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CROAZIA
tratto dal n. 02 - 1999

CHIESA. Intervista con l’arcivescovo emerito di Zagabria

«Era semplice aderire, quando era lui a chiedere»


Il cardinale Franjo Kuharic racconta sessant’anni di sacerdozio, tutti spesi nella sua Croazia. E poi ripercorre la dittatura di Pavelic, il regime comunista e la dissoluzione sanguinaria della Iugoslavia. Soprattutto racconta la vita di Alojzije Stepinac, beatificato alcuni mesi fa…


Intervista con il cardinale Franjo Kuharic di Stefano Maria Paci


«Perché ho scelto di diventare sacerdote? A un alto personaggio del partito comunista che un giorno mi chiese, riferendosi al fatto che ero vescovo e amministratore della diocesi di Zagabria: “Come mai lei, così giovane, ha già così tanti gradi?”, risposi: “Ogni vita è un mistero”. E c’è anche un mistero riguardante la vocazione, una scelta che non è assolutamente di questo mondo». Sorride, quasi scusandosi di non saper spiegare meglio il segreto della propria vita, il cardinale emerito di Zagabria Franjo Kuharic. La luce invade copiosa il suo studio nel palazzo arcivescovile, edificato accanto alla splendida Cattedrale medioevale che da una piccola collina domina la città. Ad aprile il “vecchio leone di Croazia” compirà ottanta anni, e di questo secolo che volge al termine ha conosciuto tutte le speranze e tutte le follie: seminarista durante la seconda guerra mondiale; sacerdote, vescovo e poi presidente della Conferenza episcopale sotto la dittatura comunista; cardinale durante la guerra che in questi anni ha di nuovo insanguinato l’ex Iugoslavia. Durante l’intervista si susseguono i ricordi dei decenni, ma è come se tutti fossero legati. «Un lungo filo d’oro» spiega «abbraccia tutto e tutto stringe: l’amore e la fedeltà al Signore e al segno di Dio nel mondo che è la Chiesa». Questa passione l’ha imparata, dice, incontrando l’arcivescovo Alojzije Stepinac, condannato da un tribunale comunista a 16 anni di lavori forzati e beatificato il 3 ottobre scorso. Mentre parla di Stepinac, spesso lo sguardo di Kuharic si volge verso la Cattedrale dove, in un’urna dietro l’altare maggiore davanti alla quale sostano quasi ininterrottamente fedeli in preghiera, è sepolto il suo corpo. «Se la Chiesa in Croazia è rimasta fedele» sussurra, quasi tra sé, «lo deve al cardinale Stepinac e ai tanti martiri che per essa hanno dato la vita. Sono i santi, i veri riformatori della Chiesa».

Eminenza, lei ha compiuto i suoi studi in seminario durante la guerra, dal 1939 fino al 1945. Che ricordi ha di quel periodo?
FRANJO KUHARIC: Ho vissuto quegli anni accanto all’arcivescovo di Zagabria Alojzije Stepinac. Ho conosciuto tutta la sua attività e ascoltato tutte le sue prediche. Qui in Croazia c’era un regime nazionalista, totalitario, guidato da Ante Pavelic, che aveva eliminato i partiti e aveva un forte risentimento verso i serbi. Poi ci sono stati i nazisti e i fascisti. Ho visto gli interventi dell’arcivescovo, praticamente quotidiani, per tutti i perseguitati dal regime e dalle forze di occupazione. In quegli anni ho sperimentato la profonda fede di monsignor Stepinac, e la sua convinzione che Dio protegge ogni essere umano, e che ogni essere umano deve essere protetto, avendo propri diritti e propria dignità. L’ho visto lottare per i diritti degli uomini perseguitati, sia che fossero serbi o croati, ebrei o zingari. Ho visto in lui una fede coraggiosa, che ha timore di Dio e non degli uomini. Il cardinale Stepinac mi ha dato esempi concreti di come si crede e di come si vive la fede.
Eppure recentemente, quando il cardinale Stepinac è stato innalzato alla gloria degli altari, sono scoppiate le polemiche. Stepinac è stato accusato, come già in passato, di aver collaborato con il regime fascista durante la guerra.
KUHARIC: È ridicolo. Di fronte a simili menzogne, a un tale stravolgimento della realtà, viene voglia di non replicare. Non molto tempo fa l’arcivescovo di Belgrado, monsignor Franc Perko, ha rilasciato un’intervista alla radio. Gli hanno posto una domanda su Stepinac. Lui, naturalmente, ha difeso la sua innocenza. È arrivata poi la telefonata di una donna: «Come può difenderlo? Io ho visto con i miei occhi come ammazzava i bambini serbi». Incredibile... E pensare che una volta, durante la guerra, il cardinale Stepinac ha salvato settemila bambini serbi.
Può raccontare quell’episodio?
