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POLITICA INTERNAZIONALE
tratto dal n. 09 - 1998

VISTI DA BRUXELLES. L’analisi del commissario europeo

«…cattolici, ma nella laicità del potere»


A tu per tu con Emma Bonino. Il futuro politico dell’Unione europea nel nuovo “disordine mondiale”. I cattolici, la laicità del potere, il Tribunale penale internazionale, la tolleranza. «Il papa è il papa, non il presidente della Repubblica. Che il papa si proclami contro l’aborto è sacrosanto, ma lo Stato deve essere laico, perché ciò che potrebbe essere peccato non diventi automaticamente reato»


Intervista con Emma Bonino di Giovanni Cubeddu


C’è un bel Pinocchietto colorato di legno intagliato, che guarda fisso l’interlocutore da dietro i grandi occhiali da sole che qualcuno (ma vuoi vedere che è stata proprio “la commissaria”?) gli ha appoggiato con ironia sul celeberrimo naso. Poco più avanti si nasconde un cestino con piantine e uccellini intrecciati di pagliuzze, proprio vicino allo scrittoio, dove si posano e vengono a ripetizione sfogliati rapporti e dossier. Su quelle pagine passano le storie e le vite di poveri e profughi tra i più disperati del mondo. La mano veloce che li gira e rigira è quella di Emma Bonino, cinquant’anni compiuti l’otto marzo scorso, festa della donna. E che donna, questa “eurocrate” che, dalle barricate non violente delle battaglie radicali, dalle aule del Parlamento italiano ed europeo, è giunta al decimo piano dell’edificio della Commissione europea a Bruxelles. Il lussemburghese Jacques Santer, che presiede la Commissione, una così non pensava esistesse.
Nulla viene rinnegato della propria storia, passata e recente: basta soltanto guardare i poster e le foto sul muro alle spalle della scrivania, o sul mobiletto di lato. Immagini in bianco e nero dei sit-in imbavagliati con Marco Pannella, le campagne antiproibizioniste o per quel po’ di libertà in più che l’esistenza di Radio Radicale assicura a tutti via etere; sull’appendiabiti c’è un burka che le donne afghane le hanno donato quando lei le ha raggiunte a Kabul, sfidando il regime talebano (e venendo arrestata). C’è l’istantanea con Chirac, quella storica ma attualissima di lei e Marco con il Papa. Basta così, ma si potrebbe continuare.
La vita quotidiana della “commissaria” si moltiplica oggi negli incontri e nei viaggi che la sua funzione – con impegnativi portafogli, tra cui quello per l’aiuto umanitario – le impone. Stupisce che la grinta sia quella di sempre, tanto che neanche gli euroscettici media inglesi riescono mai a colpirla a fondo: del suo impegno a favore dell’ideale europeo anche loro riconoscono qualità e quantità. Emma Bonino al lavoro dà l’impressione di stare tutta sulle cose concrete, di interessarsi (appassionarsi) agli uomini (e alle donne) reali dietro le statistiche dei disastri e la contabilità delle perdite. Nell’84, una conferenza organizzata da lei si intitolava: «I poveri non mangiano teorie». Quando si esce dalla stanza dopo aver parlato più di due ore resta una viva impressione. Ecco il resoconto di questo incontro.

Cosa significano per lei i quattro anni già trascorsi da commissario europeo?
EMMA BONINO: Mi hanno dato la certezza della giustezza di una visione federalista, che è il solo metodo corretto di promozione della stabilità e della pace in Europa. Da federalista però sto diventando molto impaziente sul completamento dell’Europa. Ci occorrono tutta una serie di competenze che sono poco o male sviluppate nei trattati di Maastricht e di Amsterdam: politica estera, di difesa, di cittadinanza, dell’immigrazione, della giustizia. E bisogna fare in fretta, perché il mondo “extraeuropeo” ha subìto cambiamenti stratosferici. Dobbiamo innanzitutto accrescere la democraticità dell’Unione, in termini di meccanismi elettorali, di responsabilità. La divisione dei poteri tra il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario. Oggi il Parlamento europeo è l’unica istituzione eletta direttamente, ma ha pochi poteri; la Commissione è nominata, ma non è responsabile…
E che propone il commissario Bonino?
BONINO: Anzitutto di dare all’Europa una politica estera e di difesa comune. Abbiamo la politica comunitaria della pesca, dell’agricoltura, la moneta unica… va bene. Ma queste non sono più sufficienti per dare risposte adeguate alla complessità delle crisi sorte negli anni Novanta in un mondo monopolare…
Che pienamente monopolare, ora, non sembra più…
BONINO: Perché gli Stati Uniti hanno proiezioni di politica estera che appaiono molto più l’espressione di preoccupazioni nazionali, dovute a questa o quella lobby: la lobby ebraica, il Pentagono, il gruppo degli esuli cubani in Florida per la politica verso Cuba… Siamo passati da un mondo bipolare a un mondo monopolare e ora stiamo quietamente andando verso un mondo destrutturato.
