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EDITORIALE
tratto dal n. 10 - 1998

I novanta di Leone



Giulio Andreotti


La lieta occasione del novantesimo compleanno del senatore Giovanni Leone offre l’opportunità, insieme a vive felicitazioni, di riaprire – per darne alle generazioni più giovani una conoscenza corretta – la pagina molto dolorosa che portò il sesto presidente della Repubblica a lasciare prematuramente il Quirinale, vittima di una squallida manovra politica.
La storia personale di Leone uomo pubblico inizia nel 1946 quando arrivò a Montecitorio portando ai lavori dell’Assemblea costituente un contributo di grande autorevolezza giuridica e di sottile capacità dialettica. Vi è in proposito una raccolta documentata, pubblicata con prefazione di Francesco Cossiga. Nella biografia personale che degli eletti viene puntualmente fatta, di Leone si mise in evidenza la qualità di prestigioso professore universitario ed una particolare benemerenza acquisita durante la guerra come giudice militare di complemento, ordinando (con rischio della propria incolumità, come è detto nell’encomio solenne attribuitogli) la scarcerazione di quarantanove militanti antifascisti tratti in arresto.
Caso più unico che raro, il deputato Leone, durante la Costituente e dopo, dichiarò l’assoluta indisponibilità per incarichi governativi, impegnandosi invece a fondo nel lavoro legislativo. Nel 1955 subentrò a Gronchi nella Presidenza della Camera restandovi ben otto anni, con grande successo. Anche nei momenti più difficili sapeva dominare situazioni, alternando una conquistante bonomia alla fermezza più rigorosa quando era necessario. E necessario fu durante le forti tensioni suscitate dal governo Tambroni, con collutazioni in aula nelle quali restarono contusi anche alcuni commessi, dei quali Leone prese le parti, additando alla pubblica riprovazione gli onorevoli scalmanati.
Il personaggio aveva una caratteristica tutta propria. Democristiano di profonde convinzioni ed anche per origine familiare, restò sempre estraneo alla vita di partito, sia a Roma che nel suo collegio di Napoli-Caserta. Questo gli giovò in via generale, dandogli forza come uomo super partes, ma in qualche momento lo privò forse di una solidarietà più intransigente (vedi, ad esempio, la difesa di Moro per Luigi Gui calunniosamente attaccato). Ma andiamo per ordine.
Nel 1963 la situazione politico-governativa si era arenata, per una di quelle crisi – fatto non infrequente nell’Italia repubblicana – da cui non si sapeva come uscire. L’onorevole Leone fu pregato di presiedere un governo di decantazione per dar tempo ai partiti di trovare una possibile intesa. Accettò per obbedienza civica, lamentandosi solo per l’aggettivo “balneare” con cui i cronisti politici definirono il primo ministero Leone. Identico incarico estivo gli venne affidato cinque anni dopo, ma nel frattempo il presidente Saragat lo aveva nominato senatore a vita, compensandolo in qualche modo per la perduta Presidenza della Camera nel 1963.
Allo scadere del settennato di Gronchi, i gruppi democristiani avevano presentato la candidatura dell’onorevole Antonio Segni, ma con resistenze – palesi ed occulte – di alcuni democristiani di sinistra che si diceva esprimessero anche il pensiero del presidente uscente, desideroso di una rielezione. La marcia di Segni fu faticosissima, partito al primo scrutinio con soli 333 voti contro i 570 necessari. Dopo sette votazioni, Segni aveva raggiunto faticosamente 389 adesioni e la strada sembrava ormai per lui sbarrata, essendosi nel frattempo ricevuti messaggi di disponibilità dei sostenitori di Saragat per trovare una intesa in un certo senso neutrale sul nome del presidente della Camera Leone. A questo punto la Dc e Segni personalmente rimossero di fatto la preclusione verso i voti della destra e sembrava così che l’ottava “chiama” fosse la definitiva. Mancarono invece quattro voti per superare il quorum. Se Leone, che presiedeva l’assemblea, avesse rinviato all’indomani la seduta, le sue chances personali sarebbero state fortissime; anche perché i fedelissimi di Gronchi ormai si erano convinti che il rinnovo del settennato era impraticabile e caldeggiavano la scelta unitaria del Parlamento. Senza indugi Leone ordinò invece il nono appello e Segni la sera del 6 maggio 1962 fu eletto con 443 voti.