KUHARIC: La Bosnia, il territorio in cui vivevano i serbi, all’epoca apparteneva allo Stato croato che fece un’offensiva, in cui vennero uccise migliaia di persone. Rimasero i bambini. Stepinac intervenne presso il governo di Pavelic chiedendo di consegnare a lui questi bambini, di non tenerli nei lager, dove sarebbero probabilmente morti. Dopo molte insistenze, lo Stato glieli concesse. L’arcivescovo ne affidò una parte a delle famiglie, per gli altri organizzò una casa di accoglienza affidata alle suore. E un certo numero di loro, i figli di quelli che per il governo erano il nemico, li ospitò nell’edificio accanto al palazzo arcivescovile, dove stiamo parlando adesso. Io vedevo il cardinale che portava dolci e caramelle, e si intratteneva a lungo con loro.
Che rapporto aveva Stepinac con il governo di Pavelic?
KUHARIC: Lui ha vissuto sotto il regime, ma non ha mai collaborato con esso, non ha mai appoggiato la dittatura. La sua “collaborazione” consisteva nell’intervenire contro i misfatti del regime proteggendo tutti i perseguitati, protestando sempre contro le violazioni dei diritti e della dignità della persona umana e del popolo. E tutti lo sapevano. Bastava ascoltare le sue prediche. «Affermiamo» disse il 25 ottobre del 1942 «che ogni popolo e ogni razza sulla terra ha diritto a un trattamento e ad una vita degni dell’uomo. Tutti, siano zingari o di altra razza, siano odiati ebrei o superbi ariani, hanno diritto di dire: “Padre nostro che sei nei cieli”. E se Dio dà questo diritto, quale autorità umana lo può negare? Per questo la Chiesa cattolica ha sempre condannato e condanna, anche oggi, ogni ingiustizia e violenza commesse in nome della classe, o della razza, o della nazione. Non si possono spazzare via gli zingari e gli ebrei perché considerati di razza inferiore. Se si accettassero con facilità i princìpi nazisti, che sono senza fondamento, ci sarebbe ancora qualche sicurezza per i popoli della terra?». E ancora, il 31 ottobre 1943: «La Chiesa cattolica non conosce razze di padroni e razze di schiavi. La Chiesa cattolica conosce solo razze create da Dio. La Chiesa non conosce differenze essenziali tra gli uomini: questa è la dottrina razziale della Chiesa cattolica».
In un rapporto al capo della polizia tedesca a Zagabria si legge: «L’arcivescovo Stepinac è conosciuto come un grande amico degli ebrei e li proteggerà con tutto il suo potere». Per questo la Gestapo aveva organizzato, come si è poi scoperto dai documenti, un attentato per ucciderlo. Stepinac protesse personalmente il rabbino capo di Zagabria, e con i suoi interventi salvò moltissimi ebrei. Il portavoce della Commissione americana ebrea, Louis Breier, disse: «Questo grande uomo di Chiesa è stato condannato come collaboratore dei nazisti. Noi ebrei protestiamo contro questa calunnia. Fu uno di quei rari uomini dell’Europa che si sono levati contro la tirannia nazista, quando ciò era pericoloso». E anche moltissimi serbi, compresi alcuni vescovi, si salvarono grazie al suo intervento. Confida Stepinac in una lettera: «Posso tranquillamente dire che non c’era giorno in cui non ho fatto un intervento sia per i serbi sia per gli ebrei sia per le persone che ci stanno vicine o quelle del nostro popolo». Protestò anche, e fieramente, contro i lager in cui venivano rinchiusi i serbi, gli ebrei, i croati, gli zingari, i comunisti, ecc. Scrisse a Pavelic il 24 febbraio 1942 per denunciare i misfatti che gli ustascia, i suoi fanatici seguaci, compivano nel lager di Jasenovac: «Questa è una macchia vergognosa e un delitto che grida vendetta contro il cielo, come del resto tutto il campo di Jasenovac è una vergogna per la Croazia. Tutta l’opinione pubblica, e specialmente i parenti delle vittime, chiedono riparazione e che si traducano davanti al tribunale gli assassini, i quali sono la maggior sventura della Croazia». Nessun vescovo né alcun uomo politico in quegli anni ebbe il coraggio di esprimersi così. Il capo militare dei tedeschi a Zagabria, il generale Edmond Glaise von Horstenau, disse: «Se in Germania un vescovo parlasse in questo modo, non scenderebbe vivo dal pulpito».
Da dove nascono, allora, queste astiose accuse nei confronti di Stepinac?
KUHARIC: Sono frutto della campagna di denigrazione compiuta dal regime comunista, che prese il potere in Iugoslavia subito dopo la guerra. Attaccando il cardinale si cercava di distruggere la Chiesa. Nella mia mente è rimasto impresso il giorno in cui i comunisti presero il potere.
