacerdote influì la passione del mio professore di religione, che seminava l’entusiasmo per il sacerdozio tra i ragazzi. Poi, a Bludenz, ho incontrato padre Paulus… Alla fine del liceo, ho detto senza esitazione alla mia famiglia che sarei entrato nell’Ordine Domenicano. Sono giunto all’Ordine in maniera quasi impercettibile, tramite l’amicizia con questo domenicano.
Cosa la colpiva di questo domenicano?
SCHÖNBORN: Conservo una grande venerazione per lui. Ho visto in lui quello che per me è rimasto per tutta la vita l’ideale domenicano. Padre Paulus era un teologo scolastico. Amava san Tommaso e la teologia tradizionale dell’Ordine. Era stato anche assistente di padre Garrigou-Lagrange all’Angelicum. Dunque era un tipico esponente della grande tradizione domenicana tomista. Ma in lui questa vocazione allo studio e al lavoro intellettuale si coniugava con una pietà quasi di bambino. Un attaccamento semplice alla devozione popolare. Lui era un grande promotore della pratica del rosario. Questo per me è rimasto per tutta la vita l’ideale tipico dell’Ordine Domenicano: l’appartenenza a una grande tradizione teologica che non si trasforma in superbia intellettuale ma, al contrario, si esprime in una pietà molto umile, popolare, quella che si manifesta anche nella pratica del rosario. Questo ideale io l’ho visto in padre Paulus. E poi tante volte ho potuto sperimentare che quando si perde questo equilibrio, anche l’Ordine Domenicano perde la sua identità.
Il periodo della sua formazione ha coinciso con una fase burrascosa per l’Ordine…
SCHÖNBORN: Sono entrato nell’Ordine nel ’63, quando era iniziato l’ultimo Concilio ecumenico. Poco dopo è iniziata la crisi nell’Ordine. Una crisi tremenda, che ha colpito la vita religiosa in modo drammatico. Tanti confratelli lasciavano la vita religiosa. Si buttavano via come roba vecchia tutte le abitudini monastiche della vita religiosa: il silenzio, sanctissima lex silentii, la pratica della lettura a tavola, o quella della preghiera comune. Un vero smantellamento, una secolarizzazione rapidissima di tutta la vita religiosa. Tutto avveniva in pochi mesi. E, non meno drammatico, è stato tutto il cambiamento della teologia. L’abbandono di san Tommaso che, prima in Germania e poi altrove, veniva messo da parte come base dell’insegnamento e veniva sostituito con Bultmann e coll’ermeneutica bultmaniana. Tutto questo era il sintomo di un cambiamento, di uno snaturamento nella comprensione globale della Chiesa e della vita religiosa.
Lei come visse tutto quel periodo? Da spettatore, da protagonista o da emarginato?
SCHÖNBORN: La crisi arrivò così brutalmente che molti rimasero semplicemente frastornati. Non si sapeva cosa fare. Per un buon numero, quello che succedeva era una buona occasione per rovesciare radicalmente l’ottica della teologia. Io, nei primi anni, quando ero molto giovane e stavo ancora in Austria a studiare filosofia, ebbi un periodo di entusiasmo per questa nuova ermeneutica e per le sperimentazioni liturgiche. Ma presto ho percepito che non era quella la via. Nel frattempo, c’era anche un venir meno delle vocazioni. Quando io sono entrato nell’Ordine, nel ’63, eravamo 18 novizi provenienti da Germania e Austria. Pochi anni dopo, dalle stesse province arrivavano al massimo due o tre novizi. Questa tendenza è stata in parte riequilibrata durante gli anni Settanta, ma a mio avviso la crisi non è mai stata superata nel profondo. Ci stiamo ancora dentro. E la difficoltà è resa più grave dalla retorica e dalle sue conseguenze, da quella retorica che vieta persino di vedere la crisi, di riconoscere che c’è una crisi. Non lo permetteva già negli anni Settanta l’ideologia dominante, secondo cui tutto doveva essere descritto in termini di progresso, di miglioramento. Adesso la crisi è coperta ancora di più dalla nuova retorica secondo cui le cose vanno meglio di allora.
