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I DIECI ANNI DI ECCLESIA DEI
tratto dal n. 11 - 1998

«Forme liturgiche diverse non sono contro l’unità»

Liturgie diverse. Una ricchezza per l’unica Chiesa


«...la presenza dell’antica liturgia non turba né minaccia l’unità, ma è piuttosto un dono destinato a costruire il corpo di Cristo del quale tutti noi siamo servitori»


L’intervento del cardinale Joseph Ratzinger al convegno sui 10 anni di Ecclesia Dei


Quale bilancio possiamo fare oggi, a dieci anni dalla pubblicazione del motu proprio Ecclesia Dei? Penso che prima di tutto sia un’occasione per esprimere il nostro ringraziamento. Le varie comunità sorte grazie a questo documento pontificio hanno regalato alla Chiesa un gran numero di vocazioni sacerdotali e religiose che con zelo e gioia e in comunione profonda con il Papa rendono servizio al Vangelo in quest’epoca storica. Grazie ad esse, molti fedeli hanno rafforzato o hanno conosciuto per la prima volta la gioia di poter prendere parte alla liturgia e l’amore verso la Chiesa. In numerose diocesi sparse per il mondo tali comunità servono la Chiesa collaborando attivamente con i vescovi e instaurando un rapporto positivo e fraterno con i fedeli che si sentono a loro agio nella forma rinnovata della liturgia. Tutto ciò non può che suscitare oggi la nostra gratitudine.
Tuttavia, sarebbe irrealistico tacere che in molti luoghi non mancano le difficoltà, allora come adesso, perché alcuni vescovi, sacerdoti e fedeli considerano l’attaccamento alla vecchia liturgia (quella dei testi liturgici del 1962) come un elemento di divisione che turba la pace della comunità ecclesiale e lascia supporre una certa riserva nell’accettazione del Concilio e, più in generale, nell’obbedienza dovuta ai pastori legittimi della Chiesa. Le domande che dobbiamo porci sono dunque le seguenti: come si possono superare tali difficoltà? Come possiamo creare il clima di fiducia necessario per far sì che i gruppi e le comunità legati alla vecchia liturgia si inseriscano pacificamente e proficuamente nella vita della Chiesa? Queste questioni però ne sottintendono un’altra: qual è la ragione profonda di questa diffidenza o, addirittura, del rifiuto del proseguimento della vecchia liturgia? Vi sono senza dubbio delle ragioni preteologiche legate al temperamento dei singoli individui, al contrasto tra i diversi caratteri o ad altre circostanze esterne. Ma certamente esistono anche altre cause, più profonde e meno fortuite.
Sono due le ragioni che più spesso vengono addotte: la non obbedienza al Concilio che ha riformato i testi liturgici e la rottura dell’unità derivante dall’esistenza di forme di liturgia diverse. È relativamente semplice confutare ambedue i ragionamenti. Non è stato propriamente il Concilio a riformare i testi liturgici, esso ne ha ordinato la revisione e, a tal fine, ha fissato alcune linee fondamentali. Il Concilio ha dato soprattutto una definizione di liturgia che fissa la misura interna delle singole riforme e, contemporaneamente, stabilisce il criterio valido per ogni legittima celebrazione liturgica. L’obbedienza al Concilio verrebbe violata nel caso in cui non fossero rispettati tali criteri fondamentali interni e venissero messe da parte le normae generales, formulate ai numeri 34-36 della Costituzione sulla sacra liturgia. Bisogna giudicare secondo tali criteri le celebrazioni liturgiche, siano esse basate sui vecchi o sui nuovi testi. Il Concilio non ha, infatti, come già accennato, prescritto o abolito dei testi, bensì ha dato delle norme di base che tutti i testi devono rispettare. In tale contesto giova ricordare quanto dichiarato dal cardinale Newman: la Chiesa nel corso della sua storia non ha mai abolito o vietato forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa. Una liturgia ortodossa, ossia che è espressione della vera fede, infatti, non è mai una semplice raccolta di cerimonie diverse fatta sulla base di criteri pragmatici, delle quali si può disporre in maniera arbitraria, oggi in un modo e domani in un altro. Le forme ortodosse di un rito sono realtà viventi, nate dal dialogo d’amore tra la Chiesa e il suo Signore. Sono espressioni della vita della Chiesa, in cui si condensano la fede, la preghiera e la vita stessa delle generazioni e nelle quali si sono incarnate in una forma concreta e in uno stesso momento l’azione di Dio e la risposta dell’uomo. Tali riti possono estinguersi se sparisce storicamente il soggetto che ne è stato il portatore o se questo soggetto si è inserito con la sua eredità in un altro contesto di vita. In situazioni storiche diverse, l’autorità della Chiesa può definire e limitare l’uso dei riti, ma non li vieta mai tout-court. Così, il Concilio ha ordinato una riforma dei testi liturgici e, di conseguenza, delle manifestazioni rituali, ma non ha messo al bando i vecchi libri. Il criterio espresso dal Concilio è al contempo più ampio e più esigente: esso invita tutti a un esame di coscienza.
