Home > Archivio > 11 - 1998 > Memoria vivente
DIPLOMAZIA VATICANA
tratto dal n. 11 - 1998

TERRA SANTA. La questione della Città Santa alla ripresa del processo di pace

Memoria vivente


L’amore ai «Luoghi Santi ove Cristo nacque, visse, morì e risorto salì al Cielo»; la difesa di chi oggi vive, «nella terra di Gesù nostro Signore», la stessa fede di duemila anni fa… L’ultima conferenza di Gerusalemme vista dal cardinale Law e da monsignor Tauran


di Giovanni Cubeddu


Autonomia nazionale palestinese, 28 ottobre scorso. «Qualunque cosa ha fatto la Santa Sede è una benedizione per il popolo palestinese». Yasser Arafat era visibilmente contento dopo il pranzo offerto alla nutrita delegazione di cardinali e vescovi (circa trenta) nella sua Gaza. Subito dopo il loro incontro con il presidente israeliano Ezer Weizman, il leader dell’Autonomia nazionale palestinese aveva accolto i presuli – “in missione di amicizia” – con passione mediterranea e ospitalità. Ed appena giunto a tiro dei giornalisti in attesa sull’uscio, stretto tra il patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah e l’arcivescovo di Boston, il cardinale Bernard Francis Law, non aveva esitato nel lanciare il felicitante messaggio. Perché tanto fervore nel presidente palestinese? Un piccolo passo indietro. Dal 26 al 27 di ottobre il patriarca Sabbah aveva ospitato, per «riflettere sulla questione di Gerusalemme», numerosi cardinali e delegati delle conferenze episcopali. Insieme a Jean-Louis Tauran, “ministro degli Esteri” vaticano, si potevano incontrare i cardinali Carlo Furno (per l’Ordine equestre del Santo Sepolcro), Jean-Claude Turcotte (per la Chiesa canadese), Bernard Francis Law (per la Chiesa statunitense), Miroslav Vlk (per le Chiese europee), l’arcivescovo Monsengwo Pasinya (per l’Africa), il vescovo Jiménez, segretario del Celam (per l’America Latina), gli arcivescovi D’Souza e Trinidad (per l’Asia). Tanto per citare solo alcuni, tralasciando tutti gli ordinari cattolici di Terra Santa, dei diversi riti, i delegati dei patriarchi ortodossi greci, armeni e copti, e della comunità evangelica luterana.
A soli tre giorni dalla firma degli accordi di Wye River – che hanno finalmente rilanciato il processo di pace israelo-palestinese – colpiva vedere un così autorevole uditorio che, dopo aver intonato il Veni Creator Spiritus, si disponeva silente e attento ad ascoltare monsignor Tauran mentre articolava tutta la posizione vaticana sulla questione della Città Santa.

Tornando a casa
La relazione del “ministro degli Esteri” vaticano ha riproposto la tradizionale posizione della Santa Sede. E cioè, se è concessa la sintesi, che non si può scindere la questione dei Luoghi Santi dalla questione globale di Gerusalemme, che «ovviamente la preoccupazione immediata e pratica della Santa Sede è sulle questioni religiose», mentre l’aspetto politico e territoriale della Città Santa interessa il Vaticano «per la sua dimensione morale» in quanto causa di violazioni di diritti umani, di libertà religiosa e di coscienza. Ancora, Tauran ha chiesto chiaramente che prima di tutto «Gerusalemme sia rispettata per ciò che essa è in se stessa», e che «si trovi una soluzione realistica». Infine, ha sottolineato che «la Santa Sede continua a chiedere che essa sia protetta da “uno statuto speciale internazionalmente garantito”».
Chiudendo il suo intervento, Tauran ha chiesto pubblicamente a tutti gli episcopati del mondo «di divenire “ambasciatori” di Gerusalemme nelle Chiese locali, verso le proprie rispettive nazioni e società e verso le istituzioni e le autorità». Per questo al cardinale Law (al vescovo Edgard McCarrick e al vicepresidente della Conferenza episcopale statunitense Anthony Fiorenza che l’accompagnavano al convegno) spetta ora di informare non solo i quattrocento vescovi e i sessanta milioni di cattolici americani, ma di far giungere all’orecchio dell’amministrazione statunitense qualche suggerimento positivo.

