Home > Archivio > 12 - 1998 > Liturgia e potere
LITURGIA
tratto dal n. 12 - 1998

«La liturgia è sottratta al compromesso politico»

Liturgia e potere


Partendo dalla concretezza di testi biblici, Ratzinger evidenzia come la forma del culto è sottratta alle regole del compromesso politico. Un criterio valido e interessante per giudicare l’attuazione della riforma liturgica. Brani della conferenza che il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha tenuto il 12 settembre 1998 a Cremona al convegno I cattolici e la politica oggi, nel quadro delle celebrazioni per l’ottavo centenario di sant’Omobono patrono della città lombarda


Brani da una conferenza del cardinale Joseph Ratzinger


Cosa è propriamente la liturgia? Cosa accade in essa? Con quale genere di realtà ci incontriamo qui? Negli anni Venti fu avanzata la proposta di intendere la liturgia come “gioco”; il punto di somiglianza era innanzitutto che la liturgia come il gioco ha le sue regole, organizza il suo proprio mondo, che ha valore, quando in esso si entra, e che poi naturalmente anche nuovamente si dissolve, quando il “gioco” finisce. Un altro punto di somiglianza era che il gioco ha sì un senso, ma nello stesso tempo è senza uno scopo determinato e proprio così possiederebbe in sé qualcosa di risanante, anzi di liberante, perché ci porterebbe fuori dal mondo delle preoccupazioni quotidiane e delle loro costrizioni introducendoci nell’ambito del gratuito e ci libererebbe quindi per qualche istante da tutto il peso del mondo del nostro lavoro. Il gioco sarebbe per così dire un altro mondo, una oasi della libertà, nella quale noi potremmo per un momento lasciare fluire liberamente l’esistenza; per noi sarebbero necessari tali momenti di libertà dall’oppressione del quotidiano, per poterne portare il peso. In tutto questo vi è qualcosa di vero, ma una tale spiegazione non può essere sufficiente. Infatti non sarebbe in fondo importante che cosa qui stiamo giocando; tutto ciò che è stato detto si può dire di ogni gioco, ove l’esigenza di regole molto presto acquista un peso rilevante e anche conduce a nuove pretese finalità: se pensiamo all’odierno mondo dello sport, ai campionati di scacchi o a qualsiasi altro gioco, ovunque si vede che il gioco presto passa ad essere dal totalmente altro di un mondo alternativo o di un non mondo un pezzo di mondo con le sue leggi, se non vuole dissolversi in un vuoto, insensato passatempo.
Ancora un aspetto di questa teoria del gioco occorre menzionare, che ci porta già più vicino alla natura particolare della liturgia: il gioco dei bambini appare sotto molti aspetti come una specie di anticipazione della vita, come un’introduzione alla vita successiva, senza portare in sé il suo peso e la sua serietà. Così la liturgia potrebbe richiamare l’attenzione sul fatto che davanti alla vera vita, nella quale vogliamo entrare, in realtà restiamo o in ogni caso dovremmo restare tutti bambini; la liturgia sarebbe quindi una forma totalmente altra di anticipazione, di pre-esercitazione: anticipo della futura vita eterna, della quale sant’Agostino dice che diversamente dalla vita attuale non è più intessuta di bisogni e necessità, ma tutta della libertà del dono. Quindi la liturgia sarebbe il risveglio della vera condizione di infanzia spirituale in noi, dell’apertura alla grandezza che ancora ci attende e che con la vita da adulti in verità non è ancora compiuta: essa sarebbe una forma strutturata della speranza, che già pregusta ora la vita futura, reale, ci introduce alla vita certa – quella della libertà, della immediatezza di Dio e della totale apertura reciproca. Così essa imprimerebbe anche nella vita apparentemente reale di ogni giorno i segni anticipatori della libertà, infrangerebbe le catene e farebbe brillare il cielo sulla terra.

Una tale variante della teoria del gioco distanzia in modo sostanziale la liturgia dal gioco in genere, nel quale per altro sempre vive la nostalgia del vero “gioco”, della totale alterità di un mondo nel quale ordine e libertà si fondano; di fronte a ciò che è appariscente e comunque legato ad uno scopo preciso ovvero al vuoto del gioco normale fa emergere la particolarità e l’alterità del “gioco” della Sapienza, del quale parla la Bibbia e che si può poi mettere in connessione con la liturgia. Ma manca ancora un elemento di contenuto in questo schema, dal momento che il concetto di vita futura finora è emerso solo come un vago postulato e lo sguardo a Dio, senza il quale la “vita futura” sarebbe solo un deserto, è rimasto ancora del tutto indeterminato. Così vorrei proporre un nuovo approccio, questa volta a partire dalla concretezza dei testi biblici.

