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ISRAELE
tratto dal n. 02 - 1999

ANALISI. Incontro con lo storico leader del Likud

La mia Israele è sempre grande


Critica Netanyahu. Insieme a Shimon Peres chiede la riforma elettorale. È amico degli Stati Uniti, ma «con differenze». Il Papa? «Non si può dire che il cento per cento degli ebrei accetti quanto lui dice sul popolo ebraico». Parla Yitzhak Shamir


Intervista con Yitzhak Shamir di Giovanni Cubeddu


Il momento di passaggio politico che il suo partito, il Likud, vive, è quanto mai sofferto: «una specie di caos», dice Yitzhak Shamir. Il casus belli è stato la firma e la successiva ratifica parlamentare dell’Accordo di Wye River: «Il Likud è sempre stato contrario a ogni accordo specifico con l’Olp, ma il nuovo leader, Netanyahu, ha cambiato questa posizione. Ma non è la mia… Beh, ora che Netanyahu ha la maggioranza nel Likud è tutta un’altra storia, ma io sono contrario». L’anziano padre storico della destra israeliana articola con soavità giudizi trancianti. È del tutto naturale per lui, che, come partigiano prima della nascita dello Stato, poi nell’esercito e con un cursus honorum politico unico, ha inteso realizzare un solo desiderio: far vivere gli ebrei nella loro terra, Eretz Israel (scandisce: «La terra di Israele appartiene solo alla gente di Israele!»). E comunque i voltafaccia di Netanyahu – che dopo aver firmato l’Accordo di Wye River lo ha, di fatto, congelato – non lo rassicurano. Ma Shamir negli anni Ottanta è stato anche, come il leader laburista Shimon Peres, a capo di governi di grande coalizione, un’eventualità che potrebbe riproporsi dopo le elezioni israeliane del prossimo 17 maggio. E da premier ha saputo, nel ’91, sedersi al tavolo della Conferenza di Madrid per iniziare a parlare di pace con Siria, Libano, Giordania e palestinesi.
Ora letteralmente tutto il mondo attende l’esito di una tornata elettorale da cui dipende il futuro di pace in tutto il Medio Oriente: e il vincitore (sia esso il Likud, il Labor Party o il nuovo “partito di Centro”) dovrà farsene carico. Il nuovo “Centro” – il cui candidato a premier è l’ex ministro della Difesa Yitzhak Mordechai e il cui ideatore è l’ex sindaco di Tel Aviv Roni Milo, ambedue ex likudnik – brilla di luce assai sfocata, secondo Shamir: «Penso che la posizione di Milo sia anche più populista di quella di Netanyahu».
A sorpresa, assieme a Shimon Peres, Shamir sta anche ufficialmente sostenendo la battaglia per la riforma del sistema elettorale, per la semplificazione nella composizione della Knesset (che è in verità una maniera di ridimensionare le formazioni radicali religiose che influenzano la democrazia israeliana).
Di riforme, del momento di aspro confronto tra ebrei ortodossi e laici, di come la Diaspora e lo storico alleato statunitense giudicano oggi Israele dialoghiamo con Yitzhak Shamir. Con un occhio anche alle relazioni giudaico-cattoliche.
Insieme a Shimon Peres lei giudica inadeguato l’attuale sistema elettorale israeliano. Perché?
YITZHAK SHAMIR: Perché è un sistema errato, e nasce da una personale visione del primo ministro. Io non credo che sia una visione davvero democratica. Prima non è mai stato così nel nostro Paese e spero fortemente che cambierà di nuovo. Il punto fondamentale è che, se stiamo a questa visione propria di Netanyahu, ogni cittadino deve votare due volte: una per il primo ministro e un’altra per il proprio partito. Il risultato è che noi avremo, come abbiamo già, molti partiti, e poi sempre di più. Questo io lo ritengo contrario agli interessi della nostra democrazia.
Dopo alcune recenti sentenze dell’Alta Corte di giustizia, si è aperto uno scontro tra ebrei religiosi ed ebrei laici. Il rapporto tra Stato e religione in Israele è divenuto scottante…
