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VATICANO
tratto dal n. 09 - 1998

NEOLIBERISMO. Parla il presidente di Iustitia et Pax

«La patria è là dove c’è guadagno»


«L’unico potere che ormai decide gli assetti internazionali, al di là delle apparenti differenze, è quello economico... quello che Pio XI chiamava l’imperialismo internazionale del denaro». Intervista con il vescovo vietnamita Francesco Saverio Nguyên Van Thuân, per tredici anni in prigione, oggi a capo del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace


Intervista con Francesco Saverio Nguyên Van Thuân di Gianni Valente


Dai campi di rieducazione vietnamiti alla guida di un importante “ministero” vaticano, quello che – guarda caso – si occupa anche di diritti umani violati. Scorre una vena di paradosso nel destino di Francesco Saverio Nguyên Van Thuân, il vescovo vietnamita che il 24 giugno Giovanni Paolo II ha chiamato alla guida del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, assegnandogli l’ardua missione di succedere al cardinale francese Roger Etchegaray, grande protagonista della scena ecclesiale degli ultimi decenni. Nguyên Van Thuân, con sorriso bonario, spiega tutto con l’imprevedibilità dei giochi di Dio: «Quando sono stato espulso dal Vietnam, nel 1991, ero molto abbattuto, mi ripetevo che non avrei più potuto lavorare per la mia Chiesa e il mio Paese. Mai avrei pensato quello che poi è successo, per cui oggi posso lavorare per i poveri, i sofferenti e i perseguitati in ogni parte del mondo. Grazie all’aiuto di Dio, non mi è mai successo, alla lunga, di rimpiangere il mio destino».
La vicenda di Francesco Saverio Nguyên Van Thuân ricorda molte altre storie di vescovi cattolici dell’Estremo Oriente. Nel ’75 la Santa Sede lo aveva nominato vescovo coadiutore di Saigon, ma il regime comunista da poco instauratosi anche nel sud del Paese pose il veto. Poi, tredici anni trascorsi tra i campi di rieducazione e i periodi di domicilio coatto. Fino all’88, quando viene liberato ma non gli viene consentito di raggiungere la sede vescovile assegnatagli. Alla fine del ’91, Thuân viene espulso dal Vietnam con un “invito” coatto ad andare a visitare i genitori in Australia. La sua vicenda complica i già delicati rapporti tra il Vietnam e il Vaticano, che continua a riconoscerlo come legittimo pastore della ex Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh Ville. Nel ’94, dopo alcuni anni di “esilio” romano, il Vaticano trova per Thuân una collocazione in Curia, nominandolo vicepresidente del Consiglio della giustizia e della pace. Ma solo nel marzo di quest’anno si sblocca lo stallo sulla sede episcopale di Ho Chi Minh Ville, con la nomina del nuovo arcivescovo Jean-Baptiste Pham Minh Mân.