Che giorno era?
KUHARIC: L’8 maggio del 1945. Io ero nel seminario. I comunisti sono entrati nella piazza centrale di Zagabria, che era vuota. Non c’era nessuno, nemmeno una persona, ad aspettarli. La gente conosceva i loro metodi di governo, applicati nelle altre nazioni dell’Est. Ed era terrorizzata. La Croazia era contraria all’occupazione comunista, e loro hanno subito voluto mostrare chi comandava. Hanno raccolto tutti i feriti negli ospedali di Zagabria, e li hanno condotti in una fossa. Lì, li hanno massacrati. Proprio come è stato fatto recentemente a Vukovar.
Ricorda anche cosa pensò, quel giorno?
KUHARIC: C’era una vera psicosi, nel Paese: fuggire in Occidente. Anche in seminario si diceva: «Scappiamo, non possiamo aspettare che arrivino i comunisti». Ma l’arcivescovo Stepinac ci disse: «Io rimango. Chi vuole andare, lo fa sotto la propria responsabilità». Una trentina di seminaristi partì. Io, con molti altri, sono rimasto. Ricordo che mi dicevo: «Cosa sarà di noi, non si sa, ma siamo qui, dove ci è chiesto di stare». Ricordo anche il primo partigiano che si è presentato quel giorno alla porta del seminario. Voleva che gli consegnassimo delle armi che, naturalmente, non avevamo. Poi, iniziò la persecuzione.
Lei se l’aspettava?
KUHARIC: Non si poteva prevedere tutto. Avevo timore di una persecuzione, ma certo non così feroce. Mi aspettavo, con la fine della guerra, la libertà.
Dopo quanto tempo monsignor Stepinac venne arrestato?
KUHARIC: Immediatamente. I comunisti erano arrivati da meno di dieci giorni, e il 17 maggio 1945 il cardinale venne messo in carcere. Ci è rimasto tre settimane. Poi Tito è arrivato a Zagabria. E ha convocato i vescovi ausiliari. Ha mostrato di avere buone intenzioni verso i cattolici, ma ha subito lanciato l’idea di una Chiesa nazionale. I vescovi hanno risposto: «Non possiamo fare nessuna trattativa senza l’arcivescovo». Così Stepinac venne liberato. E il 4 giugno 1945 incontrò Tito. Anni dopo lessi nel breve verbale che venne steso di quell’incontro che l’arcivescovo gli aveva chiesto di terminare le violenze e le vendette. Tito rispose: «Tutto sarà ordinato. Soltanto, la Chiesa deve collaborare». E gli propose di aiutarlo nella riunione dei popoli slavi. Stepinac rispose: «Voi adesso siete il governo. Legittimo. Noi l’accettiamo. Accettiamo la realtà dello Stato iugoslavo. Ma la Chiesa cattolica ha il suo cuore a Roma. Lì c’è il Papa. La trattativa il governo deve farla con la Santa Sede, che ha l’autorità di trattare la cosa». E la Chiesa fu assolutamente compatta con il suo arcivescovo. Il popolo già lo riteneva santo. E, più tardi, martire.
Lei venne ordinato sacerdote un mese dopo quell’incontro tra Stepinac e Tito, il 15 luglio 1945. Era da poco terminata la guerra, e c’erano le prime avvisaglie di una persecuzione cruenta. Cosa voleva dire diventare sacerdote allora?
KUHARIC: In quel periodo sembrava iniziare un nuovo mondo nella storia, e occorreva avere un profondo motivo per farsi prete. Venni ordinato da monsignor Stepinac. Dopo l’ordinazione, sono andato a pranzo con lui assieme agli altri novelli sacerdoti. Durante il pranzo, l’arcivescovo ci ha guardato con forza e tenerezza e ci ha detto: «Vi mando in un bagno di sangue». Noi eravamo consci che era la verità. Ed eravamo preparati. Confidavamo non nella nostra forza, ma in quella dello Spirito Santo. Il nostro padre spirituale ci aveva detto: «Se celebrate una messa, sarà già compiuto il mistero del vostro sacerdozio. Perché non si sa se potrete celebrarne una seconda». Centinaia di sacerdoti sono stati in prigione, condannati con accuse assolutamente false e, a volte, senza nessuna accusa. Sono rimasti anni e anni in carcere senza processo. Non si aveva una visione chiara del futuro. Siamo improvvisamente entrati nel buio di una dittatura e nella persecuzione. In quel periodo non si poteva accettare il sacerdozio superficialmente.
E dopo l’ordinazione, dove venne inviato?
