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VENT’ANNI DALLA MORTE DI...
tratto dal n. 10 - 1998

I papi del dialogo


«Paolo VI è stato uno dei papi più grandi della storia della Chiesa». «La morte inattesa di Luciani arrivò all’improvviso, come un colpo durissimo». Un articolo del cardinale arcivescovo di Seoul


del cardinale Stephen Kim Sou-hwan


È sorprendente pensare che sono passati vent’anni da quell’agosto 1978 che portò la morte di sua santità Paolo VI e l’elezione di sua santità Giovanni Paolo I.
Quando ripenso a Paolo VI, mi accorgo che lui è stato per molti aspetti una specie di padre per me. Fu lui che mi nominò prima vescovo di Masan, poi arcivescovo di Seoul, e infine mi fece membro del Collegio dei cardinali. Un ricordo è rimasto molto vivo nella mia memoria. Dovunque ci incontrassimo, lui mi ripeteva sempre: «Io prego in modo speciale per la Corea e per la Chiesa di Corea». All’inizio credevo che fossero parole che lui usava, cambiando il nome del Paese, quando incontrava qualsiasi cardinale. Poi un giorno lo incontrai insieme ad altri tre cardinali, e lui usò ancora una volta quelle parole con me, ma non disse nulla di simile nel salutare gli altri. Allora compresi che davvero papa Paolo VI aveva un amore e una sollecitudine speciali per il nostro Paese e la sua Chiesa.
Io non so da dove scaturisse questo interesse speciale per la Corea, ma ricordo che quando il cardinale Pignedoli, allora segretario della Congregazione per la evangelizzazione dei popoli, venne in Corea per la benedizione del nostro nuovo seminario, mi raccontò di un’occasione in cui egli aveva potuto notare lo stesso amore preferenziale. Anni prima, Pignedoli era in partenza per una visita in vari Paesi dell’Asia, e la Corea non era stata inclusa nel suo itinerario. A quei tempi lui era vescovo ausiliare di Milano e Montini era arcivescovo. Quando Pignedoli espose a Montini quale sarebbe stato l’itinerario del viaggio, il futuro Papa gli disse: «Se non vedi la Corea, non sai che ti perdi».
Io provo una devozione e un affetto speciali per Paolo VI, come quelli che prova un figlio per suo padre. Lo considero un uomo di profonda spiritualità. In particolare credo che questo sia alla radice della sua coraggiosa decisione di guidare il Concilio Vaticano II, da poco iniziato sotto Giovanni XXIII, fino alla sua trionfante conclusione, nonostante fosse cosciente dei molti rischi implicati. È grazie a lui che i bei documenti che uscirono dal Concilio furono messi in pratica nella Chiesa, con una serie di riforme che quasi inevitabilmente provocarono conflitti e turbamenti in diverse aree. Egli soffrì molto per le crudeli critiche sollevategli contro da alcuni ambienti, e per il triste spettacolo dei molti preti e religiosi che rinnegavano la propria vocazione. Alcuni gridarono al fallimento, ma lui portò a compimento un itinerario che fu di fatto il migliore possibile, una coraggiosa via media tra inconciliabili estremi.
Io apprezzo in particolare la sollecitudine di papa Paolo VIper la pace e la riconciliazione con le altre Chiese cristiane. Non dimenticherò mai il bel momento in cui lui e il patriarca di Costantinopoli Atenagora si abbracciarono, in un gesto teso a rimarginare le ferite dopo secoli di divisione tra Est e Ovest. In aggiunta a questo, fu papa Paolo VIche fece del primo gennaio di ogni anno la giornata mondiale della pace. Fu veramente il Papa dell’ecumenismo, del dialogo, della riforma.
Una più esplicita definizione della visione pastorale di papa Paolo VI può essere rintracciata nei vari documenti che segnarono il suo pontificato. La maniera con la quale continuò e condusse a positiva conclusione il Concilio Vaticano II, per poi mettere in pratica il suo spirito innovatore nella vita della Chiesa, fa di lui uno dei più grandi papi riformatori della storia. In particolare, la sua enciclica Ecclesiam Suam (6 agosto 1964), suggerì ancor prima della conclusione del Concilio, in termini chiari e concreti, i modi in cui a suo giudizio la Chiesa doveva mettere in pratica gli insegnamenti del Vaticano II, in un mondo che cambiava in fretta.
L’enciclica Populorum progressio (26 marzo 1967) diede chiara espressione al giudizio che la Chiesa aveva dello sviluppo. Paolo VI sottolineò che la persona umana deve essere posta al centro di ogni sviluppo, una nozione che papa Giovanni Paolo II ha continuato a indicare come l’assunto centrale, che sta alla base del pensiero sociale cattolico. In seguito, nella lettera apostolica Octogesima adveniens (14 maggio 1971), Paolo VI espresse l’allarme per il crescente inquinamento dell’ambiente, e fu il primo accenno a questo argomento in un documento sociale cattolico, un accenno veramente profetico.
Nella sua esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975) papa Paolo VI espose alcune idee fondamentali relative all’effettiva proclamazione del Vangelo in un mondo sempre più secolarizzato; a quel tempo la cosiddetta teologia della liberazione si stava diffondendo rapidamente, soprattutto in America Latina, e nel suo testo Paolo VI indicò le forme corrette dell’azione missionaria e, allo stesso tempo, chiarì il concetto di liberazione, influenzando in maniera decisiva l’evoluzione della metodologia della teologia della liberazione.
Un altro esempio della sua visione profetica è dato dall’enciclica Humanae vitae (25 luglio 1968). Profondamente segnato dall’intensa preoccupazione di papa Paolo VI per l’evoluzione della società contemporanea, questo testo incontrò una diffusa opposizione, ma ritengo che non fu niente di meno che un pronunciamento profetico nel quale lui intuiva la futura necessità di una chiara dichiarazione sull’etica sessuale e sulla tutela dei valori della famiglia, che sono fondamentali per la società.
Ricordo con profonda ammirazione il suo desiderio di riportare tutta la Chiesa ai valori evangelici essenziali, affinché fosse una Chiesa povera e caritatevole, somigliante a Cristo. Io ammiro profondamente Paolo VI, e non esiterei ad affermare che fu uno dei papi più grandi dell’intera storia della Chiesa.
Riguardo a papa Giovanni Paolo I, ricordo molto chiaramente il conclave nel quale fu eletto. Fu il primo conclave a cui partecipai come cardinale. Lui era un uomo di sincera umiltà e di preghiera. Desiderava soprattutto realizzare lo spirito del Concilio e questa fu la ragione del suo nome. Intendeva indicare che era sua intenzione continuare il lavoro iniziato dai suoi due immediati predecessori, Giovanni XXIII e Paolo VI.
Naturalmente la sua morte inattesa arrivò all’improvviso, come un colpo durissimo.


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