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RICORDI GIOVANILI
tratto dal n. 05 - 2007

La provincia semplice


Non nascondo che, non solo per motivi anagrafici, ricordo con tanta nostalgia i miei soggiorni segnini


di Giulio Andreotti


Una panoramica della città di Segni

Una panoramica della città di Segni

C’è (o almeno c’era) nel linguaggio della piccola città dei miei genitori (Segni) un’espressione molto significativa: «Parla come ti ha fatto tua madre».
All’origine si ravvisava certamente la salvaguardia dalle diversità che si riscontra con i villeggianti. Ad alimentare e salvaguardare questa autarchia vi era anche un sostegno ideologico (un professore nel locale seminario sottolineava, ad esempio, le radici latine del loro dialetto. Faceva derivare dal latino puer la denominazione locale di uttaro, fanciullo).
Comunque l’insegnamento scolastico dell’italiano era dato secondo i giusti canoni, e gli alfabetizzati scrivevano in una lingua ineccepibile. Poiché il seminario era l’unica scuola postelementare esistente in loco (l’alternativa era a Velletri, ma senza possibilità, allora, di pendolarismo quotidiano) qualche elemento di latino finivano col comprenderlo tutti.
Secondo gli schemi vigenti veniva dedicata un’ora settimanale alle lingue estere, che concretamente era solo il francese, del resto allora dominante. Un testo scolastico in uso riportava il carteggio tra Pio IX e Carlo Alberto: il sovrano scriveva da Torino in francese; e il Papa rispondeva in italiano.
Insegnante di francese in seminario era un sacerdote che era stato borsista in Roma nel Collegio di Santa Chiara (istituzione nella quale le diocesi della Francia mandano a studiare selezionati giovani seminaristi. Vi è stata sempre una piccola presenza di ospiti italiani; nell’elenco cronistorico il più famoso è il futuro cardinale Giovanni Benelli).
Per incoraggiare nell’impegno allo studio della lingua estera venivano ripetuti spesso ammonimenti. Tuttavia il rettore ripeteva che più importante della lingua che si parla è il sapere bene quello che si deve dire.
Non destava reazioni di sorta l’affermazione che se non fosse così (primato dei concetti sulle espressioni) le persone più colte sarebbero i portieri degli alberghi.
Una volta l’anno a salutare insegnanti e alunni si recava il sindaco, che dopo la Marcia su Roma fu denominato podestà e andava abbigliato in color nero simile a quello dei sacerdoti. Era la famosa stoffa “orbace” di cui i produttori sardi rimpiangono la diffusione.
Il rettore indirizzava al primo cittadino un saluto citando sempre – non senza malizia – l’obbligo di obbedire a chi ci governa, anche se è “discolo”.
Nel giorno della festa patronale (18 luglio, san Bruno vescovo di Segni e abate di Montecassino) prendevano parte alla processione sacerdoti oriundi che appartenevano a varie congregazioni religiose. Numerosi erano i francescani conventuali; lo si doveva alla popolarità che aveva avuto agli inizi del Novecento il segnino padre Caratelli, divenuto preposito generale dell’ordine stesso.
Giulio Andreotti con due giovani seminaristi poi divenuti cardinali: Vincenzo Fagiolo (a sinistra) e Angelo Felici (a destra), presso Porta Saracena, a Segni, in una foto degli anni Trenta

Giulio Andreotti con due giovani seminaristi poi divenuti cardinali: Vincenzo Fagiolo (a sinistra) e Angelo Felici (a destra), presso Porta Saracena, a Segni, in una foto degli anni Trenta

All’appuntamento di luglio erano fedelissimi anche due sacerdoti che avevano fatto per così dire carriera ecclesiastica in Roma: uno, Silvio Fagiolo, nella Congregazione del Concilio, e un altro Bruno Fagiolo, ai Sacramenti.
Al vecchio ordinamento dello Stato Pontificio si doveva l’esistenza nell’Italia centrale di diocesi molto piccole. Alle riunioni collegiali in Roma erano infatti precettati tutti i vescovi distanti dalla Città eterna meno di quarantott’ore di carrozza. La formula è la stessa ancora oggi, sorprendendo i lettori non informati.
Il vescovo era il personaggio dominante, anche nei vicini comuni sui quali aveva giurisdizione ecclesiastica. Nella gerarchia dell’importanza seguivano il pretore e il maresciallo dei carabinieri.
Il mio ricordo personale parte da un anziano vescovo, monsignor Sinibaldi, circondato più da rispetto che da popolarità. Nelle liturgie solenni pronunciava omelie molto (anzi troppo) lunghe e, non usandosi allora i microfoni, solo le prime file dei fedeli riuscivano ad afferrare qualche concetto.
Brillantissimo fu invece il vescovo Alfonso Maria De Sanctis, già parroco in Roma, oratore brillantissimo e presidente dei Congressi eucaristici nazionali. Quando fu trasferito a Todi, tutti furono addolorati, anche quelli che criticavano le sue andate settimanali, o quasi, a Roma (facendosi in treno il percorso dalla stazione, il clero lo chiamò, con una citazione biblica, pes meus stetit in directo).
Successivamente, in un’ottica restrittiva dei vescovi italiani, la diocesi di Segni è stata abbinata a quella suburbicaria di Velletri. Non senza spirito la lineetta Velletri-Segni è letta come Velletri meno Segni.
La residenza vescovile – che un cittadino illustre, il professor Pericle Roseo, a suo tempo fece restaurare in modo molto degno – non è, quindi, più abitata a tempo pieno. A sua volta non c’è più il seminario vescovile, ma nell’edificio relativo sono ospiti seminaristi latinoamericani che vanno ogni giorno a studiare a Roma.
Non nascondo che, non solo per motivi anagrafici, ricordo con tanta nostalgia i miei soggiorni segnini. Una fotografia di quegli anni mostra tre futuri sacerdoti (divenuti cardinali). Il quarto sono io, che non avevo vocazione al celibato.


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