Come è diventato cristiano?
FRANCESCO SAVERIO NGUYÊN VAN THUÂN: Sono nato in una famiglia cattolica. Le famiglie dei miei genitori avevano già una lunga storia di fede cristiana. Durante la persecuzione del 1883 tutti i membri della comunità di cui facevano parte i progenitori di mia madre sono stati radunati in chiesa e poi messi al rogo. Sono morti tutti tranne mio nonno e una sua sorellina. Anche la famiglia di mio padre subì le persecuzioni nel secolo scorso. Allora le famiglie cristiane venivano smembrate e disperse. I vari membri venivano consegnati come servi a famiglie pagane. Mio nonno ebbe la fortuna di capitare in una famiglia pagana buona che gli permetteva di andare a trovare spesso il padre. Attraverso loro la fede è giunta fino a me. La mia vocazione sacerdotale è maturata negli ambienti della Crociata eucaristica, un movimento di devozione all’eucaristia presente in Vietnam quando ero giovane. Dal ’56, per tre anni, ho vissuto a Roma per studiare diritto canonico all’Ateneo di Propaganda Fide. Tornai in Vietnam nel ’59. All’inizio, dopo la prima guerra indocinese, si lavorava per la ricostruzione. Fui docente e rettore del seminario minore di Hué, e nel ’67 fui nominato vescovo di Nha Trang.
Conobbe Paolo VI?
NGUYÊN VAN THUÂN: Dal ’68 al ’74 sono venuto ogni anno a Roma per incontrarlo. Era angosciato per lo scoppio della guerra in Vietnam, ci chiedeva sempre relazioni e consigli su cosa poteva fare per favorirne la fine.
Come ricorda gli anni della guerra?
NGUYÊN VAN THUÂN: Ricordo le chiese distrutte, i fedeli e i sacerdoti morti sotto i bombardamenti. Nella mia diocesi c’erano le maggiori basi americane. I vietcong arrivarono a Nha Trang all’inizio del ’75, e sulle prime non ci furono problemi. Ma poi, il 25 aprile, la Santa Sede mi nominò vescovo coadiutore di Saigon, una settimana prima che fosse conquistata dai comunisti. Questi denunciarono l’operazione come «un complotto tra il Vaticano e gli imperialisti» per piazzare a Saigon degli agenti e dar vita a una cellula controrivoluzionaria.
Si aspettava questa reazione?
NGUYÊN VAN THUÂN: No, anzi. Ero presidente della Caritas, già avevo dato il mio contributo a programmi di assistenza postbellica nel Nord e mi apprestavo a fare lo stesso nel Sud, anche per avviare buone relazioni con le autorità. Ma la polizia non mi permise di svolgere il ministero a Saigon. Mi portarono in un villaggio vicino Nha Trang, dove iniziai il primo periodo di domicilio coatto. Era il 15 agosto, festa dell’Assunzione. Il 18 marzo dell’anno dopo, vigilia di San Giuseppe, mi arrestarono con l’accusa di aver partecipato a un complotto anticomunista ordito nella parrocchia di San Vincenzo, a Saigon. Il 1 novembre, festa di Ognissanti, partii per un campo di rieducazione del Nord. Poi ho passato vari periodi in prigione e a domicilio coatto. Tutte le date-chiave della mia storia coincidono con feste celebrate dalla liturgia. La mia liberazione definitiva avvenne il 21 novembre ’88, festa della Presentazione di Maria…
Poteva celebrare la messa, nei periodi di prigionia?
NGUYÊN VAN THUÂN: Lo facevo in segreto. Qualche sorso di vino me lo mandavano dentro bottigliette di medicinali i miei familiari, quando nelle lettere io gli chiedevo la “medicina liquida”. Nelle scatole di biscotti mi nascondevano piccoli pezzi di ostia. I cristiani in carcere portavano sempre con sé del vino e del pane, e quando incontravano un prete, gli facevano celebrare l’eucarestia. Approfittavamo anche di momenti collettivi come le riunioni di indottrinamento: i sacerdoti preparavano delle piccole buste con ostie consacrate e le distribuivano tra i cristiani. La mia croce episcopale l’ho costruita in carcere, con un pezzo di legno e qualche supporto di metallo e la catena l’ho fatta con il metallo dei fili elettrici. Mi hanno aiutato anche alcuni carcerieri, che erano diventati miei amici.
Per lunghi anni lei non ha potuto fare altro che aspettare e pregare di essere custodito nella fede. Ora, è stato chiamato alla guida del dicastero vaticano più “operativo” sul piano sociale. Cosa conserva, nella sua nuova condizione, di quella esperienza?