La tenace vittoria non dette però a Segni che una temporanea soddisfazione. Dopo due anni e sette mesi di Quirinale fu colpito da emorragia cerebrale irreversibile e fu costretto alle dimissioni. Questa volta, anche per l’esperienza del 1962, la Dc puntò direttamente su Leone, mentre Saragat e Nenni si contendevano l’alternativa al democristiano, che tuttavia non riuscì a compattare la maggioranza necessaria: partito con 319 voti, per ben undici scrutini registrò un calo di suffragi (soli 278 nel sesto), per assommare con una perfida altalena 393 nella tredicesima, per scendere di nuovo a 386 nella quindicesima.
In verità Leone voleva ritirarsi molto prima, ma fu pregato di resistere, nella convinzione che i franchi tiratori desistessero. A questo punto espresse con sdegno la decisione di estraniarsi dalla mischia; e i democristiani non parteciparono al sedicesimo appello nel quale Nenni ebbe 349 voti.
Era la sera di Natale e in aula regnavano nervosismo e frustrazione. Ci vollero altri tre giorni e alla fine Pietro Nenni dovette farsi indietro e Saragat vinse con 646 schede a favore. Rimase molto male, sette anni dopo, per la mancata risposta favorevole al suo appello per essere eletto una seconda volta, assecondato solo dai socialdemocratici.
Nell’elezione del 1971, la Dc scelse il nome di Fanfani ma nella prima votazione gli mancarono quaranta democristiani, faticosamente recuperati in parte, senza una prospettiva di apporti degli altri, fatta eccezione per i liberali. I socialisti, che avevano votato in prima battuta De Martino, ci chiesero di aderire ad una loro scelta “meno caratterizzata” e curiosamente individuavano in Nenni il punto di incontro, ripiegando poi su questa dichiarazione: «Siamo disposti a rinunciare alla nostra candidatura a favore di un democristiano ma non di Fanfani. Dovete scegliere un altro candidato che per la reputazione di cattolico progressista e per l’insieme di cariche pubbliche ricoperte consenta all’elettorato di sinistra di capire perché si siano abbandonati sia De Martino che Nenni per eleggere un democratico cristiano». Il nome era palesemente quello di Moro, ma subito si contrapposero i socialdemocratici che, ritiratosi con stizza Saragat, richiesero un accordo di larga maggioranza, escludendo sia Fanfani che Moro. Con ulteriore precisazione gli stessi socialdemocratici insieme ai liberali e ai repubblicani dichiararono di rinunciare alla formula della grande convergenza e offrirono i loro voti alla Dc proponendo una terna entro cui scegliere: Leone, Rumor e Taviani. Socialisti e comunisti formalizzarono la loro disponibilità per Moro.
Sui deputati, senatori e delegati regionali democristiani cadde la responsabilità della difficile scelta, che fu fatta tra di noi a scrutinio segreto. Rumor e Taviani si erano dichiarati indisponibili e vi fu quindi solo un ballottaggio tra Leone e Moro. Prevalse Leone, con uno scarto non rilevante e mercé l’appoggio quasi totale dei senatori. Invano fu chiesto alle sinistre di accedere, perché rimasero ferme su Nenni. Il 23 dicembre Leone mancò di un voto il quorum (strano ricorso cronistorico) ma la vigilia di Natale diveniva presidente con 518 voti.