Un’Europa con istituzioni rinnovate e maggiori competenze peserebbe assai di più.
BONINO: Esempio: sulle vicende del Congo, dell’Afghanistan, del Kosovo invece di avere una politica estera ne abbiamo quindici. Quindici Paesi con culture diverse o hanno procedure che li costringono a mediare gli interessi nazionali per trovare una posizione comune (perché si vota a maggioranza o maggioranza qualificata) oppure continuano ad agire, o a non agire, decidendo all’unanimità. Un’unanimità che non c’è mai, e ciò corrisponde di fatto a stabilire un diritto di veto.
È prefigurabile un asse di Paesi pro e uno contro la riforma? Chi spinge sul freno?
BONINO: Ci sono due visioni di Europa che si sono confrontate in modo poco trasparente durante tutto il negoziato di Amsterdam. I Paesi nordeuropei (eccetto la Finlandia) e il Regno Unito pensano all’Europa come ad una grande zona di libero scambio, più o meno un “grande mercato”, e in questa prospettiva a loro sta anche bene che ci siano allargamenti a nuovi membri. Gli altri Paesi invece, semplicemente credono nell’identità politica e culturale del continente. E quindi hanno sempre sottolineato che gli allargamenti vanno gestiti se e mentre si approfondisce la democraticità dell’Europa, si conferisce più potere al Parlamento europeo, si fornisce la Commissione di maggiore responsabilità di proposta. Queste due visioni del mondo – e come sarebbe stato appassionante per l’opinione pubblica potere assistere a un tale dibattito! – non sono mai venute alla luce apertamente. Nel negoziato che ha condotto al Trattato di Amsterdam tutto si è risolto nei corridoi, in un linguaggio assolutamente incomprensibile dai toni molto secretive. Bisogna rivedere il Trattato.
La mancanza di identità europea è sin troppo palese nella politica estera. Prendiamo, ad esempio, il Mediterraneo. Di Miguel Angel Moratinos, portavoce dell’Unione europea nel processo di pace in Medio Oriente, si ricordano raramente significative dichiarazioni. Non è suo demerito, ma sembrano essere attivi solo gli americani.
BONINO: I quali sono spinti da ragioni elettorali e da motivi interni, leggasi potenti lobby ebraiche… Io sono notoriamente una filoisraeliana, ma nel senso che apprezzo l’ancoraggio istituzionale e democratico di quel Paese, nonostante le vicissitudini esterne e il forte ruolo dei militari. Può capitare a tutti di eleggere l’uomo sbagliato. Per fortuna lo si può cambiare senza spargimenti di sangue la volta seguente. Nelle dittature invece non succede così. Del governo attualmente in carica in Israele io discuto fortemente la filosofia politica, dopodiché resto amica di Israele.
Torniamo al processo di pace.
BONINO: La difficoltà europea in proposito è arcinota: i quindici hanno sul Medio Oriente posizioni ampiamente divergenti. Sul traino americano si è arrivati fino ai trattati di Oslo, ad approvare quel modello di processo di pace: e noi europei dietro, con l’assegno degli aiuti in mano (sì, perché gli Stati Uniti decidono la politica ma non la pagano). Quando il processo di pace si è bloccato (si sta ancora discutendo delle percentuali di territori palestinesi da liberare), cosa è rimasto? I soldi spesi dei cittadini europei, i quali, vorrei qui ricordarlo, sono i più grandi contribuenti finanziari del processo di pace.
L’Europa paga ma non decide, e soffre politicamente ed economicamente di alcune decisioni dell’Onu ampiamente influenzate dal Dipartimento di Stato americano. Le sanzioni alla Libia, ad esempio. Italia e Francia in particolare avrebbero interesse alla ricomposizione del contrasto. Dini ha chiesto la garanzia di Kofi Annan per risolvere il caso Lockerbie.
BONINO: Sulla Libia, come sul Kosovo, se spulciamo gli atti, di dichiarazioni europee se ne trovano a decine (sul Kosovo finora ne ho contate 35), ma non c’è nulla di sostanziale. In tutti i punti caldi del mondo il canovaccio è identico: noi commissari arriviamo sul posto, facciamo una riunione con gli ambasciatori europei e ci imbattiamo in quindici diverse opinioni. L’Europa non tratta del Kosovo se non dal punto di vista umanitario per chiedermi quanti carri e quante tonnellate di aiuti mandare. E io rispondo: scusate, ma se non abbiamo neppure accesso, non c’è sicurezza, non sappiamo neanche dove sono gli sfollati, non siamo armati e quando la polizia serba ci sbarra la strada noi salutiamo e facciamo dietrofront… Il nostro problema non è solo umanitario, ma di volontà politica e militare.