Lei visse buona parte di quegli anni vivaci in Francia, nel mitico istituto domenicano di Le Saulchoir. Le leggende su quegli anni a Le Saulchoir parlano di un clima da assemblea permanente, di bandiere rosse sventolanti dal campanile…
SCHÖNBORN: Io la bandiera rossa non l’ho sventolata… (ride). I primi anni, quelli dedicati allo studio della filosofia, li ho passati in Germania, nella nostra casa di studio, a Walberberg, che è stata chiusa poco dopo. Poi i superiori mi hanno concesso di andare a studiare teologia in Francia, e sono entrato a far parte dell’ambiente dei domenicani francesi. Sono arrivato nel ’68, quando arrivava in Francia quella crisi che in Germania aveva squassato gran parte della vita religiosa… Quattro anni dopo, nel ’72, anche la grande casa di formazione di Le Saulchoir è stata chiusa.
La fine di una storia gloriosa…
SCHÖNBORN: Le Saulchoir era stato un luogo eccezionale. Aveva un grande nome per la sua vita intellettuale. Con la sua biblioteca di 350mila volumi aveva alimentato gli studi di grandi teologi domenicani come padre Yves Congar e padre Marie-Dominique Chenu. Già nel ’54 c’era stato un periodo critico, quando l’esperienza dei preti operai aveva fatto temere una chiusura da parte delle autorità. Poi, negli anni Sessanta, con padre Congar, Le Saulchoir era diventato il centro di tutti i fermenti del tempo. Ma il biennio ’68-69 portò una rovina radicale. Una distruzione della vita religiosa, consumata in pochi mesi. Io ho vissuto lì proprio gli ultimi quattro anni, prima della chiusura. Ricordo quegli anni. Ricordo che in convento alla fine eravamo rimasti un piccolo gruppetto di frati, che vivevano nella foresteria di quest’enorme casa ormai vuota. La casa vuota di quella grande scuola di cui François Mauriac, durante la crisi del ’54, aveva detto: «Distruggere Le Saulchoir sarebbe come distruggere una delle più belle cattedrali di Francia».
Cosa l’accompagnò in quegli anni turbolenti?
SCHÖNBORN: C’è stato un tempo, che è coinciso proprio con il periodo dei miei studi, in cui il curriculum studiorum tradizionale era stato come frantumato. Mancavano parti essenziali della formazione. In Francia ho avuto la fortuna, la grazia di alcuni incontri e rapporti individuali con alcune persone che mi hanno aiutato molto. Ad esempio padre Martin Hubert, che ha dato un’impronta importante a un piccolo gruppo di frati nello studio di san Tommaso attingendo direttamente al testo originale, e non ai commentari. Poi c’è stato l’incontro con un monaco ortodosso, André Scrima, che ci ha aperto la strada verso i Padri della Chiesa d’Oriente. Direi che siamo sopravvissuti in questo ambiente, dove la teologia e la filosofia erano completamente saltate, anche perché abbiamo trovato un centro spirituale nei Padri della Chiesa…
La sua sensibilità ai Padri della Chiesa d’Oriente non è un elemento atipico nella sua formazione di domenicano?
SCHÖNBORN: No. È una tradizione antica nell’Ordine. Già san Domenico pensava a iniziative missionarie in Oriente. I domenicani di Francia, almeno alcuni tra loro, hanno sempre avuto un rapporto forte con l’ortodossia. Avevano già allora un centro di studi orientali e di contatto ecumenico con l’Oriente cristiano, il centro Istina, dove ho incontrato il mio professore di tesi di laurea, padre Marie-Joseph Le Guillou. E anche un altro a cui devo molto, il padre Irénée-Henri Dalmais, il patrologo sotto la cui guida ho fatto la mia tesi di licenza su Sofronio di Gerusalemme.
Lei ha citato padre Yves Congar. Cosa ricorda di questo grande teologo domenicano?