KUHARIC: Sono stato nominato cappellano in una provincia croata. Poi, nell’agosto 1946, monsignor Stepinac mi ha chiamato e mi ha detto: «Voglio mandarla in una parrocchia di recente creazione. Non c’è niente, ma ci sono i fedeli. Sappia però che la sua vita correrà pericolo: è una piccola Stalingrado». Ho subito accettato. Non ho pensato nemmeno un momento di non accettare una cosa che lui voleva. Era così semplice aderire, quando era lui a chiedere. Sono arrivato il 1 settembre 1946 nella parrocchia del Sacro Cuore a Rakov Potok. Il mio vicino, il parroco di San Martino sotto Okic, mi è venuto a trovare. Io gli ho promesso di visitarlo la settimana dopo. Ma alla vigilia del mio arrivo, lui venne ucciso davanti alla sua casa parrocchiale. Gli hanno sparato davanti a molti testimoni.
Da chi venne ucciso?
KUHARIC: Dai comunisti. La motivazione? «Pulire il territorio dai sacerdoti». Non c’era un’accusa precisa: era un sacerdote, e ciò era sufficiente per eliminarlo. In quegli anni nessun sacerdote e nessun vescovo è stato sicuro per la sua vita. Senza processi erano stati uccisi due vescovi: il vescovo emerito di Dubrovnik, Josip Marija Carevic, ucciso dai comunisti durante la guerra, e il vescovo cattolico di rito greco Janko Simrak, che appena terminata la guerra venne incarcerato dai comunisti e fu torturato in prigione fino alla morte. E non va dimenticato il caso del vescovo di Mostar, monsignor Petar Cule, che venne condannato innocente e che scontò nove anni di dura prigionia. Il vescovo di Banja Luka, monsignor Celik, fu percosso dai comunisti riportando gravi conseguenze per la sua salute. Durante e dopo la guerra vennero uccisi, senza processo, oltre 400 sacerdoti e religiosi e anche alcune religiose. Il caso del vescovo di Lubiana, monsignor Vovk, illustra il clima in cui si viveva: gli venne versata addosso benzina, e poi gli fu dato fuoco. Il vescovo si salvò, ma certo non senza conseguenze.
Anche lei subì minacce?
KUHARIC: Dopo l’assassinio del parroco di San Martino, mi venne affidata anche la sua parrocchia. Cinque mesi dopo, il 22 febbraio del 1947, fu organizzato un attentato contro di me. Volevano uccidermi. Era sabato notte, e due persone armate sono arrivate a casa mia e hanno chiesto al padrone di casa dove ero. Lui ha risposto di non saperlo. Mi salvai perché ero andato nell’altra parrocchia. Abitualmente ci andavo la domenica mattina e tornavo subito indietro. Quella volta c’era la neve, la strada era brutta, sono partito il sabato sera e ho dormito lì. Tornando, venni avvisato di non entrare in paese. E seppi tutto: chi erano le persone che avevano cercato di uccidermi, e che in realtà era stata la stessa polizia, che adesso fingeva di indagare sugli attentatori, a dar loro le armi. L’arcivescovo Stepinac a quel tempo era stato rimesso in prigione.
Con quali accuse?
KUHARIC: Di aver collaborato con il regime degli ustascia, di aver perseguitato ebrei e serbi. Un processo assurdo. E pensare che durante la guerra i partigiani comunisti diffondevano le sue prediche come fossero una propaganda in favore della loro lotta. «Lui attacca i crimini di Pavelic, dei nazisti, degli ustascia» dicevano alla radio e nei loro volantini, «cittadini, ascoltatelo». In una parrocchia della Slavonia avevano condannato un sacerdote a morte perché, dissero, «non seguiva il suo arcivescovo Stepinac, schierato contro il regime degli ustascia». Ma in realtà l’arcivescovo ha parlato dal pulpito condannando i crimini di ognuno: quelli degli ustascia come quelli dei nazisti e poi dei comunisti. Il 20 settembre 1945 tutti i vescovi della Iugoslavia scrissero una lettera pastorale in cui denunciavano la persecuzione in atto. Senza processo erano stati uccisi due vescovi, 400 sacerdoti e religiosi, vietato il catechismo e depredati i beni ecclesiastici. Ma ribellarsi era considerata una grande colpa. Il comunismo non poteva tollerare una voce contraria. E così, fatti mai pensati e mai pensabili vennero imputati all’arcivescovo. Ricordo di aver letto su un giornale: «Stepinac ama il colore azzurro, e amava gli occhi azzurri dei serbi. Per fargli piacere, i suoi servitori portavano in un cestino gli occhi tolti dalle orbite dei serbi e li mettevano sulla tavola». In tutte le occasioni, in tutti i discorsi di tutte le scuole e dell’esercito, Stepinac veniva presentato come criminale.
L’arcivescovo Stepinac venne poi condannato a 16 anni di lavori forzati.
