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VENT’ANNI DALLA MORTE DI...
tratto dal n. 10 - 1998

Intervista con il cardinale Paulo Evaristo Arns

Guardando la Chiesa oggi Paolo VI direbbe: pregate


L’arcivescovo emerito della diocesi di San Paolo, una delle figure più popolari della Chiesa brasiliana, racconta la sua vita. «Sono ormai un vescovo emerito e preferisco non dare giudizi sull’azione della Chiesa. Credo che, se fosse ancora vivo, Paolo VI, guardando la situazione di oggi, mi darebbe questo consiglio: pregare»


Intervista con il cardinale Paulo Evaristo Arns di Stefania Falasca


Davanti alla chiesetta nel quartiere di Jaçaná, una folla aspetta l’arrivo di dom Paulo per la messa. Donne, vecchi, bambini, padri di famiglia, poveri fanno la fila per salutarlo, per una parola di conforto o solo per un abbraccio. Ogni mattina è così, da quando è ritornato a vivere in questa zona periferica della metropoli paulista; è una manifestazione quotidiana di affetto, di stima e riconoscenza che la gente, soprattutto la povera gente, gli porta. Il 17 maggio scorso il cardinale francescano Paulo Evaristo Arns ha lasciato la guida dell’arcidiocesi di San Paolo per raggiunti limiti d’età. Settantasette anni appena compiuti, cinquantatré di sacerdozio, ventotto come pastore della più grande metropoli del Sud America. Tanto è bastato per far diventare dom Paulo sinonimo della grande San Paolo, parte integrante della storia di questa città e di certo una pietra miliare della Chiesa brasiliana. Giornalista, aperto al dialogo, autore di oltre cinquanta libri che riguardano la pastorale della Chiesa nella grande città e studi di letteratura cristiana dei primi secoli, il cardinale Arns è soprattutto il rappresentante di una Chiesa in prima linea nella difesa dei poveri. Il suo contatto permanente con gli ultimi e la semplicità di fede hanno caratterizzato il suo apostolato nella metropoli. La sua tenace perseveranza nella difesa della libertà del popolo e dei diritti umani, soprattutto durante il regime militare che in Brasile si è protratto dal ’64 all’85, ha suscitato spesso incomprensioni e messo a rischio non poche volte la sua stessa vita. Ma è anche per la sua presenza, per la sua riconosciuta autorità, per l’azione ferma, coraggiosa e prudente in San Paolo, che in Brasile si è passati da una dittatura militare cruenta a un sistema democratico senza spargimenti di sangue. Nel 1982 è stato l’unico religioso, in tutto il mondo, eletto nella Commissione internazionale per le questioni umanitarie dell’Onu. «Sono solo un povero vescovo, un uomo di pace e di speranza», si schermisce prontamente. Lo incontriamo all’uscita della messa, sorridente e sereno. Lo scorso 14 settembre è stato il suo settantasettesimo compleanno, il primo come arcivescovo emerito.
Per la prima volta ha voluto raccontarci la sua storia, la sua grande amicizia con Paolo VI, i suoi ricordi, le sue speranze.

Eminenza, appena si è diffusa la notizia dell’imminente arrivo del suo successore, circolò subito la voce che lei non sarebbe più rimasto a San Paolo. Cosa l’ha spinta a restare?
PAULO EVARISTO ARNS: Il motivo immediato sono i problemi di salute. Ma soprattutto è l’amore verso il popolo. Confesso che a San Paolo mi sento a casa, è la mia famiglia. Alla gente di San Paolo sono legato e grato. A quanti mi sono stati di conforto, a quanti in modo sorprendente sempre hanno corrisposto alle iniziative, suggerendo, aiutando, collaborando in sintonia, partecipando con corresponsabilità vissuta al lavoro pastorale dentro la grande città.
E adesso non ha rimpianti?
ARNS: Ognuno ha il suo tempo e la sua influenza segnata dalla divina Provvidenza. Spero di essere stato un buon pastore. Ora si è aperta un’altra fase che mi lascia più tempo a disposizione per la preghiera.
Ventotto anni come pastore di una megalopoli, la città più grande del Sud America, non sono pochi. In questi ventotto anni, se adesso dovesse fare un rapido bilancio, quali sono stati per lei i momenti più difficili? Che cosa l’ha fatta soffrire di più?
