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FAO
tratto dal n. 12 - 1998

PAESI IN VIA DI SVILUPPO. Il ruolo fondamentale della donna nell’alimentazione

La terra delle donne


Il sesso debole è maggioritario rispetto agli uomini in ogni fase della produzione agricola, dal lavoro nei campi alla distribuzione. Questo è un fatto tanto inoppugnabile quanto dimenticato. Ecco come l’Agenzia dell’Onu vuole aiutare le contadine a diventare imprenditrici


di Gian Tommaso Scarascia Mugnozza


Prima di addentrarmi in un tema di così grande importanza, vorrei richiamare un’ipotesi e fare una riflessione.
Circola da tempo fra gli studiosi di agricoltura un’ipotesi che è stata fatta propria anche dal premio Nobel per la pace Norman Borlaug, principale realizzatore della “rivoluzione verde”. Le prime scelte, inconsapevoli, di piante con caratteri ereditari favorevoli per la coltivazione e produzione sarebbero dovuti alle donne. Mentre gli uomini approvvigionavano gli altri viventi con la caccia e la raccolta di prodotti nelle praterie e nei boschi, le donne, attendendo alla famiglia e alla preparazione dei cibi, avrebbero notato che dalle piante deposte presso capanne e grotte rinascevano – a tempo debito – nuove piante produttrici di frutti e semi. Riflettendo su ciò, forse anche con qualche anziano, avrebbero cominciato a raccogliere parti di piante che contenevano i semi e a metterle ordinatamente nel terreno nell’intento di aumentare, in modo meno precario, le disponibilità alimentari delle famiglie. Avrebbero così avuto inizio i metodi di coltivazione del terreno e di selezione e allevamento di piante; sarebbe stata così dalle donne inventata l’agricoltura.
La riflessione: non dimentichiamo che le condizioni, le situazioni in cui operano oggi le donne, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, appaiono più o meno analoghe allo stato delle donne rurali, delle contadine, in Italia, in Europa fino ai primi anni – o decenni – di questo secolo.
Sul ruolo della donna in agricoltura esiste ormai un’ampia letteratura: 1) sugli stati di fatto attuali; 2) sul dovere etico, nell’interesse generale, di riconoscere e migliorare l’opera delle agricoltrici rendendole più partecipi e più responsabili, ovviamente nella consonanza e nel rispetto delle qualità, capacità e peculiarità delle donne; 3) sulle linee d’azione, sui processi, sulle iniziative da adottare per raggiungere i suddetti obiettivi.
Vorrei mettere in risalto, per la prima delle tre citate categorie di problemi, alcuni aspetti che mi sembrano esemplari.
Le donne sono coinvolte in ogni fase del lavoro per la produzione agroalimentare. Statistiche recenti dimostrano che nei Paesi in via di sviluppo le donne lavorano più degli uomini. Infatti, il lavoro in agricoltura, pur con differenze tra regioni e Paesi, è per oltre il 50% a carico delle donne: tra il 40 e il 50% in America Latina, e dal 60 all’80% in Asia ed Africa. Nell’Unione europea il lavoro a carico delle donne è, in media, pari al 35% (Italia e Francia: 36%). Focalizzando l’attenzione sull’Africa subsahariana, area dalle condizioni più abnormi, risulta che la donna è impegnata in lavori agricoli dalle sette alle otto ore al giorno, e l’uomo intorno a sei ore; alle attività economiche non agricole (per la famiglia soprattutto) la donna dedica oltre sei ore, e l’uomo circa due ore o addirittura meno. Si aggiunga che il carico di lavoro femminile tende ad aumentare in varie regioni del globo, poiché gli uomini migrano nelle città o all’estero in cerca di migliori retribuzioni ed opportunità. Sempre nell’Africa subsahariana, in una serie di pratiche agricole, l’apporto del lavoro femminile è il seguente (dati del 1995): aratura 25%; semina 50%; allevamento di animali da cortile, pascolo di greggi, acquacoltura, ecc. 50%; sarchiatura, irrigazione, raccolta, ecc. 60-70%; conservazione, preparazione e commercializzazione delle derrate 85%; economia domestica (preparazione dei cibi, ricerca di materiale combustibile, prelievo di acqua potabile, accudimento dei figli, ecc.) 95%.