KUHARIC: Sì. Volevano condannarlo a morte. Facevano pressione nelle fabbriche e nelle scuole perché la gente firmasse una petizione chiedendo la pena di morte, ma fallirono. Così, lo torturarono lentamente, e il 5 dicembre 1951 fu trasferito nella canonica della sua città natale per scontarvi il resto della pena. Secondo le testimonianze, i veleni e le irradiazioni a cui lo sottoposero in carcere gli provocarono la malattia che fu causa della sua morte. Ma in realtà il vero motivo della condanna era il suo fermo rifiuto di creare una Chiesa indipendente, separata da Roma. Ivan Mestrovic, un celebre scultore croato, in un suo libro rivela che un giorno Milovan Gilas, allora numero due del regime di Tito, gli disse: «Non abbiamo nulla contro Stepinac, ma non possiamo sopportare il suo attaccamento al Papa di Roma. Per dirle onestamente la verità, e non sono solo io a pensarlo, Stepinac è stato condannato innocente». E un importante ufficiale del regime comunista ammise che se soltanto il cardinale avesse rinunciato alla sua fedeltà a Roma, «essi lo avrebbero portato alle stelle».
Eminenza, lei è stato per molti anni presidente della Conferenza episcopale iugoslava…
KUHARIC: Sì, per 27 anni, dal 1970 al 1997, sono stato presidente della Conferenza episcopale iugoslava, poi, dopo la liberazione, lo sono diventato di quella croata.
Come ha giudicato le prime aperture del Vaticano verso i Paesi comunisti?
KUHARIC: Noi siamo stati comprensivi, non senza fare alcune osservazioni, verso l’Ostpolitik vaticana. Abbiamo sempre rispettato la politica della Santa Sede, credendo che la portasse avanti per il bene alla Chiesa. Se la Santa Sede entrava in rapporto con i regimi comunisti, era per aiutarci. Certo, anche qui qualcuno ha pensato che era troppo presto stabilire rapporti diplomatici con il regime mentre la Chiesa croata era perseguitata: così non si ponevano condizioni. Ma quando Pio XII, il 12 gennaio 1953, ha nominato cardinale monsignor Stepinac, il governo ha rotto i rapporti diplomatici con la Santa Sede. Nel 1966, dopo il Concilio, Santa Sede e governo hanno firmato un protocollo d’accordo. Alcuni l’hanno criticato, ma noi abbiamo accettato il protocollo e ci siamo sempre difesi con esso. Ogni volta lo mettevamo davanti alle autorità e dicevamo: «Ma come, questi abusi contraddicono quanto voi stessi avete firmato». E loro non sapevano come rispondere. E poi, con il fatto che la Santa Sede aveva un pro-nunzio a Belgrado, noi potevamo riferirgli ogni violazione dei diritti.
Ha mai incontrato il generale Tito?
KUHARIC: Solo due volte, in occasione di ricevimenti. La prima volta è stato nel 1966, ma ci siamo soltanto salutati. Il secondo incontro è stato più interessante. È avvenuto nel 1969, si festeggiavano i 300 anni dell’Università. Io ero diventato amministratore apostolico di Zagabria perché l’arcivescovo Franjo Seper era stato chiamato a Roma come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Quando sono arrivato, mi hanno introdotto nel salotto dove era Tito, sua moglie, Jovanka, lo scienziato tedesco Heisenberg, il presidente del Comitato centrale e il presidente del Parlamento. Quest’ultimo era stato l’accusatore del cardinale Stepinac durante il processo. Il suo nome era Jakov Blazevic. «Prenda posto tra noi», mi hanno detto. Più tardi, durante la cena, avevo Tito alla mia sinistra e Jovanka alla mia destra. Alla destra della moglie di Tito, c’era Blazevic. Costui ha iniziato subito a parlare con me dei retroscena che secondo lui avevano portato alla nomina di Stepinac ad arcivescovo di Zagabria. Io ho replicato: «È stato nominato arcivescovo perché era un buon sacerdote, onesto, bravo, e faceva onestamente il proprio ministero». L’accusatore rispose: «Non così bravo: ha appoggiato il regime di Pavelic». «No,» ho replicato «credeva nella libertà del popolo croato, ma non ha mai appoggiato il governo e i suoi misfatti». E l’accusatore: «A Norimberga i nazisti sono stati condannati, e lì non siamo stati noi partigiani a giudicare». Risposi: «Non stiamo parlando del processo di Norimberga, ma di quello all’arcivescovo Stepinac: e lui fu condannato innocente». Tito, intanto, parlava con lo scienziato Heisenberg, alla sua sinistra, ma era attentissimo a quello che dicevamo. A un certo punto, ironicamente, si è rivolto a noi: «Che tipo di discussioni teologiche state facendo?». Ma aveva capito perfettamente di cosa stavamo parlando. Quel giorno ho avuto l’occasione, davanti a Tito e all’accusatore del cardinale Stepinac, di affermare che era stato condannato un uomo innocente.