ARNS: Quando ricevevo le madri dei desaparecidos politici in cerca di informazioni, appoggio e conforto. Gli anni della dittatura militare, i volti di queste donne e madri, mi hanno lasciato nella memoria una traccia di dolore. Quello che mi ha fatto soffrire è stato proprio il non poter alleviare, molte volte, tante sofferenze.
Proprio in pieno regime militare, nel ’73, lei ricevette la porpora cardinalizia. Cosa fece in questa situazione appena nominato cardinale?
ARNS: Vendetti l’antico palazzo della residenza episcopale per cinque milioni di dollari e il ricavato lo distribuii ai poveri, acquistando terreni per gli emigrati e i senza casa e creando centri comunitari nella periferia. Considero una grazia l’aver sempre agito in favore e dalla parte dei prediletti di nostro Signore.
Eminenza, vorrebbe raccontarci qualche episodio della sua storia? Partiamo dall’inizio. Da quale ambiente proviene?
ARNS: Sono nato a Forquilhinha, un villaggio fondato da coloni tedeschi nel sud del Brasile. I miei genitori erano emigranti e io sono il quinto di quattordici figli, due dei quali adottivi. La mia famiglia era cattolica, molto unita e serena. Dai miei genitori ho imparato tanto. Mio papà era un politico, mia mamma si dedicava alla nostra educazione. Sapeva tutto il catechismo in latino a memoria e l’ha trasmesso così a noi figli. Allora erano le mamme, le nonne, le sorelle più grandi a insegnare le nozioni elementari del catechismo. Così si trasmetteva la fede. Il prete infatti veniva al villaggio solo poche volte l’anno e quando veniva era una grande festa. Ma anche se il prete non c’era, ogni domenica tutto il villaggio si riuniva per discutere le necessità della comunità e per pregare insieme nella chiesa che tutti avevano contribuito a costruire. Nella scuola elementare avevamo come insegnanti due bravi maestri che avevano studiato dai Francescani. Mio fratello maggiore entrò in seminario, più tardi lo seguii anch’io. Fui ordinato sacerdote il 30 novembre del ’45, il giorno di sant’Andrea apostolo.
Lei venne poi mandato in Francia a completare gli studi. Che memoria conserva di quegli anni?
ARNS: Arrivai a Parigi nell’ottobre del ’47 e mi iscrissi alla facoltà di Lettere e Storia antica alla Sorbona. Conseguii il dottorato nel ’52, con una tesi sulla tecnica del libro in san Girolamo. Durante questi anni frequentavo tutti i giorni l’università. Sono stati anni difficili. La realtà era dura, segnata dalla povertà del dopoguerra. Tutti i giorni facevamo la fila per avere un pezzo di pane o un po’ di zucchero. Molti dei miei compagni di corso erano stati duramente provati dalla guerra, alcuni avevano subìto mutilazioni. Divennero miei cari amici studenti che erano stati nelle prigioni tedesche e alcuni ebrei. Furono per me incontri importanti. Imparai che bisogna tenere sempre conto della diversità ed essere aperti alla pluralità. Il contatto con la diversità di questa realtà segnata dal dolore e dalla necessità della pace mi preparò anche ad affrontare più tardi la repressione militare nel mio Paese.
E di quell’ambiente culturale cosa ricorda? Quali sono stati gli incontri che la segnarono di più?
ARNS: Era allora in voga la “Nouvelle Théologie”. La riscoperta della patristica. I miei studi erano incentrati sulla patristica. Frequentavo anche l’Università Cattolica per la parte dottrinale. Daniélou fu mio professore fino a quando Pio XII gli proibì d’insegnare. Più tardi tradussi il primo volume della Storia della Chiesa che Daniélou aveva scritto con Malraux. Andavo anche alle conferenze che filosofi come Maritain e Gilson tenevano al Centro Richelieu, davanti alla Sorbona, dove si poteva tastare anche il polso delle tendenze che si muovevano nella Chiesa. Non era quella certo un’epoca di omologazione, era anzi un’epoca di fermento culturale, anche se confusa o di difficile comprensione. Ogni anno con gli studenti del Centro Richelieu andavamo a piedi in pellegrinaggio da Parigi a Chartres. E questa era per me una cosa bellissima.
A Parigi stavano anche tutti i grandi scrittori dell’epoca...