Se è ben noto il lavoro della donna rurale nei mercati locali per la vendita di prodotti agricoli (per esempio in Africa le donne gestiscono dal 60 al 90% di tale commercio), altre attività sono poco conosciute. È il caso, per esempio, del lavoro della donna nel settore agro-forestale. Eppure esse curano i vivai, provvedono al trapianto delle piantine, all’irrigazione e all’allevamento degli arboreti; provvedono alla raccolta, preparazione e vendita del legname, ecc. Altrettanto misconosciuto – e quindi non retribuito – è il contributo della donna all’alimentazione della famiglia attraverso le cosiddette produzioni secondarie, cioè i cibi (legumi, verdure) ricavati dagli orti familiari.
Un dato impressionante si ricava dal confronto tra il peso trasportato (legna, acqua, raccolti, derrate al mercato) in un anno per un chilometro: le donne rurali nei Paesi in via di sviluppo trasportano mediamente più di 80 tonnellate e soltanto 10 l’uomo.
Quanto poi alla retribuzione, variabile in funzione delle differenze di reddito (proprietarie o salariate), dello sviluppo tecnologico e delle disponibilità di risorse naturali (acqua per uso irriguo, fertilità dei terreni, ecc.), è purtroppo costante una differenza di retribuzione fra donne e uomini che grosso modo si aggira intorno al 20-30%.
Ma le indagini sul lavoro delle agricoltrici non hanno soltanto portato alla quantificazione delle dure fatiche e dei misconoscimenti della loro opera; hanno anche condotto a scoprire i rilevanti contributi che esse danno – o possono dare – al progresso e allo stesso futuro sostenibile dell’agricoltura.
Mi riferisco, ad esempio, alla conservazione ed empirica valorizzazione della biodiversità vegetale. La comunità scientifica internazionale finalmente sta riconoscendo allo spirito di osservazione, all’ingegnosità ed all’esperienza delle donne rurali il merito di aver da tempo individuato, nella flora selvatica ed in quella semidomesticata e domesticata, specie e varietà di piante commestibili, da condimento, tessili, piante di valore medicinale o da foraggio per gli animali, ecc. Nozioni sulle qualità di tali piante e sulle modalità di coltivazione sono state trasmesse dalle donne di generazione in generazione. Negli orti familiari sono stati così conservati alti livelli di variabilità genetica di tante specie, minori come importanza economica rispetto alle fondamentali e più mondialmente commercializzate derrate agricole (frumento, mais, soia, ecc.) ma essenziali per l’arricchimento della alimentazione e per lo sviluppo dei sistemi agricoli locali e regionali. E sono state protette dall’erosione genetica anche varietà proprie delle specie commercialmente predominanti, cioè varietà tradizionali che hanno caratteristiche assenti nelle varietà recentemente selezionate soprattutto per alta produttività, caratteristiche che sono potenzialmente importanti per il futuro lavoro di miglioramento genetico e di sviluppo di un’agricoltura sostenibile ed ecocompatibile.
Anche dalle risorse genetiche accumulate nei boschi, le donne, ma anche gli uomini, hanno saputo trarre vantaggi per l’economia familiare o delle comunità, garantendo altresì un uso non distruttivo di un ampio settore della biodiversità vegetale, composto di tante specie, selvatiche e semiselvatiche, fornitrici di frutti, bacche, semi, tuberi e radici eduli, olii, miele, medicamenti, gomme, foglie e foraggi per animali, legnami, materiali e fibre per edilizia, arredi e contenitori, ecc. In India, alle donne rurali è riconosciuto il merito di aver identificato e utilizzato almeno 300 specie medicinali. Istituzioni pubbliche e organizzazioni non governative stanno impostando programmi per tutelare e valorizzare i vantaggi che questo oscuro lavoro delle donne rurali ha procurato all’umanità. Vorrei ricordare, a questo proposito, l’azione di vari istituti internazionali afferenti al gruppo consultivo internazionale per la ricerca agricola (Cgiar) ed operanti nei Paesi in via di sviluppo; il forte e specifico impegno dell’Istituto internazionale per le risorse genetiche vegetali (Ipgri) che il nostro governo nel 1993 è riuscito ad accogliere a Roma; la costituzione, ormai da vari anni, di un Centro di ricerche sulla variabilità genetica di specie vegetali locali e minori a Chennai (Madras, India), ecc. La stessa Convenzione sulla biodiversità approvata a Rio de Janeiro nel 1992 nel corso della conferenza Onu sull’ambiente e lo sviluppo, e sottoscritta da 186 Paesi, afferma la «necessità della piena partecipazione delle donne a tutti i livelli delle linee di condotta, delle scelte e delle iniziative per la conservazione della biodiversità».
