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ISRAELE
tratto dal n. 02 - 1999

OPINIONI. Il momento di duro confronto tra i religiosi e i laici

Democrazia, non teocrazia


«I partiti religiosi sono sovrarappresentati. Hanno troppo denaro e il potere che deriva dal denaro. Noi non vogliamo qualcuno che controlli le nostre vite». Parla Lea Rabin


Intervista con Lea Rabin di Giovanni Cubeddu


Se le previsioni saranno rispettate, con tutta probabilità nella prossima Knesset siederà di nuovo Rabin. Ma sarà Dalia, la figlia dell’indimenticato premier israeliano ucciso da un fanatico ebreo il 4 novembre 1995, a riportare il nome del padre nelle stanze della politica a Gerusalemme, forte di una candidatura “blindata” nel nuovo partito di centro guidato dal sefardita Yitzhak Mordechai. Chi dice che dopo le elezioni sia già scritta un’alleanza del centro con i laburisti per estromettere Netanyahu, ha evidenziato questo immaginifico indizio. Ma c’è anche chi dice di attendersi sorprese dalle urne, come nel ’96. Il popolo laburista, ora guidato da Ehud Barak, ha comunque guardato in questi ultimi anni a Lea Rabin, moglie dello statista ucciso, come ad un simbolo, e tra i militanti non di rado qualcuno aveva pensato anche di contrapporre lei a “Bibi” Netanyahu: una donna laica contro un leader della destra sostenuto dai religiosi. Poi è arrivata Dalia.
In Israele la tensione elettorale è alta, anche per via dell’acceso confronto sui temi religiosi che accompagna e si mescola al dato politico. Il 14 febbraio a Gerusalemme si è tenuta una gigantesca manifestazione di 250mila haredim (ebrei religiosi), per rivendicare l’influenza dell’ortodossia ebraica nell’amministrazione civile. Separati dalla polizia, 50mila “secolari” rispondevano che Israele è una democrazia e non una teocrazia.
A Lea Rabin abbiamo chiesto giudizi e ricordi personali per descrivere il momento che Israele vive. L’approccio è “secolare”: «A livello di principio tutti noi ebrei onoriamo davvero la nostra fede, la nostra tradizione ed eredità» dice Rabin; «questo è uno Stato ebraico ed è strutturato secondo leggi ed eredità ebraiche, i giorni di festa sono quelli ebraici… viviamo di questo. Così a livello fondamentale. Poi, ciò che ognuno desidera fare dei suoi giorni di festa, delle prescrizioni alimentari ebraiche è affar suo: noi non vogliamo qualcuno che controlli le nostre vite».