Su questo punto ritorneremo più tardi. Nel frattempo è necessario prendere in esame l’altro argomento, quello della – presunta – rottura dell’unità. A questo proposito bisogna distinguere l’aspetto teologico da quello pratico della questione. Per quanto concerne la componente teoretica e fondamentale, dobbiamo constatare che del rito latino sono sempre esistite più forme che sono progressivamente cadute in disuso a causa dell’unificazione degli spazi di vita in Europa. Fino all’epoca del Concilio, accanto al rito romano convivevano quello ambrosiano, quello mozarabico di Toledo, il rito dei Domenicani e forse molti altri ancora a me sconosciuti. Nessuno si è mai scandalizzato per il fatto che i Domenicani, spesso presenti nelle nostre parrocchie, non celebrassero la messa come i parroci, bensì seguissero un rito proprio. Tutti noi sapevamo che il loro rito era cattolico al pari di quello romano e andavamo fieri della ricchezza di tante tradizioni diverse. Inoltre, non bisogna dimenticare che spesso si abusa della libertà di spazio che il nuovo Ordo Missae lascia alla creatività e che la differenza tra i vari modi in cui la liturgia viene di fatto messa in pratica e celebrata nei diversi luoghi sulla base dei nuovi testi, spesso è maggiore rispetto a quella tra vecchia e nuova liturgia. Un cristiano privo di una cultura liturgica particolare distingue a malapena una messa cantata in latino secondo il vecchio Messale da una cantata in latino secondo il nuovo, mentre può essere enorme la differenza tra una liturgia celebrata rispettando fedelmente i dettami del Messale di Paolo VI e le varie forme di celebrazioni liturgiche in lingua viva, ampiamente diffuse, che lasciano largo spazio alla creatività e all’inventiva.
Con queste considerazioni siamo passati dalla teoria alla pratica dove, ovviamente, le cose si complicano perché abbiamo a che fare con persone vive e reali che entrano in relazione tra di loro.
A me sembra che i contrasti a cui abbiamo accennato sono di considerevole entità perché si tende a mettere in relazione le due forme di celebrazione con due diversi atteggiamenti spirituali, ossia due modi diversi di comprendere la Chiesa e l’essere cristiani. Le ragioni di tale atteggiamento sono molteplici, ma ciò è dovuto soprattutto al fatto che si giudicano le due forme liturgiche a partire da elementi esterni e si arriva così ad avere due opposti atteggiamenti di base. Il cristiano medio considera essenziale nella nuova liturgia che essa sia celebrata in lingua viva e rivolti ai fedeli, che consenta ampio spazio alla creatività e che in essa i laici svolgano una funzione attiva. Nella vecchia liturgia, al contrario, considera essenziale che essa sia celebrata dal sacerdote in latino e rivolto all’altare, che il rito segua una prescrizione severa e che i fedeli seguano la messa in silenziosa preghiera senza avere una funzione attiva. Nell’accogliere la liturgia si dà dunque un’importanza decisiva alla sua fenomenologia e non a ciò che la liturgia stessa considera come essenziale. Ma in fin dei conti dovevamo aspettarci che i fedeli avrebbero interpretato la liturgia a partire da forme concrete visibili, che sarebbero stati determinati spiritualmente da quelle forme e che non sarebbero stati in grado di penetrare facilmente nelle profondità della liturgia.
Le contraddizioni e i contrasti a cui abbiamo or ora accennato non sono in alcun modo da imputare allo spirito del Concilio né a quanto scritto nei testi conciliari. Nella stessa Costituzione sulla sacra liturgia non si accenna minimamente al fatto se si debba celebrare la messa rivolti all’altare o ai fedeli e, per quanto concerne la lingua, essa dice che il latino deve essere mantenuto pur dando uno spazio maggiore alla lingua viva, «specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti» (n. 36 § 2). Quanto alla partecipazione dei laici, la Costituzione inizialmente ribadisce in generale che la liturgia nella sua essenza riguarda l’intero corpo di Cristo, capo e membra (n. 7). Di conseguenza, la sua celebrazione appartiene «all’intero corpo mistico della Chiesa» (n. 26) e comporta «una celebrazione comunitaria con la presenza e la partecipazione attiva dei fedeli» (n. 27). Il testo poi precisa: «Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o fedele, svolgendo il proprio ufficio, compia soltanto e tutto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza» (n. 28). E ancora: «Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni del popolo, le risposte, la salmodia, le antifone, i canti come pure le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, il sacro silenzio» (n. 30).