SCHÖNBORN: Padre Congar l’ho conosciuto da vicino, vivendo insieme a lui per quattro anni. Per un certo periodo sono stato il suo “infermiere”, il frate più giovane che lo accudiva per le cose pratiche. Ho potuto ammirare la sua disciplina di lavoro, e anche la sua premura per il lavoro degli altri. Quante volte ho trovato nel mio cassetto per la posta dei piccoli biglietti con delle preziose notizie bibliografiche! Quando trovava nelle sue infinite letture qualche riferimento che sapeva poter interessare qualche altro frate nel suo lavoro, subito lo appuntava su un bigliettino e glielo faceva pervenire. Un segno di attenzione, di carità verso gli altri. Che lui univa a un grande senso del lavoro, dell’utilità del tempo che non va sprecato in discorsi inutili. Ho conosciuto anche padre Chenu, che però era molto anziano. In generale, l’ambiente dei Domenicani di Francia era anche segnato da questo voler essere presenti alle questioni del tempo. Ma è anche vero che in quegli anni si approfondiva la divisione ideologica tra i Domenicani. Tra chi spingeva per abbandonare gli usi tradizionali e chi voleva continuare nella linea di san Tommaso.
Nella sua formazione rientrano comunque tanti fattori atipici rispetto al tradizionale schema domenicano: gli scritti di von Balthasar, la sintonia con gruppi carismatici, la devozione per santa Teresa di Lisieux…
SCHÖNBORN: Questo è venuto molti anni dopo. Grazie anche ai lavori di un caro amico teologo carmelitano, padre François Léthel, che mi hanno fatto scoprire ciò che già von Balthasar aveva sviluppato sulla teologia dei santi. Santa Teresina è una vera teologa. Il suo è uno sguardo limpido e umile sul Mistero.
Lei, durante i suoi studi, ha avuto anche un periodo di frequentazione col professor Ratzinger…
SCHÖNBORN: Ho conosciuto il professor Ratzinger perché il mio direttore per la tesi di laurea, padre Le Guillou, lo conosceva molto bene. Infatti lo incontrava nelle riunioni della Commissione teologica internazionale. Fu Le Guillou a mandarmi da Ratzinger, che per un anno mi ha accolto nel suo seminario a Ratisbona. Lì ho scritto buona parte della mia tesi di laurea e ho potuto frequentare i corsi del professor Ratzinger.
Come giudica la situazione attuale dell’Ordine Domenicano?
SCHÖNBORN: Non ho molti contatti con l’Ordine adesso, ma vedo con grande gioia che ci sono segni di una salute del carisma domenicano. Ad esempio tutto il gruppo intorno alla Revue Thomiste di Tolosa: sono buoni teologi, con un grande attaccamento a vivere in modo serio la vita domenicana. Ma anche in altri Paesi, ci sono tante realtà dove si vede che san Domenico non abbandona la sua famiglia.
Qual è secondo lei la situazione attuale della teologia?
SCHÖNBORN: È una situazione di confusione. E come spesso accade, confusione fa rima con presunzione. Della Scientia Dei, il sapere di Dio, l’uomo diventa partecipe attraverso la fede, non è una costruzione umana che si possa afferrare come un possesso. Certamente, potremmo intuire qualcosa delle ultime verità con grande fatica, andando come a tentoni e brancolando nel buio. All’uomo, però, il mistero più intimo di Dio ed il mistero delle sue vie rimangono nascosti senza la Rivelazione. La teologia cristiana ha poi come caratteristica il fatto che nel cristianesimo alcuni eventi concreti e storici, dell’Antica e della Nuova Alleanza, appaiono come l’agire divino. La teologia non è in grado di addurre alcuna prova riguardante la necessità di tali eventi. Può solo umilmente registrarli, e documentare la loro “opportunità”, la loro inimmaginabile corrispondenza al cuore dell’uomo per la sua felicità. Che Dio si sia fatto uomo, non può dedursi come necessità, come conseguenza obbligata di una tesi teologica. La ricerca teologica può al massimo rischiarare la sua significatività.
Oggi, il pensiero teologico si trova in uno stato di impoverimento. Vive una fase imitatoria, dove da una parte domina una sorta di enciclopedismo, e dall’altra si assiste a una crescente frammentazione, alla mancanza di un linguaggio comune. Spesso si approfondisce la formazione storica di un tema e il modo di porre una certa questione, piuttosto che la questione stessa, che dovrebbe costituire, propriamente, l’oggetto della teologia. Allo stesso tempo, ogni scuola teologica custodisce con gelosia la propria “posizione”, le proprie acquisizioni, e la comunicazione tra le diverse posizioni è difficile e stancante.
Ci sono suggerimenti possibili in tale situazione di confusione?