NGUYÊN VAN THUÂN: Tutti hanno provato almeno una volta la sensazione dell’inutilità dei propri sforzi, dei propri progetti. Questa inutilità pratica per me è stata la condizione normale per tredici anni. Avrei voluto fare tante cose, servire i miei fedeli, ma non potevo. Adesso posso lavorare, avere tante attività. Ma davanti ai problemi del mondo, davanti alle guerre, le violenze, le discriminazioni, che ogni giorno si moltiplicano, io mi sento incapace, inadeguato. Mi conforto ripetendomi le parole di Madre Teresa. A chi le faceva notare che la sua opera era una goccia di acqua nell’oceano, lei rispondeva sempre che l’oceano è fatto di tante gocce.
Quali sono i grandi problemi sociali su cui si concentrerà l’attenzione del vostro dicastero?
NGUYÊN VAN THUÂN: Adesso il grande problema sociale è il lavoro. È il sistema economico stesso che, mentre omologa tutte le economie nel mercato globale, taglia fuori il lavoro. E la mancanza di un lavoro è il colpo più grave che si possa assestare alla dignità umana. Poi c’è il debito internazionale, che stritola le economie povere e causa tragedie umane in tanti Paesi del Terzo Mondo. Infine la pena capitale, applicata ancora in tante parti del mondo, anche in Paesi che pretendono di considerarsi all’avanguardia nella civiltà e nella difesa dei diritti umani.
È vero, come sostengono alcuni, che dopo l’89 la Chiesa ha rinunciato alla sua neutralità nei confronti dei sistemi economici e ha fatto una scelta di campo a favore del sistema capitalista?
NGUYÊN VAN THUÂN: Nel sistema capitalistico i regimi sono generalmente democratici, c’è la libertà di parlare e scrivere, ma il vero potere ormai viene dal denaro. L’unico potere che ormai decide gli assetti internazionali, al di là delle apparenti differenze, è quello economico. Ricordo di aver comprato un libro, perché il titolo mi incuriosiva: si presentava come uno studio sulle “tre superpotenze”. Pensavo che si parlasse di Stati Uniti, Unione Sovietica (che era ancora in piedi) e Cina. Ho cominciato a sfogliarlo, e mi sono accorto che il titolo si riferiva alle tre monete: il dollaro, il marco e lo yen… Mi ha ricordato le parole di Pio XI, che nell’enciclica Quadragesimo anno parlava dell’imperialismo internazionale del denaro, per cui «la patria è là dove c’è guadagno»…
Lei cita la Quadragesimo anno. Ha parlato del problema del lavoro, sul quale il Catechismo di san Pio X diceva: «La frode del salario agli operai è un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio». Le parole semplici della Tradizione appaiono come le più efficaci e coraggiose, anche sui problemi sociali…
NGUYÊN VAN THUÂN: Le parole della Tradizione sono sempre quelle che contengono più novità, perché non sono teorie astratte, ma toccano la vita.
Quali sono i programmi per il futuro?
NGUYÊN VAN THUÂN: Abbiamo da poco finito un Congresso internazionale sulla pastorale dei diritti umani, un fronte su cui sono impegnate numerose commissioni nazionali di Iustitia et Pax. Erano presenti anche cinquanta vescovi e quaranta sacerdoti. Prendendo in mano questo dicastero, almeno all’inizio la mia intenzione è di riflettere e ascoltare le proposte e le richieste di aiuto che ci vengono dalle Chiese particolari. Faremo anche interventi e documenti, ma non sarà la cosa principale.
Cosa pensa del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale? Il vostro dicastero ha iniziato un dialogo con queste istituzioni, spesso contestate.
NGUYÊN VAN THUÂN: Ho partecipato anch’io agli incontri avuti in questa sede con i loro rappresentanti. Penso che bisogna distinguere le persone che ci lavorano. Tra loro ci sono sicuramente persone capaci, competenti e di buona volontà. Mi riservo di approfondire la valutazione su questi rapporti.
Quale eredità le lascia il suo predecessore, il cardinale Etchegaray?
NGUYÊN VAN THUÂN: È una grande figura di pastore coraggioso, brillante, che non esita ad andare dovunque c’è una richiesta di soccorso da parte di chi ha bisogno: Vietnam, Cina, Cuba, Mozambico, Angola, Ruanda e Burundi, Libano, Sarajevo. Dovunque ha testimoniato la sollecitudine della Chiesa per chi soffre.


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