ARNS: Sì. André Gide, François Mauriac, Paul Claudel. Tenevano anche loro delle conferenze, fuori dell’università, a volte all’aperto. Ricordo che andavamo ad ascoltarli e restavamo lì a sentirli parlare mentre cadeva la neve. Spesso ci incontravamo con Mauriac, di Claudel divenni amico. Andai a vedere tutte le sue opere teatrali. Con loro si parlava facilmente. Claudel amava l’opera di Charles Péguy e ne declamava i versi. Di Péguy mi piaceva soprattutto la grande epopea della speranza. Perché la speranza, così come l’ha espressa poeticamente Péguy, scende nel cuore dell’esperienza cristiana: «È da lei che tutto viene, per sperare bisogna essere molto felici, bisogna aver ricevuto una grande grazia». Se penso a questi versi mi tornano in mente quegli anni e posso dire che la speranza è ciò che ha caratterizzato tutta la mia vita. Quando infatti più tardi fui ordinato vescovo scelsi come motto «Ex spe in spem». Perché la speranza è tutto, è il sorriso della vita cristiana. Che cosa saremmo noi, cosa faremmo noi senza speranza?
Lei ha citato Péguy, ma in quel momento la sua opera non era poi tanto apprezzata...
ARNS: Sì, questo è vero. I non cristiani come Gide lo criticavano e in genere non era ben considerato neanche da quei cattolici francesi preoccupati di difendere l’istituzione ecclesiastica. Ma anche chi lo valorizzava, come Mounier, enfatizzava più gli aspetti anarchici, antisistema. La posizione di Péguy, nell’esprimere un’immagine non clericale della Chiesa, era senza dubbio originale. Era difficile rendere ragione della sua novità, soprattutto perché Péguy aveva saputo leggere in anticipo i tempi, li aveva precorsi accorgendosi della scristianizzazione e aveva ammonito i cattolici a non illudersi, a guardare questa realtà e a prenderne atto, come fece poi più tardi, con coscienza lucidissima, Paolo VI.
Quando tornò in Brasile quali furono i luoghi della sua missione?
ARNS: I miei superiori mi mandarono a Rio de Janeiro, allora il centro del potere politico in Brasile, poi a San Paolo, dove ho insegnato lingua e letteratura francese all’Università di Bauru, e quindi mi trasferirono a Petrópolis. Lì rimasi dieci anni anni come professore di patrologia e storia della Chiesa al Seminario francescano e all’Università Cattolica. Al termine delle lezioni, portando spesso con me i seminaristi e alcuni studenti, andavo a svolgere il ministero sacerdotale nei morros, nelle favelas intorno a Petrópolis. Erano sette morros. Tra la gente delle favelas di Itamarati ho trascorso gli anni più felici della mia vita. Con loro stavamo semplicemente, condividendo gioie e sofferenze. Conoscevo le vicende di ciascuno, avevo stretto molte amicizie. Nell’ultima messa di saluto che celebrai all’aperto a Itamarati parteciparono quasi trentamila persone, una manifestazione di amicizia enorme. Avrei voluto tanto vivere lì e invece nel ’66 fui ordinato vescovo ausiliare del cardinale Agnelo Rossi a San Paolo.
Vescovo ausiliare della zona nord di San Paolo, proprio dove adesso ha deciso di ritornare, di stabilirsi...
ARNS: Sì, sono ritornato alle origini, qui dove ho iniziato l’apostolato tra i poveri e gli emarginati di San Paolo.
Allora questa zona era l’estrema periferia di San Paolo...
ARNS: Era segnata dall’emigrazione di massa verso la grande metropoli, dove le speranze di lavoro lasciavano posto alla miseria, a condizioni di vita subumane. Una realtà ben diversa dai piccoli centri poveri dell’interno del Brasile. Lo sradicamento forzato, oltre a provocare queste terribili conseguenze, aveva scardinato ogni traccia di quella struttura familiare nella quale era stata garantita la cattolicità. Non potevamo più farci illusioni, ci trovavamo di fronte a una realtà dura, segnata dalla scristianizzazione. E allora come oggi, come sempre, non prendere la parte dei poveri significava tradire il Vangelo. Una nuova evangelizzazione non poteva che essere personale e sociale. L’anno seguente alla mia ordinazione episcopale, Paolo VI pubblicò l’enciclica Populorum progressio che univa dottrina sociale ed esperienza e che venne da noi accolta come una nuova testimonianza della presenza della Chiesa. Nel ’68 la conferenza di Medellín, che si svolse tutta all’ombra dell’enciclica montiniana, ci introdusse nel nuovo clima della pastorale in favore dei poveri. Proprio in questa zona di San Paolo cominciammo a fondare le prime comunità di base dove erano soprattutto i laici a essere pienamente coinvolti nell’annuncio cristiano e nelle necessità che la realtà esigeva. Per parte mia pensavo sempre che quello di vescovo ausiliare fosse un incarico temporaneo e che prima o poi sarei tornato in convento.