Tutti dobbiamo riflettere su queste direttive del Concilio. Alcuni liturgisti moderni hanno la tendenza a rifarsi all’impostazione conciliare ma purtroppo ne sviluppano le idee in una sola direzione, ribaltando così le intenzioni stesse del Concilio. Il ruolo del prete è ridotto da alcuni a qualcosa di puramente funzionale. Il fatto che il soggetto della liturgia sia l’intero corpo di Cristo viene spesso stravolto a tal punto che la comunità locale diventa il vero soggetto della liturgia e ne distribuisce i diversi ruoli. Vi è poi un altro atteggiamento preoccupante che tende a minimizzare il carattere sacrificale della messa e a fare sparire quasi completamente il mistero e, in generale, il sacro, con il pretesto di una maggiore comprensibilità. Infine, constatiamo la tendenza a frammentare la liturgia, mettendo in rilievo esclusivamente il carattere comunitario dell’ufficio divino. La liturgia diventa così appannaggio della comunità che distribuisce i ruoli.
Fortunatamente però è presente al contempo anche una forte avversione per i razionalismi e i pragmatismi banali tipici di alcuni liturgisti e si nota un decisivo ritorno al mistero, all’adorazione, al sacro e al carattere cosmico ed escatologico della liturgia, come testimonia la Oxford-Declaration on Liturgy del 1996. D’altra parte, bisogna riconoscere che la celebrazione della vecchia liturgia spesso si era trasformata in un qualcosa di troppo individualistico e privato e che, di conseguenza, la comunione tra prete e popolo era insufficiente. Provo un grande rispetto per i nostri vecchi che durante la liturgia recitavano le loro orazioni leggendole dai libri di preghiere, ma certamente ciò non può essere visto come la forma ideale della celebrazione liturgica. Queste forme ridotte di celebrazione sono forse la ragione profonda per cui in molti Paesi la scomparsa dei vecchi testi liturgici non è stata percepita come un fatto determinante. Non c’era mai stato, infatti, un vero e proprio contatto con la liturgia. D’altra parte, là dove il Movimento liturgico aveva saputo suscitare un amore per la liturgia e aveva anticipato le idee essenziali del Concilio, come per esempio la partecipazione di tutti nella preghiera all’evento liturgico, il dolore causato da una riforma liturgica intrapresa con eccessiva fretta e limitata spesso al solo aspetto esteriore è stato grande. Là dove, invece, il Movimento liturgico non è mai esistito, la riforma è stata accolta senza traumi. I problemi sono sorti in maniera sporadica là dove una creatività del tutto arbitraria aveva fatto sparire il mistero.
Ecco perché è importante attenersi ai criteri essenziali della Costituzione sulla sacra liturgia anche durante la celebrazione della liturgia secondo i vecchi testi. Nel momento in cui tale liturgia tocca profondamente i fedeli per la sua bellezza, allora sarà amata e non sarà più in opposizione inconciliabile con la nuova liturgia. A condizione che i criteri vengano applicati così come ha voluto il Concilio.
Naturalmente, continueranno ad esistere accenti spirituali e teologici differenti, ma non saranno più visti come due maniere opposte di essere cristiani, piuttosto saranno il patrimonio di una sola e unica fede.
Quando alcuni anni fa qualcuno aveva proposto un “nuovo Movimento liturgico” per evitare che le due forme di liturgia si allontanassero troppo l’una dall’altra e per mettere in risalto la loro intima convergenza, alcuni amici della vecchia liturgia hanno temuto che ciò fosse solo uno stratagemma o un’astuzia per poter infine fare piazza pulita della vecchia liturgia. Queste paure dovrebbero cessare di esistere una buona volta. Se in ambedue le forme di celebrazione emergono chiaramente l’unità della fede e l’unicità del mistero, ciò non può essere altro che motivo di gioia profonda e di ringraziamento. Quanto più noi crediamo, viviamo e agiamo secondo tali motivazioni, tanto più riusciremo a convincere i vescovi che la presenza dell’antica liturgia non turba né minaccia l’unità ma è piuttosto un dono destinato a costruire il corpo di Cristo del quale tutti noi siamo servitori.
Vorrei esortare voi tutti, cari amici, a non perdere la pazienza, a continuare ad essere fiduciosi e ad attingere nella liturgia la forza necessaria per dare testimonianza al Signore in questa nostra epoca.

Nostra traduzione dall’originale tedesco



UN BRANO DI GIOVANNI PAOLO I

«Vorrei che Roma desse il buon esempio»

«Vorrei pure che Roma desse il buon esempio in fatto di liturgia celebrata piamente e senza “creatività” stonate. Taluni abusi in materia liturgica hanno potuto favorire, per reazione, atteggiamenti che hanno portato a prese di posizione in se stesse insostenibili e in contrasto col Vangelo. Nel fare appello, con affetto e con speranza, al senso di responsabilità di ognuno di fronte a Dio e alla Chiesa, vorrei poter assicurare che ogni irregolarità liturgica sarà diligentemente evitata» (dall’omelia pronunciata da Giovanni Paolo I il 23 settembre 1978 in occasione della presa di possesso della cattedra di vescovo di Roma nella Basilica di San Giovanni in Laterano, AAS 70, 1978, 750).


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