SCHÖNBORN: Penso che possa essere utile un ritorno diretto, senza eccessive mediazioni, ai grandi come Tommaso, Agostino, Ireneo, e agli altri Padri della Chiesa. Rileggere i grandi, riprendere direttamente i loro testi originali, lasciando da parte commentari e interpretazioni. Sono loro i grandi ermeneuti del Mistero. E non abbiamo bisogno di una ermeneutica della loro ermeneutica. Per esperienza personale so quanto può essere confortante un simile approccio a san Tommaso. Non nel senso di un ritorno a un determinato sistema ideologico, ma nel senso che il suo sguardo sulla res, sull’oggetto in quanto tale, è così limpido, che chiunque lo segue e assume la traiettoria del suo sguardo, è condotto a vedere con i suoi occhi. San Tommaso diceva che il buon teologo è colui che conosce le «cose divine» non solo concettualmente, ma colui che le ha provate, che le conosce per esperienza. E chi meglio di san Tommaso può condurci alla contemplazione di Dio? Certamente non i commentatori di san Tommaso.
Nel discorso che lo scorso novembre il Papa ha rivolto ai vescovi austriaci, c’erano diversi passaggi di grande interesse generale sulla natura della Chiesa. Il Papa ha detto tra l’altro: «Chi prende sul serio la Chiesa come realtà salvifica si rende conto che essa non è tale per virtù propria».
SCHÖNBORN: Non penso ci siano da fare commenti. Come diceva Paolo VI nel Credo del popolo di Dio, la Chiesa non ha altra vita se non quella della grazia. La frase del Papa ribadisce che la vita cristiana non è lo sviluppo di un progetto umano, nemmeno di un progetto ecclesiastico. Sola fide, dice il Concilio di Trento. Sola fide, solo per la fede si può riconoscere il carattere soprannaturale di attrattiva e di comunicazione di grazia della Chiesa.
Ecco un’altra frase di quel discorso del Papa: «È certo giusto non voler riconoscere alcuna verità se priva della carità». La battaglia in nome di una verità senza carità ha segnato anche la storia dell’Ordine Domenicano, ad esempio ai tempi dell’Inquisizione. È una tentazione che ritorna nella Chiesa di oggi, che spesso parla più il linguaggio della verità che quello della misericordia. Anche Ratzinger ha recentemente fatto cenno all’«imperialismo della verità»…
SCHÖNBORN: Sant’Alberto ha una bella frase: «In delectudine fraternitatis veritatem quaerere». Cercare la verità nella dolcezza della fraternità. Rimaniamo sempre cercatori della verità. Anche se la verità è certa, il nostro approccio alla verità sarà sempre quello della domanda. Questo vale anche per le certezze della fede. La fede è certa, più certa di tutte le certezze, perché è la certezza che sorge nello stupore di fronte all’opera di Dio, è opera di Dio. Dio si rivela e si comunica operando nella storia. Ma chi cammina nella fede questa certezza la porta nella debolezza della nostra intelligenza, del nostro capire, del nostro sentire e del nostro agire. Per questo il modo più adatto per la ricerca della verità è quell’ambiente della carità che sant’Alberto chiama la fraternità. Se manca la carità, la forma charitatis, anche il richiamo alla verità può diventare una pretesa, un’ideologia da imporre. Perché è come se mancasse l’occhio per vedere la verità. L’occhio che fa vedere la verità è la carità. È la carità che fa avanzare verso l’oggetto, mette l’oggetto nella vera luce. È la bellezza della carità che attrae, che fa andare verso l’oggetto. Come scrive sant’Agostino: «Parum est voluntate etiam voluptate traheris». Dio non soltanto ti attira in modo che tu stesso voglia, ma perfino in modo che tu gusti di essere attirato. Questa è l’essenza della libertà. Gustare di aderire, essere felici del compimento.
San Tommaso, nel primo articolo della Summa theologica su che cosa sia la carità, afferma: «È evidente che la carità è una certa amicizia dell’uomo con Dio»…
SCHÖNBORN: La carità è la virtù impossibile senza la grazia in atto. La fede, a modo loro, l’hanno anche i demoni. A modo loro anche i demoni riconoscono il Signore che rifiutano. Ma un atto di vera carità è impossibile senza che la grazia agisca. La carità è la virtù che non può in alcun modo operare senza una particolare azione della grazia. Come diceva santa Teresina: «Quando io sono caritatevole, è solo Gesù che agisce in me».