E invece non solo rimase, ma nel ’70 divenne arcivescovo di San Paolo. E fu proprio Paolo VI a nominarla. Conosceva già papa Montini? Come lo conobbe?
ARNS: Incontrai Montini quando era sostituto alla Segreteria di Stato durante una delle sue visite in Francia. Ma ebbi modo di conoscerlo da vicino solo quando divenni arcivescovo di San Paolo. Subito dopo la nomina andai in visita dal Papa. Ricordo ancora con emozione quell’incontro, l’abbraccio di Paolo VI nel ricevermi: mi accolse come un grande amico, con molta benevolenza... Io non volevo essere vescovo, figuriamoci arcivescovo di San Paolo. Non mi sentivo adatto, personalmente lo consideravo più un impaccio che un privilegio. Volevo restare semplice missionario ed ero pronto a partire anche per l’Africa o il Giappone. «Se proprio volete darmi un incarico importante» dissi una volta al nunzio «allora mandatemi tra gli indios dell’Amazzonia». Così, per tre volte non accettai, per tre volte rifiutai quella richiesta. Ricordo che la terza lettera mi giunse proprio quando mi trovavo a Roma per una commissione del capitolo generale dei Francescani. Risposi rifiutando nuovamente per iscritto. Mi chiamò il prefetto della Congregazione dei vescovi, e mi disse: «Eccellenza, il Santo Padre desidera tanto che lei accetti. Con paterna sollecitudine Sua Santità mi ha detto di riferirle: “Io voglio che lei sia vescovo”». A quelle parole uscii dal palazzo della Congregazione e mi diressi a San Pietro. Guardai giù dov’è la tomba dell’apostolo... mi ricordai allora di Pietro, del pianto di Pietro dopo che per tre volte aveva negato. Mi ricordai di quelle lacrime che lavarono il suo diniego e piansi... quella fu la prima volta in vita mia che ho pianto.
Da quel momento lei si incontrò molte volte con Paolo VI. Che cosa ricorda di quegli incontri?
ARNS: S’instaurò subito una grande confidenza. L’ambiente francese nel quale mi ero formato era familiare a Montini. Così da subito parlammo in lingua francese. Paolo VI parlava un ottimo francese, un francese classico. Della sua benevolenza nel ricevermi ricordo ancora un episodio divertente. Una volta chiesi al segretario un appuntamento, mi rispose che il Santo Padre era molto impegnato e che al massimo avrebbe potuto concedermi cinque minuti. Allora preparai un appunto scritto con tutto ciò che avrei dovuto dirgli e quando giunse il momento della visita dissi a Paolo VI: «Santità, mi hanno dato a disposizione solamente cinque minuti e così ho messo per iscritto i punti importanti». Ma lui con mia sorpresa, sorridendo, rispose: «Eminenza, qui, chi comanda siamo lei e io». E detto questo, mi condusse in una sala in fondo alla biblioteca dove nessuno ci potesse disturbare. Rimasi con lui cinquantacinque minuti! Ogni volta che potevo vederlo ero sempre molto, molto felice. Quando stavo con lui non c’era bisogno di dire molte cose, capiva tutto al volo.
E quali erano gli argomenti principali delle vostre conversazioni?
ARNS: La situazione del Brasile, di San Paolo, e soprattutto la pastorale, anche la pastorale sotto la dittatura militare.
Proprio durante la dittatura militare lei si distinse per il coraggio nella difesa del popolo, denunciando fermamente l’ingiustizia sociale, divenendo un paladino, non solo in Brasile ma in tutta l’America Latina, dei diritti umani. Brasil nunca mais, il libro nel quale lei raccoglie la documentazione dei crimini commessi dal regime, ebbe una diffusione vastissima. Ricevette per questo molte censure e minacce...