SHAMIR: Per il momento non credo che si arriverà a una decisione sul tema. Il problema è complesso. Perché nella storia giudaica religione e politica non potevano essere separate, non poteva esserci completa differenza tra la religione e la tesi fondamentale dello Stato. Non credo che arriveremo a una decisione nelle prossime elezioni. Per ora i partiti religiosi sono d’accordo con Netanyahu, ma non è una posizione ideologica, bensì basata su una situazione di fatto. Noi non saremo mai, ad esempio, come gli Stati Uniti, in cui Stato e religione hanno due vite diverse. La nostra situazione non potrebbe mai essere così. È differente perché la nostra storia è differente. Io non sono davvero un uomo religioso, ma questo non c’entra. Il Likud non è mai stato per la separazione tra religione e Stato, nonostante vi aderissero dei non religiosi.
Tra instabilità politica e lotte religiose, come crede che la Diaspora guardi a Israele oggi?
SHAMIR: Difficile da sapere. Tutto ciò che riguarda la questione ebraica è difficile da sapere. Nella Diaspora esistono molte opinioni, e si fa fatica a capire dove sia la maggioranza.
Anche il rapporto di Israele con gli Stati Uniti, di cui lei è uno storico fautore, pare più instabile…
SHAMIR: Beh, ma la situazione potrebbe cambiare. Dopo tutto, ciò non è così importante per gli Stati Uniti. Le relazioni tra Israele e Stati Uniti sono davvero amichevoli e lo saranno sempre, saremo sempre insieme. Ma nonostante ciò ci potrebbero essere differenze, come quelle al tempo in cui ero primo ministro. Ad esempio, c’era distanza tra me e George Bush, e la gente dice che per questo lui non è stato eletto per il secondo mandato: Bush è certo che questa divergenza di vedute ne sia stata la ragione. Non so se abbia ragione o no. Forse…
E Clinton è arrabbiato con Netanyahu per via del ritardo nel processo di pace.
SHAMIR: Ma non al cento per cento. Ci sono alcune divergenze, Netanyahu ha il suo punto di vista, e la sua posizione non è la mia.
Con quale sentimento ha celebrato nel ’98 i cinquanta anni dalla costituzione dello Stato di Israele, lei che ha combattuto da partigiano?
SHAMIR: Non abbiamo avuto tutto quello che volevamo. La situazione che viviamo non ci soddisfa, non ci soddisfano le posizioni che Israele ora ha. E questo è il motivo della mia opposizione a Netanyahu.
Ma cosa significava essere ebreo cinquant’anni fa e cosa vuol dire esserlo oggi?
SHAMIR: Non lo si può dire. Vi sono nelle classi sociali diverse opinioni, e noi siamo un Paese democratico.
Il ’98 è stato anche un anno di intenso dialogo religioso tra ebraismo e cattolicesimo. Cosa pensa del documento che il Vaticano ha prodotto sulla Shoah, tema caro a Giovanni Paolo II?
SHAMIR: Non lo conosco esattamente. So che il Papa ha un atteggiamento amichevole verso il popolo ebraico. Ma ciò non significa che non ci possano essere diversi punti di vista.
Taluni considerano questo Papa il più grande amico del popolo ebraico.
SHAMIR: Non direi esattamente così. Questo è il mio giudizio: la sua posizione è quella di un nostro amico, di uno che non si oppone all’esistenza del popolo ebraico. Tra i cristiani, lui è, possibilmente, uno dei più amichevoli.
Ma in oltre vent’anni di pontificato ha certamente avuto modo di esercitare un’influenza internazionale…
SHAMIR: È un grande uomo e, certo, gioca un grande ruolo nel mondo cristiano, non c’è dubbio. Ma non si può dire che il cento per cento degli ebrei accetti quanto il Papa dice sul mondo ebraico.
Mi scusi, ma lei appartiene al popolo ebraico?
Sono un cattolico con amici in Israele…
SHAMIR: …E ha un atteggiamento favorevole verso gli ebrei.
Sì.
SHAMIR: Ok, grazie. Ma io non posso chiedere a lei ciò che posso chiedere a un ebreo. Lei non pensa esattamente come me o come i miei amici. Ognuno ha la sua posizione.


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