Poi, l’impero comunista nel mondo iniziò a dissolversi. Ma in Iugoslavia, la speranza lasciò ben presto il posto all’angoscia. Nel suo Paese scoppiarono nuovi, terribili conflitti. Perché accadde?
KUHARIC: Quando cominciò il processo della liberazione ad Est, il processo di democratizzazione arrivò in Iugoslavia. Che era un’unità forzata, l’unione di Paesi con diverse culture, lingue e tradizioni. Un’unione nata dal progetto, esposto dal ministro degli Interni di Belgrado, Garasanin, nel 1948, di creare nei Balcani uno Stato dei popoli sotto la guida del popolo serbo. Tito si era innestato in questo progetto, creando sei Repubbliche e due province, con autonomia assai limitata. Dopo il crollo del muro, i Comitati centrali dei Partiti comunisti croato e sloveno si sono opposti per primi al centralismo di Belgrado. Gli sloveni si sono ritirati dall’unione protestando contro l’egemonia e contro lo sfruttamento economico della Repubblica. La Costituzione del 1974 permetteva a ogni Repubblica di staccarsi: l’unione, era scritto, era volontaria.
In Serbia c’era un’ala comunista più liberale che voleva fare una riforma, accettando le richieste delle Repubbliche.Ma Milosevic prese il potere, eliminò questi comunisti liberali e soppresse la Costituzione. Negò l’autonomia al Kosovo e agli altri Paesi che, conformemente alla Costituzione, la reclamavano. Cominciò così una lotta armata per difendere gli interessi dei serbi minacciati dovunque. Venne armata la minoranza serba in Croazia, istigandola all’odio. L’introduzione alla guerra iniziò con il terrorismo dei serbi, che misero barricate sulle strade e sulle ferrovie, e con l’uccisione individuale di croati. La vera guerra iniziò poi quando a Borovo Selvo, vicino a Vukovar, il governo croato mandò dodici poliziotti per sedare una rivolta, e vennero tutti massacrati. L’esercito iugoslavo a quel punto non era già più l’esercito dei popoli dei differenti Paesi dell’unione, ma si era trasformato in un esercito serbo, perché gli altri si erano ritirati. Il popolo croato non aveva armi, ma ha resistito. I serbi non si aspettavano tale resistenza. Da noi la guerra è durata quattro anni. Quattro terribili anni.
Ritiene che questa guerra fosse necessaria?
KUHARIC: Non si può negare a nessuno ingiustamente attaccato il diritto di difendersi.
Voglio dire, non c’erano possibilità di mediazione?
KUHARIC: Ci si è provato tante volte. I presidenti si sono incontrati a più riprese, ma le proposte ragionevoli e praticabili sono state tutte rifiutate. In Croazia durante la guerra anche la Chiesa ha preso iniziative in favore della pace. I sacerdoti in ogni messa ripetevano invocazioni per la pace. Io stesso più volte ho ripetuto che se l’avversario distrugge la mia casa io proteggerò la sua, se distrugge la mia chiesa io proteggerò la sua, se uccide mio padre io proteggerò la vita di suo padre. Ho ripetuto che il patriottismo non è nazionalismo, non è sciovinismo, non è razzismo. Ciò che io voglio per il popolo croato lo voglio anche per il popolo serbo. Le stesse cose: la pace, la libertà. E quattro volte abbiamo organizzato incontri ecumenici al più alto livello: vi hanno partecipato il patriarca serbo monsignor Pavle con alcuni vescovi ortodossi ed io, come presidente della Conferenza episcopale, con alcuni vescovi croati cattolici. Ogni volta abbiamo pubblicato dichiarazioni in favore della pace, contro le violenze e la “pulizia etnica”, ma non si è ottenuto nessun successo: l’idea della Grande Serbia, secondo il programma politico, doveva essere realizzata. Ci sono stati anche molti incontri ecumenici a livello più basso. No, questa guerra non è stata una guerra di religione: i motivi sono stati politici, espansionistici.
Anche la resistenza croata, però, si è macchiata di atrocità.
KUHARIC: Certo, non sono tutti santi. E se non fosse esistita una iniziativa dei vescovi croati contro le vendette e contro l’odio forse sarebbe stato peggio. Sì, alcuni si sono comportati da criminali, e il desiderio di vendicarsi non giustifica nulla. Ma questo non basta per considerare uguali l’aggressore e la vittima. Nella difesa le violazioni dei princìpi etici non sono diventate un sistema, ma sono stati atti individuali, anche se criminali e assai numerosi. Invece, la dottrina di guerra dell’aggressore era “fare terra bruciata”. Così sono state bruciate le chiese, le case, gli ospedali, le scuole, ecc.
Spesso al Vaticano è stato rimproverato di aver riconosciuto la Croazia prima della comunità internazionale, e prima che i confini fossero attestati. E di aver così innescato lo scoppio del conflitto. Perché Roma fece quel riconoscimento?