La forte divaricazione nelle elezioni presidenziali tra i partiti cosiddetti di centrosinistra aveva creato una lacerazione non facile a rimarginarsi. Il governo monocolore che si formava dopo le dimissioni di Colombo venne affidato a me, con la facile previsione di un immediato ricorso alle urne. Un triennio di intensa vita alla Camera come capogruppo democristiano mi aveva dato, dopo venti anni di attività nei governi, una possibilità nuova di esperienze, sia dentro che fuori la Dc. Le ricordo come tra le più significative della mia vita. Così, pur essendo sfiduciato dal Parlamento, potei restare senza proteste alla guida del governo durante le elezioni e riebbi l’incarico, cercando invano di comporre una coalizione a cinque. In quella fase i socialisti ritenevano improponibile il semplice sedersi attorno a un tavolo con i liberali. Nacque il governo con i socialisti (e naturalmente i comunisti) contro, che ebbe vita faticosissima. Non era stato ancora abolito lo scrutinio segreto sulle leggi e i franchi tiratori ne profittavano per continue imboscate. Il centrosinistra tornò, così, in auge, auspice Fanfani, con Rumor e poi con Moro.
A differenza di Gronchi e, parzialmente, anche di Saragat, Leone non si intrometteva nelle questioni di parte. In qualche modo aveva ripreso lo stile presidenziale di Einaudi, pur avendo un carattere partenopeo estroverso e gioioso, molto diverso da quello quasi inamidato e protocollare dello statista piemontese. Restar fuori dalle lotte avrebbe dovuto essere apprezzato e giovargli. Ma non fu così. L’opera sottile di denigrazione cominciò proprio con l’enfatizzazione di certi aspetti divertenti di un uomo che era privo di malizia e di capacità di calcolo. Chi non ricorda la fotografia di lui in camice bianco che visita il malato di colera, facendo ostentati scongiuri? Inde irae. Si dava grande spazio a questi contorni, mentre passava sotto silenzio un importante messaggio al Parlamento (15 ottobre 1975) sulle necessarie riforme dello Stato, che avrebbero forse allora potuto realizzarsi con tempestività.
Qualche mese più tardi la situazione italiana era alle corde, per una disastrata condizione della finanza pubblica e per le esplosioni del brigatismo rosso. Moro riuscì a convincere i comunisti che era necessario un periodo di non belligeranza politica reso proponibile data la netta distanza che Berlinguer aveva preso da Mosca, contestando la dipendenza dal Partito Sovietico dei partiti comunisti europei. Nacque il mio terzo governo. Moro aveva voluto che fossi io a presiederlo forse perché, essendo stato a lungo ministro della Difesa evitavo preoccupazioni di mutamento di rotta internazionale dell’Italia (il Pci del resto aveva deciso e formalizzò nell’anno successivo il “riconoscimento” della positività del Patto Atlantico).
L’abbandono comunista della via rivoluzionaria scatenò il furore della sinistra extraparlamentare. Moro pagò con la vita questa svolta.
La tragedia Moro fu vissuta da Leone con un desiderio spasmodico, che si accentuava ogni giorno di più, di trovare una via d’uscita che salvasse la vita di Aldo; riceveva accorati appelli dalla famiglia. Pur rispettando le ragioni di fondo di una linea di fermezza che si riteneva ineludibile era tormentato dal primato del diritto alla vita.
Senza più Moro, la linea politica da lui ideata andò inevitabilmente in frantumi. In un messaggio all’Università di Cassino, che il 29 maggio di quest’anno ha dedicato a Moro un seminario, Leone ha scritto:
«Un ricordo mi torna sempre innanzi agli occhi: il colloquio avuto con Lui il giorno precedente al suo sequestro, nel quale, su mia richiesta, mi presentò il quadro della situazione nell’ambito del partito sull’esperimento di un governo Andreotti con il voto favorevole del Partito Comunista, concludendo che ad un certo punto aveva ritenuto opportuno di rinviare il dibattito perché se si fosse votato a favore del proposto esperimento ci sarebbero stati soltanto due voti, il suo e quello di Andreotti».
Nel progetto devastante, che forse ha più di un padre, rientrava anche il presidente Leone, che si era cercato invano di coinvolgere nello scandalo delle tangenti per gli aerei della Lockheed. Sia il nostro Parlamento che quello americano attestarono la sua assoluta estraneità.
Il “tiro al Leone” fu programmato, tra gli altri, da due micidiali batterie: L’Espresso e un libro diffamatorio della Camilla Cederna. Già dalla strutturazione di quest’ultimo risultava trattarsi non di una ricerca seria ancorché a carattere accusatorio, ma della raccolta di voci e di pettegolezzi, quasi per intero privi del minimo fondamento. Non si salvava nessuno, anche dei suoi familiari. Il fratello avvocato era dipinto come procacciatore di grazie presidenziali, ma l’esempio addotto riguardava – tanto per fare un caso – un decreto di Saragat, peraltro motivato.