Nei racconti sugli antefatti dell’uscita di Israele dall’Egitto, così come sul suo svolgimento stesso, emergono due differenti finalità per l’Esodo. Una, a noi tutti nota, è il raggiungimento della terra promessa, nella quale finalmente Israele potrà vivere su una terra propria, in confini sicuri come popolo con la sua propria libertà e indipendenza. A fianco si colloca però ripetutamente un’altra indicazione di obiettivo. Il comando originario di Dio al Faraone suona: «Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto!» (Es 7, 16). Questa frase «Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi» viene ripetuta con minime varianti altre quattro volte, cioè in tutti gli incontri tra il Faraone e Mosè e Aronne (Es 7, 26; 9, 1; 9, 13; 10, 3). Nel corso delle trattative con il Faraone lo scopo viene ulteriormente concretizzato. Il Faraone si mostra disponibile al compromesso. Nella discussione è in questione per lui la libertà di culto degli israeliti, che egli inizialmente concede nella forma seguente: «Andate a sacrificare al vostro Dio nel Paese» (Es 8, 21). Ma Mosè insiste sul fatto che – secondo il comando di Dio – per il culto è necessario uscire dal Paese. Il suo luogo è il deserto: «Andremo nel deserto, a tre giorni di cammino, e sacrificheremo al Signore, nostro Dio, secondo quanto egli ci ordinerà!» (Es 8, 23).
Dopo le piaghe successive il Faraone allarga la sua proposta di compromesso. Egli permette ora che il culto si compia secondo la volontà della divinità, quindi nel deserto, ma vuole lasciare partire solo gli uomini, mentre le donne e i bambini così come il bestiame dovranno restare a casa in Egitto. Egli presuppone una prassi corrente del culto, secondo la quale solo gli uomini erano soggetti attivi di esso. Mosè però non può trattare sulla forma del culto con il monarca straniero, porre il culto sotto la forma del compromesso politico: la forma del culto non è un problema di ciò che è politicamente possibile; porta in sé la sua criteriologia, cioè può essere strutturata solo a partire dal criterio della rivelazione, a partire da Dio. Perciò viene respinta anche la terza, molto indulgente proposta di compromesso del sovrano, il quale concede ora che anche donne e bambini possano venire. «Solo rimanga il vostro bestiame minuto e grosso» (Es 10, 24). Al che Mosè controbatte che tutto il bestiame deve essere portato via, perché «non sapremo come servire il Signore finché non saremo arrivati in quel luogo» (Es10, 26). In tutta questa trattativa non si parla della terra della promessa; come unico scopo dell’Esodo appare il culto, che può compiersi solo secondo la misura di Dio e pertanto è sottratto alle regole del gioco del compromesso politico.
Israele esce dal Paese non per essere un popolo come tutti gli altri; esce per servire Dio. La meta dell’Esodo è la montagna di Dio, ancora sconosciuta, il servizio di Dio. Ora, si potrebbe obiettare che la menzione esclusiva del culto nelle trattative con il Faraone sarebbe stata una scelta di natura tattica. Lo scopo reale e in definitiva unico dell’Esodo non sarebbe stato il culto, ma la terra, che in verità costituiva lo specifico contenuto della promessa ad Abramo. Non credo che si renda così giustizia al vero significato di questi testi. In fondo la contrapposizione di terra e culto non ha senso: la terra viene data perché sia un luogo del culto del vero Dio. Il semplice possesso della terra, la semplice autonomia nazionale avrebbe declassato Israele al livello degli altri popoli. Questa finalità misconoscerebbe la particolarità dell’elezione: tutta la storia dei libri dei Giudici e dei Re, ripresa e nuovamente interpretata nei libri delle Cronache, mostra proprio che la terra come tale e presa in se stessa resta ancora un bene indeterminato, che diviene il vero bene, il dono reale della promessa compiuta, solo quando vi domina Dio; non quando la terra esiste in qualche modo come uno Stato autonomo, ma solo quando essa è lo spazio dell’obbedienza nel quale si compie la volontà di Dio, e così nasce la forma giusta dell’esistenza umana. Lo sguardo sul testo biblico ci permette però anche una determinazione più precisa della relazione tra i due scopi dell’Esodo. Israele pellegrino in realtà non scopre ancora dopo tre giorni (come annunciato nel colloquio con il Faraone) quale genere di offerta Dio vuole. Ma piuttosto dopo tre mesi, «dall’uscita degli Israeliti dal Paese d’Egitto, proprio in quel giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai» (Es 19, 1). Al terzo giorno si verifica poi la discesa di Dio sulla cima della montagna (Es 19, 16. 20). Ora Dio parla al popolo, nelle dieci sante parole (Es 20, 1-17) gli comunica la sua volontà e per mezzo di Mosè conclude l’alleanza (Es 24) che si concretizza in una forma di culto minuziosamente regolata. Così si è adempiuto lo scopo del pellegrinaggio nel deserto comunicato al Faraone: Israele impara ad adorare Dio nel modo da lui stesso voluto. A questa adorazione appartiene il culto, la liturgia nel suo senso specifico; ad essa appartiene però anche la vita secondo la volontà di Dio, che è un aspetto irrinunciabile della vera adorazione. «La gloria di Dio è l’uomo vivente, la vita dell’uomo però è vedere Dio», dice sant’Ireneo (Adv. haer. IV 20, 7), ed esprime così esattamente ciò che era in questione nell’incontro davanti alla montagna nel deserto: ultimamente la vera adorazione di Dio è la vita dell’uomo stesso, l’uomo che vive rettamente, ma la vita diventa vera vita solo se riceve la sua forma dallo sguardo che a Dio si orienta. Il culto esiste proprio per questo, per permettere questo sguardo e così rendere possibile una vita che diventa gloria a Dio.

Il testo integrale della conferenza è stato pubblicato su
La vita cattolica, settimanale della diocesi di Cremona,
il 18 settembre 1998


Español English Français Deutsch Português