KUHARIC: Il Papa era stato ben informato della situazione. La storia della Croazia è quasi uguale a quella della sua Polonia, più volte spartita tra le potenze dell’Ovest e quelle dell’Est. La quarta volta fu divisa sotto gli occhi indifferenti dell’Occidente tra Unione Sovietica e Germania nazista. Giovanni Paolo II ha visto che in Croazia c’era una aggressione ingiusta contro la libertà, contro i diritti dell’uomo e dei popoli.
Quindi fu papa Wojtyla personalmente a spingere per il riconoscimento. Quel riconoscimento ebbe davvero un ruolo nello scoppio del conflitto?
KUHARIC: So che tutti gli ambasciatori delle potenze occidentali, compresa la Russia, vennero invitati in Vaticano. A loro il segretario di Stato, il cardinale Angelo Sodano – come scrive nel libro Story of one ambassador l’allora ambasciatore americano presso la Santa Sede Dellady – espresse l’intenzione della Santa Sede di riconoscere come Stati indipendenti la Slovenia e la Croazia. Tutti rifiutarono, tutti. Anche il presidente americano George Bush, durante la sua visita al Papa, si disse contrario al riconoscimento. Ma la Santa Sede, giustamente, ha insistito, approvando il diritto dei popoli all’autodeterminazione e alla libertà. Inutilmente. Allora la Santa Sede ha detto: «Noi le riconosciamo», e l’ha fatto. Quel riconoscimento giocò un ruolo nel conflitto? Il riconoscimento avrebbe dovuto essere fatto prima. Se le potenze occidentali lo avessero fatto subito, la guerra già iniziata sarebbe stata abbreviata: si sarebbero risparmiate tante rovine e tante vittime. L’America e l’Europa invece sono state a guardare, aspettando di scoprire chi era più forte tra i contendenti. Sarajevo e Vukovar sono una accusa per la coscienza dell’Occidente. Vukovar è stata distrutta come Hiroshima. Dopo l’occupazione dei serbi sono spariti tremila uomini. Duecento e più feriti ricoverati in ospedale sono stati uccisi. E quando portavano i feriti fuori dall’ospedale erano presenti gli osservatori europei. Io sono stato a Sarajevo sotto le granate: nel 1992, quando fu consacrato il vescovo ausiliario. La città era circondata da tutte le parti dai serbi. Seicento cannoni erano disposti per bombardare quando volevano una città di quattrocentomila abitanti. Gli aiuti umanitari stentavano ad arrivare. Sarajevo era un campo di concentramento senza pane, senza acqua, senza gas, senza corrente.
Adesso nel territorio della ex Iugoslavia ci sono varie Repubbliche con religioni nazionali. Ritiene che sia un bene o un male l’identificazione di una nazione con la religione professata dai suoi abitanti?
KUHARIC: Non si può identificare la religione e la nazione. I croati possono appartenere a ogni religione e non devono essere tutti cattolici. Certo, nella realtà attuale la maggioranza dei croati è cattolica, ma molti non lo sono. E il governo attuale non è certo cattolico: è laico. Per esempio, nel nostro Parlamento, dopo sette anni di indipendenza, non si è ancora toccata la legge sull’aborto, introdotta dai comunisti.
La guerra ha comportato morti, distruzioni, atrocità. Adesso, guardando indietro, non si chiede se valeva la pena cercare l’indipendenza?
KUHARIC: Nessun popolo in Europa, tanto per fare un esempio, rinuncerebbe alla propria difesa, se fosse ingiustamente attaccato da un aggressore: non ci si può liberare senza pagare un prezzo. Per la libertà si può rischiare la vita. Un africano, ricordando il colonialismo, ha detto: «Meglio essere libero avendo fame, che essere saziato da schiavo». Noi che abbiamo vissuto senza libertà per tanto tempo sappiamo apprezzarla. La libertà basata sulla giustizia è un diritto e ha un prezzo.
Quindi anche tutte queste morti e distruzioni valevano la pena?
KUHARIC: Sì. È stata pagata la libertà. Il popolo aveva eletto il Parlamento, aveva affidato il governo del Paese a chi aveva messo nel suo programma l’indipendenza e la libertà. Dall’esterno, perché più forti, hanno cercato di impedire con la guerra questo processo democratico. Come non c’è differenza nella dignità delle persone, così non deve esserci differenza nella dignità dei popoli. Perché l’americano può essere libero e il croato no?
Lei tra pochi mesi compirà ottanta anni e di questo secolo ha vissuto sia le speranze che le inquietudini passando attraverso guerre e conflitti. Che destino pensa attenda la Chiesa, all’ingresso nel terzo millennio?