Clinton rappresenta tutta l’America
Tauran a Gerusalemme ha parlato espressamente delle speranze di pace fondate sulla Conferenza di Madrid del ’91 e sull’impegno comune al dialogo, impegno «in particolare degli Stati Uniti», rianimato dai colloqui di Wye River. «La conferenza di Gerusalemme ha significato fare esperienza concreta delle speranze sorte a Wye River», ci spiega il cardinale Law. «Questo io l’ho verificato incontrando sia il presidente israeliano Ezer Weizman che Arafat. Se questi due uomini, che portano tutto il bagaglio e le aspirazioni dei loro popoli, possono guardare con speranza a questo momento, allora anche noi lo possiamo. Talvolta pare scontato essere pessimisti. Mi ha colpito invece quanto Arafat mi diceva pranzando insieme. Era impressionato dal fatto che Bill Clinton avesse partecipato personalmente per più di ventidue ore ai negoziati di Wye River. E non è stato pro forma». E neanche per neutralizzare il Sexgate? Replica Law: «Vorrei dire che guardando alla serietà del tema e dei risultati ottenuti, uno deve vedere questo accordo per i suoi meriti oggettivi e non come fosse qualcosa d’altro. Sono fiducioso. In questo io credo che Clinton incarni le aspirazioni del popolo americano, che vuole la pace, come chiunque. Non conosco nessuno che non la voglia: ci saranno pure degli estremisti radicali da ambo i lati che non la chiedono, ma la grande maggioranza vuole vedere Gerusalemme in pace».

Interpretazione autorevole
«La conferenza ha avuto grande importanza come espressione della comunione della Chiesa» riprende il cardinale. «Sono rimasto sorpreso del grande dono che la comunione è per i cattolici: la settimana precedente ero a Roma per una visita ad limina, poi sono salito a Gerusalemme, e mi sono accorto di quanto la sede di Pietro sia importante per le autorità israeliane e palestinesi. E ovviamente importante per la locale comunità cristiana». Come possono i cattolici ottemperare a quanto la Santa Sede ha suggerito? Law ne declina le differenti modalità: «Prima di tutto la Chiesa, i vescovi in unità con la Santa Sede, devono evidenziare la dimensione morale del problema Gerusalemme. Non ci compete entrare nei negoziati politici tra israeliani e palestinesi. Ciò di cui c’è bisogno, come Chiesa, è tenere alta la verità che nella Città Santa abbiamo tre grandi religioni e due popoli. E i diritti e le aspirazioni di ciascuno devono essere riconosciuti». Anche i cristiani arabi devono godere dei diritti comunemente garantiti ad ogni cittadino, fa intendere il cardinale. Che continua, esemplificando alcuni temi scottanti: «In Terra Santa l’acqua è assai preziosa, ma sembra che averla non sia facile per tutti. Questo dovrebbe essere oggetto di negoziati: la gente ha diritto all’acqua, è dono di Dio. Come pure la gente ha diritto di muoversi da un posto all’altro nella propria terra, non esserne prigioniera, e la Chiesa deve affermarlo. Ancora, essa ha l’obbligo di difendere la libertà religiosa…». Questo è il compito della Chiesa. «Successivamente i fedeli laici, uomini e donne, che hanno una funzione politica e di governo, è importante che la esercitino seguendo dei principi morali. Deve essere una fede al lavoro, nel quotidiano, nel mondo pubblico. Ma questa è una loro responsabilità, non dei vescovi». Un’interpretazione che fa di nuovo giustizia del malinteso, creato da improvvidi lanci di agenzia-stampa e ripreso dai quotidiani a seguito della relazione di Tauran, secondo cui la Santa Sede avrebbe richiesto esplicitamente di «essere associata ai negoziati su Gerusalemme». Con l’unico risultato di costringere il presule ad una paziente opera di chiarimento. Ma il danno era già fatto.