Anche lei vede quotidianamente che per molti suoi concittadini l’ebraismo talvolta è motivo di divisione.
LEA RABIN: Sfortunatamente non c’è separazione tra Stato e religione in Israele. Ho detto sfortunatamente perché spero che un giorno ci si arrivi, visto anche cosa accade oggi, con un governo che ha regalato senza fine denaro ai partiti religiosi. Essi sono sovrarappresentati nel nostro Parlamento, hanno troppo denaro e il potere che deriva dal denaro, e stanno tentando di allargarsi in aree dove nessuno penserebbe avessero voluto vivere. Noi non interferiamo con la loro vita, nelle aree dove essi vivono. Lì sono benvenuti, comprese le restrizioni che si impongono. Ma non devono controllare le nostre vite e intromettervisi. Vorrei narrarvi un episodio.
Prego.
RABIN: Ero presente ad una cerimonia ufficiale di posa della prima pietra di una scuola dedicata alla memoria di mio marito. Non voglio ripetere cosa disse il rabbino officiante ma, personalmente, sono stata dura sul fatto che, in fondo, mio marito era stato ucciso da un religioso. E non era solo: c’era dietro costui un “grande muro” che lo sostenne. Tutto il clima di allora – e sfortunatamente c’è ancora oggi – favoriva una tale azione, c’erano decreti di rabbini sulla sua morte…
Gli haredim dicono che i laici condannano indistintamente il settore religioso della popolazione.
RABIN: Ma non è vero. Noi condanniamo quel più ampio settore responsabile di aver costruito questo clima di odio e di aver tentato di distruggere mio marito come leader: è stata una combinazione tra la leadership del Likud e i religiosi, che sono attualmente usati dal Likud per andare nelle strade a fare dimostrazioni, come amano sempre fare. Comunque, a quel rabbino – a cui mi rivolsi, simbolicamente, come parlassi a tutti i religiosi –, dissi: «A parte il fatto che lei mi chiede perché io vi condanno, ma voi avete mai chiesto scusa? Abbiamo mai udito una qualche specie di scuse, di rammarico, qualche parola come “ci dispiace”?».
Alla fine della cerimonia questo rabbino, mentre noi eravamo tutti in piedi a cantare l’inno nazionale, fece per andare via. Mentre noi cantavamo l’inno! Una cosa terribile vedere lui, che lì rappresentava l’autorità, andarsene davanti a tutti. È stato chiaro che il rabbino crede che nel momento di rendere onore all’inno nazionale dobbiamo invece leggere un capitolo dei Salmi.
La difficoltà del rapporto tra Stato moderno e giudaismo l’ha avuta di fronte sin dall’inizio Ben Gurion, e probabilmente ha rinviato la soluzione.
RABIN: Lo so, e con ciò ci ha reso davvero un cattivo servizio. Yitzhak mi diceva sempre che noi abbiamo avuto il nostro George Washington – ed è stato Ben Gurion – ma ci è mancato un Thomas Jefferson che stilasse la Costituzione. Per questo ad oggi non abbiamo una carta costituzionale, e non è accaduto per caso, ma per la difficoltà estrema che lo Stato ebraico ha di separarsi dalla religione. In fondo tutti sappiamo che è stata la fede a mantenerci un popolo unito in duemila anni. Non c’è nessun altro esempio uguale: per duemila anni il popolo ebraico ha vagabondato nel mondo, mai lasciando la speranza, mai dimenticando Gerusalemme, pregando nella sua direzione dicendo ogni anno la notte di Pasqua: «L’anno prossimo a Gerusalemme!». Gerusalemme è simbolo di vita, storia, eternità ebraiche, ne è eredità e fede. Perciò quando nel 1967 abbiamo avuto la grande chance di unificare Gerusalemme lo abbiamo fatto, e fu opera di Yitzhak Rabin: non potevamo farlo nel ’48, troppo deboli e con un esercito minuscolo.
Di Gerusalemme lei parlò anche nel suo incontro con il Papa.
RABIN: Dopo la morte di mio marito, con i miei figli fui invitata ed andai ad incontrarlo. Lui disse che Gerusalemme ha una doppia missione: è la capitale di Israele ed è la capitale delle tre fedi. Io non credo che ci possa essere una migliore o più accurata formulazione di cosa sia realmente Gerusalemme.
Ma lei sa che se non si risolve la questione di Gerusalemme, considerata anche dalla Santa Sede «illegalmente occupata», il processo di pace non potrà dirsi concluso. La Santa Sede desidera che i diritti di tutti i credenti siano «presi in considerazione» durante i negoziati finali del processo di pace.
RABIN: Io vedo esattamente una divisione tra il formale ruolo politico di Gerusalemme e il suo ruolo di capitale delle tre fedi monoteistiche. Perciò il negoziato per lo status finale di Gerusalemme sarà una decisione strettamente politica, senza il bisogno di ricordare che Israele, in quanto Stato che governa sulla Città Santa, rispetterà sempre i Luoghi che sono santi per cattolici, protestanti, musulmani ed ebrei. E non era questa la situazione tra il 1948 e il 1967, quando Gerusalemme era divisa e non ci era permesso entrarvi a pregare: i musulmani ci impedivano di arrivare al Muro del Pianto, di andare alla Tomba di Rachele in Hebron… Noi non ci stanchiamo di ripetere che sotto il nostro governo sarà sempre rispettato il fatto che i Luoghi Santi appartengono alle tre fedi e che sarà sempre permesso a ciascuno di andarvi nel modo che sente come proprio. Allo stesso tempo non divideremo mai Gerusalemme politicamente e non permetteremo lì nessun’altra autorità. Perciò non credo che il Vaticano abbia bisogno di essere parte dei negoziati, che sono già abbastanza difficoltosi adesso, e non necessitano ulteriori complicazioni che potrebbero originarsi dalla presenza vaticana. Ma sottolineo che sempre la Santa Sede sarà onorata, rispettata e le sarà dato accesso ai Luoghi Santi.
La speranza di pace nata con gli accordi di Oslo, che nell’immaginario mondiale portano il volto di Yitzhak Rabin, è sembrata rivitalizzarsi con la firma dell’Accordo di Wye River, per mano però di Netanyahu, da sempre contrario a dare terra in cambio di pace. Cosa ne pensa?
RABIN: Prima di ogni altra considerazione, in quell’accordo c’è un punto importante, cioè l’accettazione che noi ci ritireremo dal 13 per cento dei Territori occupati. Il resto è secondario, sono cioè le condizioni da soddisfare allorché avessimo firmato, condizioni che comunque sono ancora sulla carta e che bisogna provare quanto possano essere realizzabili. Già i palestinesi dubitano palesemente del nostro impegno. Dobbiamo accettare una nuova realtà… Che il sogno di una Grande Israele è finito. Dare la terra per avere la pace, questa è la sola strada.


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