Consideriamo ora la seconda categoria di problemi. Non possiamo illuderci che le condizioni delle agricoltrici, ma anche degli agricoltori, nei Paesi in via di sviluppo, per le tendenze spontanee dell’economia e per leggi di puro mercato, possano facilmente cambiare, stante il ritardo dell’affermarsi nella politica mondiale di una economia solidale, a causa delle difficoltà economiche e sociali, locali, regionali e internazionali, che insidiano un equo e pacifico avanzamento verso una migliore qualità della vita in vaste aree del pianeta: in quelle aree in cui vive l’80% della popolazione mondiale, che si accresce annualmente di oltre 100 milioni di esseri umani; in quelle in cui attualmente vive in profonda povertà un miliardo e 300 milioni di persone per il 70% donne rurali, il cui numero peraltro è aumentato del 50% negli ultimi vent’anni, rispetto al 30% della controparte maschile. Di conseguenza è dovere morale soprattutto dei governi e dei cittadini dei Paesi ricchi, anche nella consapevolezza dei gravi pericoli cui andrebbero incontro, intervenire per avviare almeno a parziale soluzione, già nei primi decenni del XXI secolo, i problemi dell’aumento della produzione agroalimentare e della sua distribuzione, e rimuovere le cause della povertà, assicurando, attraverso l’occupazione e il lavoro, redditi personali modesti ma tuttavia sufficienti per una vita degna di esseri umani, liberi nelle proprie scelte. Nella molteplicità di obiettivi da perseguire nella lotta alla povertà e alla fame, obiettivi esposti e sottoscritti da 186 capi di Stato o di governo nel corso del vertice mondiale sull’alimentazione (svoltosi presso la Fao, a Roma, nel novembre 1996) e dettagliati nel Piano di azione conseguentemente elaborato dalla Fao ed in corso di esecuzione, sono esplicitamente e ripetutamente inserite e motivate le iniziative per il progresso materiale, tecnico, culturale della donna in agricoltura.
E allora, cosa deve fare l’agricoltrice, cosa devono fare quanti – uomini e donne – hanno doveri di responsabilità affinché le donne rurali, soprattutto nei Paesi economicamente arretrati, siano elementi sempre più propulsivi dello sviluppo e della crescita economica attraverso la realizzazione di sistemi agroalimentari e agroindustriali più adatti? Cosa si deve fare affinché il lavoro sia innovato e più efficiente, affinché le “contadine” diventino “imprenditrici” e possano manifestare consapevolmente e compiutamente le loro potenzialità, con il risultato di contribuire a vincere nel XXI secolo povertà, insufficienza ed insicurezza alimentari?
Eccoci, dunque, al terzo gruppo di problemi. Le soluzioni per superare limitazioni e vincoli saranno diverse in funzione delle condizioni agroecologiche, antropologiche, sociali, economiche, politiche, delle tradizioni e dei livelli culturali dei Paesi e delle società, ed in relazione alla efficienza delle istituzioni e delle organizzazioni (governative, non governative, religiose, sopranazionali) cui competono gli interventi.
Esistono vincoli nell’accesso alla terra: in molti Paesi le donne non possono ancora avere i titoli per la proprietà della terra perché non viene loro riconosciuta una personalità giuridica chiara. Per esempio, nell’Asia sud-orientale ed in India dove almeno il 70% della forza-lavoro in agricoltura è femminile, solo il 10% delle agricoltrici è proprietaria terriera. Ed alle donne non possidenti è negato l’accesso al credito, indispensabile per acquistare mezzi tecnici come sementi, fertilizzanti, macchine, impianti irrigui, ecc.
Le barriere delle tradizioni e della discriminazione limitano gravemente l’accesso all’educazione. La povertà è uno dei maggiori ostacoli all’educazione delle ragazze rispetto ai maschi, perché il loro lavoro in famiglia è spesso ritenuto più vantaggioso in confronto ad un futuro impiego retribuito. Uno studio della Banca mondiale dimostra che se le donne nei Paesi in via di sviluppo ricevessero lo stesso grado di scolarizzazione degli uomini, le produzioni agricole crescerebbero tra il 7 ed il 22%, migliorerebbe la nutrizione e con essa la salute, aumenterebbe il reddito del lavoro femminile, sarebbe più tutelato l’ambiente.