«Noi vediamo e tocchiamo quello che è avvenuto qui»
Di recente l’Osservatore Romano ci ha ricordato che secondo san Girolamo e san Cirillo, vescovo di Gerusalemme, ai pellegrini occorreva «mostrare qualcosa di concreto». Dei Luoghi Santi san Cirillo diceva che «mentre gli altri si contentano di ascoltare, noi vediamo e tocchiamo quello che è avvenuto qui al centro della terra». Ancora oggi ci si può inginocchiare al Calvario e nel Santo Sepolcro. A Betlemme si può toccare il luogo dove Maria ha partorito. Ma questo è un conforto per i fedeli, non interessa i vacanzieri. E basta soffermarsi qualche minuto in più nei Luoghi Santi per accorgersi dolorosamente che delle tante comitive “flashanti” o munite di videocamera, davvero solo qualche timida mano accarezza le antiche pietre o solo qualche incerto ginocchio si piega.
Tauran ha mostrato di conoscere questa realtà. E tra gli aspetti più delicati (e confortanti) della sua analisi vi è stata l’insistenza con cui ha indicato la necessità di salvare l’«identità della Città Santa». Che significa anche salvaguardare l’esistenza fisica della piccola comunità cattolica. «Per noi difendere i Luoghi Santi non è difendere dei monumenti, ma difendere dei santuari che sono inseriti in mezzo a comunità di credenti, comunità viventi con scuole, famiglie, ospedali, culture. Non sono musei vuoti. Noi dobbiamo difendere il carattere unico e sacro di questi edifici, però allo stesso tempo difendere i diritti delle persone che li fanno essere vivi».
Dei giorni in Terra Santa, il cardinale Law rammenta un episodio: «In quei luoghi ho trovato una fede viva, commovente. Visitando Gaza ho incontrato padre Manuel Musallam, che lì regge una comunità parrocchiale, tanto piccola di numero quanto vivace. C’è la scuola, le suorine di madre Teresa assistono i disabili e la parrocchia ha strutture per l’aiuto ai più poveri. Una piccolissima comunità cattolica che serve la grande comunità, per lo più musulmana, in una regione musulmana. Ci siamo messi in ginocchio nella cappella delle Missionarie della Carità, davanti al Sacramento esposto per l’adorazione. Abbiamo avuto esperienza, noi e loro insieme, di cos’è laggiù la Chiesa oggi, in un modo stupendo. Così, quando stavo lì per partire ho detto a padre Manuel: “Hai una parrocchia molto bella”. “È la più bella del mondo”, mi ha risposto. E pensare quali difficoltà esistono a Gaza: così tante persone accalcate in un piccolo lembo di terra, con i loro bisogni, e le loro durezze, anche. Eppure padre Manuel vive con grande gioia».

La stessa fede da duemila anni
In Israele l’ultimo vezzo dei fans di Netanyahu è chiamare il primo ministro “il mago”. Gli si riconosce il merito di aver condotto la destra ad accettare un accordo che, sottoscritto da chiunque altro, avrebbe causato grandi e violente manifestazioni di piazza. E comunque, dopo una breve incertezza (e confusione-stampa), successiva al discorso di Tauran, la diplomazia israeliana ha fatto intendere per le vie brevi che “nulla osta” al diritto della Santa Sede di esprimere i suoi desiderata sulla Città Santa.
Il processo di pace lascia questioni inevase che rendono più complicata la vita quotidiana della comunità arabo-cristiana, cambiando la demografia della città. Grazie ad una normativa speciale, a Gerusalemme sta diventando semplice negare la residenza a quegli arabi che non possano dimostrare che la Città Santa sia per loro il «centro degli interessi vitali» (ciò interessa ad esempio coloro che, già cittadini di Gerusalemme, per lavorare si allontanino dalla città, col risultato di perdere entro termini strettissimi il diritto di residenza). Il “falco” Ehud Olmert è stato rieletto sindaco (e la destra ultraortodossa ha aumentato il suo peso nel Consiglio municipale), e, se confermerà i suoi piani urbanistici, la città vecchia e i Luoghi Santi saranno presto circondati da grattacieli che, a detta degli stessi urbanisti israeliani, renderanno tutta l’area «irriconoscibile». E si trova pure chi afferma che, benché ufficialmente bloccati, i lavori di costruzione di un insediamento ebraico nella celebre collina di Har Homa a ridosso di Gerusalemme continuino nottetempo.
Potrà mai venire il Papa in Terra Santa, così stando le cose? Tauran ha risposto: «La visita del Santo Padre deve permettere agli uomini di queste terre di incontrarsi, e quindi il Papa deve venire come il pellegrino della pace». Lasciando intendere che dopo Wye River, se tutto andrà per il meglio, si potrebbe forse riparlare dell’eventualità del viaggio, che difficilmente però si farà nel ’99, data l’agenda già fitta del Papa. Forse nel duemila. «Ma non c’è nessun progetto concreto», ha specificato.
Il patriarca latino Michel Sabbah, interrogato circa la visita papale, ha risposto diplomaticamente «di non avere informazioni al proposito» e che «molto dipenderà dal processo di pace».
Conclude Bernard Francis Law: «Qui ci sono le belle memorie del passato. Memorie viventi. E noi dobbiamo conservare questi luoghi, come mete di pellegrinaggio. Ma non dimentichiamoci mai che qui ci sono le pietre vive della Chiesa di oggi, e sono uomini, donne, giovani e vecchi che vivono la loro fede in questi Luoghi Santi: la stessa fede da duemila anni».


Español English Français Deutsch Português