KUHARIC: Io sono un realista cristiano. Non sono un ottimista utopico, ma mi sembra strano un pessimismo privo di speranza. In ogni situazione storica c’è speranza per la Chiesa, perché Gesù Cristo, con il suo Spirito Santo, è sempre presente nel pellegrinaggio terrestre della Chiesa. Ma non ci sarà il paradiso sulla terra nel terzo millennio. La vita della Chiesa passa attraverso le persecuzioni del mondo, come ha ricordato il Concilio ecumenico Vaticano II. E i martiri sono nella storia i primi testimoni di questa prova. Fino alla fine dei tempi, fino alla Parusia, sarà sempre così. La Chiesa deve vivere la sua fedeltà a Gesù Cristo. Non ci si illuda, Cristo ha detto alla sua Chiesa: «Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi». Quindi la Chiesa è sempre in pericolo. Dentro e fuori. Ma sono più pericolose le sofferenze che provengono da dentro la Chiesa che quelle che provengono dal di fuori.
«I pericoli per la Chiesa vengono innanzitutto dal di dentro». Si riferisce a qualcosa di particolare?
KUHARIC: Ho partecipato a due sessioni del Concilio Vaticano II come giovane vescovo. Leggendo i testi del Concilio, avevo previsto una grande riforma della Chiesa. Tutti i testi mostravano una profonda visione del cattolicesimo. Mi aspettavo una riforma morale e spirituale della Chiesa nel mondo contemporaneo, una sua rinascita. E invece, cosa è accaduto? Che migliaia di sacerdoti e religiosi hanno abbandonato la loro condizione. Perché? Hanno risposto: per il Concilio. Ma di quale Concilio parlavano? Il Concilio Vaticano II è stato falsificato da molti, anche se, quando autenticamente interpretato, ha iniziato un rinnovamento autentico della Chiesa. Tanti non leggevano i testi del Concilio ma si appellavano genericamente allo spirito del Concilio volendo presentare un’altra visione della Chiesa. Ma, ancora una volta: quale Chiesa? La Chiesa è quella voluta da Gesù Cristo. Adeguare la Chiesa al mondo vuol dire distruggerla.
Così, quando vedo l’attenzione e il rispetto di cui oggi è circondata la Chiesa, come vengono ascoltati e ricercati i vescovi dai mass media, come ogni nomina venga considerata dai giornali e telegiornali, mi viene da paragonare il nostro tempo al periodo postconciliare. Vede, quando venni nominato vescovo io, le autorità vennero avvertite due ore prima. Precedentemente, quando nel 1954 venne nominato vescovo il mio predecessore, non lo sapeva nessuno. Questa era la situazione nei Paesi comunisti. Ma oggi nei Paesi dell’Occidente si registrano contestazioni alla dottrina espressa dal Papa e dai vescovi. Anche le nomine dei vescovi vengono contestate da certi gruppi nella Chiesa. Oggi in televisione i vescovi vengono contesi, vengono ascoltati. Ma, in realtà, oggi i tempi sono più confusi di allora. Allora era chiaro cosa fosse la fede. Oggi le coscienze sono offuscate. L’ateismo delle coscienze è molto più pericoloso dell’ateismo di Stato.
E può penetrare anche nella Chiesa?
KUHARIC: Sì, in tanti casi è già penetrato.
Eminenza, mi permetta un’ultima domanda. Come vive il suo rapporto con Dio un cardinale, investito di così alta responsabilità davanti alla Chiesa e al mondo?
KUHARIC: Sono stato 19 anni sacerdote, 35 anni vescovo, di cui 5 vescovo ausiliare, un anno amministratore apostolico e 27 anni arcivescovo di Zagabria, 16 anni cardinale. Dall’inizio ho sentito questa vocazione come una grande responsabilità. Come esercitarla davanti a Dio, davanti alla Chiesa, davanti alla storia? E ora mi chiedo sempre: quando sarò davanti al Signore, cosa mi chiederà? Ma poi mi ricordo che, nonostante le mie tante omissioni, ho sempre predicato la misericordia di Dio. Perciò, quel giorno incontrerò non solo la Giustizia, ma anche l’Amore. Aspetto quel giorno con timore e tremore, sì... ma anche con speranza. Il Signore sarebbe offeso se perdessi la fiducia in Lui. Certo, ho vissuto tempi molto difficili. Ma sono stato sempre felice nel mio sacerdozio, nonostante le difficoltà. E quando si compie il ministero con gioia, la gente se ne accorge. E segue. Ricordo gli incontri dei sacerdoti durante gli anni della persecuzione. C’era letizia, ed eravamo uniti. Forse più di adesso. La persecuzione esigeva una vita convinta, autentica, cristiana e sacerdotale. La democrazia e la libertà sono non meno esigenti. La Chiesa può cambiare il mondo solo restando fervida, unita, santa, e convertita in ogni suo membro. La Chiesa salva gli uomini sacrificandosi e pregando, più che discutendo.


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