L’analfabetismo limita l’accesso delle donne al circuito della formazione, cioè: istruzione primaria, preparazione tecnica (ai vari livelli e fino all’università), informazione, divulgazione, aggiornamento e tirocinio per l’introduzione di nuove e appropriate tecnologie, utilizzazione di servizi tecnici per il progresso agricolo, ecc. A tutt’oggi il circuito della formazione è principalmente modellato e indirizzato agli uomini, tant’è che per esempio, negli incontri e nei dibattiti i formatori spesso si rivolgono agli uomini dimenticando le donne. Una recente indagine della Fao ha dimostrato che – a livello mondiale – alle agricoltrici giunge soltanto il 5% di tutti i servizi di divulgazione, e che appena il 15% degli addetti alla divulgazione è formato da donne. Ne deriva che l’esperienza, lo spirito d’osservazione delle donne vengono scarsamente utilizzati per mettere a punto e rendere le nuove tecnologie più appropriate alle condizioni locali. Peraltro, l’introduzione di innovazioni tecnologiche (per esempio uso di seminatrici, trapiantatrici e altri tipi di macchine agricole) può causare riduzione di occupazione, come è stato dimostrato in un’ampia indagine sul lavoro femminile nella coltura del riso in Asia. Alla necessità per le donne di nuove occasioni di lavoro diretto in agricoltura o in attività collaterali (dalla divulgazione, all’educazione, alla ricerca, ai servizi di assistenza tecnica, agli istituti di credito, ai mercati, all’organizzazione di commercio, ecc.) si risponde soltanto investendo nell’istruzione e nella formazione.
Anche nell’associazionismo e nel cooperativismo, le donne rurali del Terzo Mondo, addestrate da agricoltrici dei Paesi avanzati, possono trovare il sostegno dei propri interessi in sede politica, e la valorizzazione del loro lavoro produttivo nel quadro delle economie nazionali e regionali. Avere voce e peso politico, in democrazia, è essenziale per la difesa dei propri interessi. Nel 1998 ricorre il cinquantenario della Dichiarazione dei diritti umani. Eppure non in tutti i Paesi le donne, particolarmente quelle delle campagne, godono della pienezza dei diritti politici.
Nel Piano di azione della Fao, promosso dal predetto vertice mondiale, i governi si sono impegnati, in conformità anche alle determinazioni approvate dalla IV Conferenza mondiale sulle donne (Pechino, 1995), ad adottare provvedimenti per superare le barriere.
La Fao, forse più di altre agenzie dell’Onu, ha messo in cantiere varie misure, la più importante delle quali è (dal 1995) il Programma speciale per la sicurezza alimentare per i Paesi a basso reddito e bassa autosufficienza alimentare. Esso è in atto in 36 tra i Paesi più poveri del mondo e sarà presto esteso ad altri 35. Tra le linee di intervento del programma hanno alta priorità gli studi e le esperienze-pilota per la valorizzazione del ruolo della donna rurale.
Anche l’Ifad (il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo), il cui mandato consiste soprattutto nel sostenere finanziariamente progetti e proposte di medie e piccole imprese agricole, sta meglio calibrando i suoi interventi per promuovere e sostenere l’attività delle imprenditrici agricole.
Il ruolo del lavoro femminile, con particolare riferimento ai Paesi in via di sviluppo, è soggetto di fatto a forti limitazioni e sopporta ingiuste discriminazioni. Eppure nel sentimento generale il lavoro femminile è esaltato, e lo provano capolavori di poesia e opere d’arte in cui la donna presenta e offre abbondanza di frutti, di “doni” della terra. E nelle mitologie delle varie culture tale rispetto si manifesta attraverso le divinità chiamate Madre Terra, Maia, Pomona, Demetra, Cerere, ecc.
E perché, allora, a tanto riconoscimento ideale corrispondono ingiuste condizioni di lavoro e scarsa visibilità del contributo femminile?
Deve diventare un dovere generale, un obbligo effettivo, dovunque, e non un’affermazione retorica, il riconoscimento del posto che al lavoro femminile compete e, nella specificità degli apporti, deve essere garantita la parità delle condizioni.


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