Anche rispetto alla crisi irachena.
BONINO: Se pensiamo che solo pochi mesi fa noi eravamo alla vigilia di una seconda guerra in Iraq e che il Consiglio affari generali non si è proprio riunito! Faremmo una grande operazione di trasparenza se raccontassimo pubblicamente queste cose, cioè che noi una politica estera comune non l’abbiamo voluta! Vorrei anche ipotizzare che ciò sia stato fatto in buona fede: magari i Paesi più forti, quelli presenti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, o al G7, o che sono potenze nucleari, reputano che sia più efficiente la giusta posizione di alcune politiche nazionali. In verità non è così: per stipulare un contratto petrolifero con il Kazakistan non serve essere membro del Consiglio di sicurezza, e questa non è politica estera ma commerciale.
Questa estate ci sono stati due attentati ad ambasciate statunitensi in Africa, in Kenia e Tanzania. Gli americani hanno subito indicato la pista del terrorismo islamico, reagendo militarmente. Che pensa di questa situazione?
BONINO: Less than clear, la questione è assai poco chiara.
Il segretario di Stato americano Madeleine Albright, in un suo recente articolo sul Corriere della Sera, ha pesantemente lamentato che sulla “questione Saddam” in Consiglio di sicurezza dell’Onu c’è chi non segue la linea americana. Può interpretarsi come un indice più generale di equilibri in movimento?
BONINO: Non dobbiamo fare gli antiamericani d’accatto, piangere se gli Stati Uniti non intervengono dove vogliamo noi e una volta intervenuti magari dirgli Yankees go home! È noto che la politica estera statunitense risponde ai loro interessi nazionali. Siamo noi che dobbiamo rimetterci in corsa. Sui Paesi dell’Est abbiamo stabilito che ci sarà l’allargamento dell’Unione a nuovi membri, e abbiamo stabilito anche le procedure: il progetto è più chiaro. Sul Mediterraneo invece siamo assai più incerti. Io sono d’accordo con Klaus Kinkel, il ministro degli Esteri tedesco, quando dice che l’Europa non potrà intervenire in tutte le parti del mondo. Ma almeno a due passi da casa nostra sì! Che sia l’Albania, il Kosovo, i Paesi dell’Est, il Mediterraneo, non importa… Ma dovremmo avere il coraggio di definire davanti all’opinione pubblica quelle che noi riteniamo zone di interesse europeo.
Nei confronti della Russia come si comporta l’Europa?
BONINO: C’è ancora chi dice “buttiamo lì i soldi”. Salvo poi trovare chi paghi, visto che la crisi russa è obbiettivamente, prima di tutto, una crisi politica, che ha poi conseguenze finanziarie disastrose, in una fase in cui al comunismo si è sostituita la cleptocrazia e non certamente la democrazia. Per inciso, questo fa tabula rasa di alcuni slogan molto di moda negli anni Novanta, per cui caduto il comunismo saremmo finalmente tutti diventati democratici, e non avremmo più avuto bisogno di armi… Ho veduto organizzare innumerevoli, inutili grandi convegni sulla peace dividend, all’insegna dello “spenderemo i soldi destinati alle armi per lo sviluppo”. Roba incredibile! Il cadere di una dittatura non è automaticamente, per trionfo provvidenziale, l’ingresso nella democrazia. Mai viste tante guerre e tanti disastri, tante spese in armi come dal ’90 in poi! (E poi, se andiamo a controllare, le vittime civili sono state molte di più che non quelle militari: è cambiato l’obiettivo. Non sono vittime “accessorie” di una azione militare, passanti sfortunati, ma sono diventati il bersaglio principale). Tutti i sogni pacifisti, quell’ottimismo d’accatto degli anni Novanta, non si sono mai avverati. Quando non sono stati proprio la copertura di qualcosa di peggio.
Lei si è interessata personalmente della crisi congolese. Ha misurato il grado di attenzione dell’Europa sul dossier Africa?
BONINO: Normalmente non se ne parla. Ricordo che una volta in Consiglio affari generali, di ritorno dal campo profughi congolese di Tingi-Tingi, volevo esporre la gravità della situazione. Beh, prima di poter intervenire ho atteso dalle nove di mattina alle sette e mezzo di sera, e poi il dibattito è durato tre minuti… Oggi di fronte alla crisi del Congo ci troviamo in una situazione paradossale: di tutti Paesi centrafricani coinvolti nella guerra l’Europa finanzia lo sviluppo, con la conseguenza che quei leader hanno più soldi per farsi la guerra. Gli paghiamo le armi! Tant’è che stiamo pensando di bloccare questi aiuti. In Africa non siamo un partner politico per nessuno, vuoi per effetto della colonizzazione o per come è stata mal gestita la decolonizzazione.