ARNS: Dovetti affrontare la situazione della repressione militare appena giunto a San Paolo come vescovo ausiliare. Con vari espedienti ero riuscito a entrare nelle carceri, dapprima in quelle per reati comuni, poi in quelle dei detenuti politici. Potei vedere e constatare anche personalmente le torture e i crimini. Mai, tuttavia, sono entrato in attrito con i militari. Al contrario, avevo accesso al comando generale della polizia, grazie ai soldati che lavoravano lì e che erano cattolici o che avevano sentimenti buoni. Da loro riuscivo ad avere le informazioni necessarie e impedire così che molte persone fossero uccise o sparissero nel nulla. Ricordo la prima volta che riuscii a entrare nel palazzo del comando generale della polizia. Ci riuscii in modo davvero fortuito. Il soldato che era di guardia all’ascensore del palazzo era un mio ex parrocchiano. Appena mi vide si mise a parlare con me e mi chiese un santino da portare alla madre. Gli dissi: «Senti, io te lo do, ma tu devi farmi un favore, fammi salire fino al quinto piano dov’è il comando». Il soldato prese il santino e mi fece salire. Quando arrivai su, fui fermato e circondato dai militari: «Ma lei come ha fatto ad entrare e ad arrivare fin qui! Chi le ha rilasciato il permesso? Ci vogliono delle autorizzazioni, sono permessi speciali...». «Oh,» risposi «ma io ce li ho tutti! Anche quello del generale! E tirai fuori il santino di Gesù che avevo dato al soldato...». San Paolo era il centro direttivo del regime militare in Brasile. Ci sono stati momenti molto delicati e molto rischiosi in cui abbiamo dovuto muoverci con fermezza ed estrema prudenza. Ma è stato per la collaborazione talvolta sorprendente dei vescovi, dei sacerdoti, soprattutto dei laici, persino delle persone di credi diversi se in Brasile siamo riusciti a passare da una dittatura cruenta a un sistema democratico senza spargimenti di sangue. In tutti i momenti più difficili mai mi è mancato il consiglio, il conforto e l’appoggio anche pubblico di Paolo VI, sempre ho ricevuto da lui una parola di speranza.
Paolo VI era stato in visita in Brasile?
ARNS: Sì, venne proprio a San Paolo, nel ’62, quando era ancora arcivescovo di Milano. E fu in quell’occasione che coniò la famosa affermazione: «San Paolo è una testa altera con una corona di spine». Paolo VI conosceva bene la realtà della Chiesa in Brasile, la situazione politica e sociale, e la seguiva con particolare attenzione. Per questo la pastorale era il tema principale delle nostre conversazioni. La pastorale e la collegialità.
La collegialità si è espressa in forma molto originale nella diocesi di San Paolo...
ARNS: La collegialità tra i vescovi è caratteristica della successione apostolica. In una metropoli enorme come San Paolo, per la vastità e la complessità della realtà, si rese necessario che tutti i vescovi ausiliari assumessero la competenza di vicario generale nell’arcidiocesi, e che, al tempo stesso, ad ognuno di loro venisse affidato un territorio proprio nel quale rappresentare l’autorità dell’arcivescovo. Ad ogni vescovo venne poi affidata la responsabilità di coordinare una pastorale specifica per tutta la città. Lavorai insieme a nove vescovi. Questo clima di fraterna collaborazione, di mutuo confronto, di apertura e confidenza ha dato i suoi frutti. L’apostolato nell’arcidiocesi di San Paolo è fiorito in questo ambiente di grande collegialità. E io credo che proprio questo aspetto debba essere fondamentale nell’azione della Chiesa e dovrebbe essere riconsiderato in futuro.
È vero che Paolo VI le chiese di visitare le grandi diocesi del mondo?
ARNS: Paolo VI mi chiese di visitare le diocesi delle grandi metropoli. Andai a Parigi, Londra, New York, Chicago. Stilavo poi un resoconto riferendo al Papa su come i vescovi stavano lavorando. Nel 1975 mi chiese addirittura di elaborare un progetto di pastorale per le grandi città. In obbedienza alla sua richiesta lo feci, riflettendo in esso l’esperienza di collegialità maturata a San Paolo. Il cardinale Baggio mi disse anche che era ottimo ma tre anni dopo mi riferì che sarebbe stato archiviato.