È vero. Leone ha avuto soddisfazione dai giudici che in una delle sentenze imputarono alla Cederna di essersi limitata a recepire passivamente delle notizie magari provenienti da una sola parte di orientamento opposto a quello democristiano.
Comunque credo che la scrittrice abbia incassato come diritti d’autore ben più di quanto pagato come “punizione legale”.
Occorre però spiegare perché le istituzioni furono messe sotto scacco e battute da questa campagna, alla quale i partiti della maggioranza non si erano fino ad un certo momento associati, consigliando anzi al presidente di non reagire riservandosi tutte le possibilità dopo qualche mese, a settennato esaurito.


Una improvvisa telefonata di Berlinguer mi informò che il suo partito non era più in grado di difendere il presidente; e che Paolo Bufalini era andato a dirlo direttamente a Leone.
Sul piano giuridico il presidente della Repubblica non può essere rimosso, ma soltanto sottoposto a speciale giudizio con una rigorosa procedura di accusa. Quando però anche irritualmente il Parlamento avesse espresso un giudizio negativo sul capo dello Stato, come questi avrebbe potuto far finta di nulla?
La terribile congiuntura angosciò ovviamente la segreteria politica della Dc e si ritenne impossibile puntare i piedi da soli. Andammo insieme da Leone, che profondamente amareggiato ed in una posizione di grande statura morale, prese atto dell’abbandono.
In un commovente “messaggio al Paese” annunciò di anteporre a tutto l’interesse delle istituzioni e di dimettersi. Le manifestazioni di solidale rispetto furono molte. La Dc lo ringraziò perché «dinanzi ad una iniqua e calunniosa campagna denigratoria aveva pensato solo agli interessi generali del Paese». Il Pci su l’Unità e anche con lettera autografa di Bufalini a Leone lodò il radiomessaggio e spiegò che l’interpretazione da loro data alle dimissioni non poteva essere intesa come «la resa ad una campagna scandalistica ma come contributo alla chiarezza e alla difesa delle istituzioni». Al di fuori delle forze politiche si levarono anche voci significative di apprezzamento. Ricordo un articolo del professor Paolo Barile su La Stampa dal titolo: Custode della Costituzione con un bilancio equilibrato.
Rimane il quesito del perché i comunisti, trascinandosi dietro gli altri, adottarono bruscamente la linea che obbligò Leone ad andarsene. Credo che la risposta sia nell’esito imprevisto dei due referendum della domenica precedente. Non solo sette milioni di italiani avevano votato – sia pure essendo minoranza – a favore della abrogazione della legge Reale, che aveva introdotto un minimo di potere della polizia per fronteggiare il terrorismo. Ma ancora più sconcertante era stato il risultato per pochissimo non vincente della campagna dei radicali contro il finanziamento dei partiti. Nelle grandi città la maggioranza era stata per la soppressione, nonostante la difesa ufficiale di tutti i partiti costituzionali. L’opinione pubblica si allontanava e il Pci non poteva permettersi questa presa di distanze dall’opinione pubblica, oltre quella che aveva preso dai compagni sovietici. I socialisti a loro volta non se la sentivano di distinguersi nella questione Leone dai comunisti. E così via.


Sono passati venti anni. Leone ha vinto le sue battaglie giudiziarie e nessuno degli addebiti allora mossigli ha potuto avere la più pallida conferma.
In una intervista rilasciata a Oriana Fallaci che fece chiasso, Giovanni Leone, nell’aprile del ’73, disse: «Sul piano personale sono un gran pessimista. Lo sono sempre stato come tutti i napoletani e i meridionali in genere. Anche da ragazzo, per quel che mi riguardava, vedevo tutto nero. Però quando assumo una responsabilità divento ottimista». Era il secondo anno della sua Presidenza. Quando stava per aver termine il suo settennato ebbe più di un motivo per tornare ad essere pessimista.


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