Lei però a San Paolo continuò così?
ARNS: Pensai di continuare finché ciò fosse stato possibile.
E fu possibile fino all’89, quando la sua diocesi venne smembrata in quattro distinte diocesi. C’è chi disse che questo smembramento venne attuato per castigare una certa tendenza progressista della Chiesa brasiliana. Lei ebbe a soffrire incomprensioni e contrasti con Roma?
ARNS: Certamente. Per una pastorale in piena attività corrisposta dal popolo, era difficile mutare, da un momento all’altro, le linee di azione e ottenere il meglio necessario da una situazione tanto diversa. Accettai tutto in segno di obbedienza e nell’assemblea in cui comunicai ai sacerdoti tale decisione fui lungamente applaudito da tutti i padri, quando indicai loro questo motivo: l’obbedienza incondizionata agli ordini superiori.
Lei però non risparmiò (e neanche di recente le ha risparmiate) alcune critiche alla Curia romana...
ARNS: La Curia romana è un’altra faccenda. Giovanni Paolo II mi ha sempre ricevuto fraternamente, con molta cordialità. I nostri colloqui hanno riguardato spesso la situazione dell’America Latina, del Brasile in particolare, ed egli mi parlava della Polonia, della sua esperienza sperimentata in quel Paese. Il Santo Padre conosce la mia obbedienza incondizionata, la mia fedeltà a lui come successore di Pietro e l’amore che ho per la Chiesa.
Molti hanno visto in lei un sostenitore della teologia della liberazione...
ARNS: Quello che avevo da dire riguardo alla teologia della liberazione l’ho già detto molte volte, adesso non è più il caso di ripeterlo. La Chiesa latinoamericana ha molto sofferto. Spesso anche per essere stata equivocata in un contesto ideologizzato. Essere attaccati alla fede degli apostoli comporta sempre l’audacia nella difesa dei poveri e la denuncia dell’ingiustizia. Il mio pensiero va alla testimonianza di Oscar Romero.
Durante la conferenza di Santo Domingo nel ’92 lei subì un grave incidente. Cosa ricorda di quel fatto e quale ripercussione ha avuto?
ARNS: Mi ha provocato gravi problemi di salute, soprattutto alla vista, con i quali sto tuttora convivendo. Andò così: ero stato invitato a un cocktail al consolato brasiliano al quale mi recai con la macchina d’ordinanza scortata da un colonnello dell’esercito. Giunti sul posto, durante le manovre per il parcheggio, vidi sopraggiungere verso di noi ad alta velocità un’automobile militare. L’automobile aumentò di velocità proprio in prossimità della nostra vettura e ci colpì in pieno. L’impatto fu violentissimo. Battei la testa e per un certo periodo persi la memoria.
Dunque non è stato un incidente ma un attentato?
ARNS: Sì.
E sa chi sono stati gli artefici e perché lo hanno fatto?
ARNS: No.
Eminenza, lei ci ha ampiamente raccontato dell’amicizia e dell’affetto che la legava a Paolo VI, del quale quest’anno ricorre il ventennale della morte. Che cosa considera importante del suo insegnamento, del suo magistero?
ARNS: Paolo VI è stato il Papa dell’intuizione. La migliore intuizione della storia che ho conosciuto nella mia vita, non solo della storia particolare del mio Paese, ma anche della storia della Chiesa universale, nel cogliere con realismo ed estrema lucidità le condizioni in cui questa si trovava. È stato profetico nell’intuire che la realtà era mutata, e non c’era più da illudersi, non si parlava più a un popolo cristiano. E prendendo atto di questo dato non si sarebbe andati a rimorchio della storia né fuori dalla realtà. Paolo VI indicò la strada alla Chiesa e la strada da percorrere era essenziale, semplice, quella contenuta nel Credo del popolo di Dio e nella Populorum progressio: custodire la fede, servire i poveri.
E in quale direzione si è mossa l’azione della Chiesa nell’ultimo ventennio?
ARNS: Sono ormai un vescovo emerito e preferisco non dare giudizi sull’azione della Chiesa. Preferisco pregare e collaborare costantemente in comunione col santo padre Giovanni Paolo II. Credo che, se fosse ancora vivo, Paolo VI, guardando la situazione di oggi, sarebbe questo il consiglio che darebbe, che mi darebbe: pregare.


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