Il dibattito sul colonialismo non finisce mai…
BONINO: Per rispondere con una provocazione impopolare, credo che sia da discutere se per le popolazioni delle ex colonie sia stato più dannoso il processo di decolonizzazione o quello di colonizzazione: chi esaminerà la storia con un distacco di tempo sufficiente potrà giudicare. Non basta essere nero per essere migliore. Non basta neppure essere bianco, benché noi lo avessimo sempre teorizzato. Comunque, tutta la demagogia sulle “soluzioni africane ai problemi africani”, sulla new African leadership, sul “Rinascimento africano” dove ha portato? Con tutti questi begli slogan tipo not aid, but trade; market oriented; good governance, abbiamo ora l’Africa in fiamme. Oh, certo, Joweri Museveni e Paul Kagame (rispettivamente il presidente e l’“uomo forte” dell’Uganda e del Ruanda, ndr) si presentano bene e parlano un ottimo inglese, sono “orientati” all’economia di mercato e fanno solo del “buon governo”. Poi in questo bel gruppo hanno voluto mettere anche Laurent Kabila: che non è propriamente un paladino del mercato e del buon governo.
Le strategie anglo-americane in centro Africa non sono state finora coronate da successo.
BONINO: Sin dall’inizio sono stata molto perplessa: i leader del “Rinascimento africano” soffrono manifestamente di allergia alle elezioni, ai diritti umani, al rispetto delle convenzioni internazionali e delle frontiere altrui. È su questo rispetto dei valori che si basa il progetto africano del Dipartimento di Stato? Ci fa piacere.
Con Cuba qualcosa potrebbe cambiare?
BONINO: Lì viviamo una situazione grottesca. La Commissione non può avere un delegato stabile all’Avana, di fatto per via dei problemi che Cuba ha con gli Stati Uniti. Di conseguenza l’Europa non ha una politica unitaria su quel Paese, se ne occupa il delegato europeo in Messico. La cosa più ridicola è che quasi tutti i Paesi membri hanno il loro ambasciatore a Cuba. Ecco un lato frustrante per l’Europa: i nostri ministri degli Esteri queste cose le sanno meglio di me.
Tra giugno e luglio si è tenuta con successo a Roma la conferenza delle Nazioni Unite per la creazione di un Tribunale penale internazionale (Tpi). Tra l’altro, tutti i Paesi dell’Unione europea hanno aderito. Manca, prima tra tutte, la firma degli Stati Uniti. Può considerarsi anche questo un passo verso nuovi equilibri mondiali?
BONINO: Sì. Ora però il problema sarà ottenere velocemente – tra i circa cento Paesi che hanno aderito – le sessanta ratifiche parlamentari necessarie a dare effettività al Tribunale. Che le Nazioni Unite siano riuscite a realizzare questo trattato dal ’92 al ’98 significa già aver viaggiato a velocità supersonica.
Il successo della conferenza è stato attribuito anche alla sua tenacia, al suo impegno costante. Ci racconta come è andata?
BONINO: All’inizio dei lavori parevamo tutti allegri e concordi. Nelle prime tre settimane di discussione quasi tutte le 1700 parentesi quadre nel testo del trattato sono state sciolte. Nell’ultima settimana ci siamo però trovati di fronte i problemi veri: americani e altri speravano in un Tribunale sottoposto al Consiglio di sicurezza; gli altri Stati volevano invece che non fosse solo il Consiglio di sicurezza ad avere un’influenza, ma che il procuratore avesse dei margini di inchiesta autonomi. Per farla breve: con il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza si voleva bloccare il procuratore del Tpi, e esprimere soltanto una giustizia politicizzata. Ancora oggi gli amici americani non hanno il coraggio di manifestare pubblicamente questo loro progetto.
Scusi, ma l’obiezione sembrava esattamente contraria: gli Stati Uniti hanno detto di non voler vedere i propri soldati in missione all’estero finire processati per motivi politici. Come rispondete?
BONINO: Ma la giustizia del Tpi opera in via complementare! Esempio: se viene aperta un’inchiesta in Libano, dove operano anche soldati americani, lo statuto del Tpi stabilisce che entro un mese il procuratore deve convocare le autorità americane, avvertirle dei suoi fondati sospetti e consegnare il suo dossier, chiedendo loro se hanno intenzione di agire autonomamente. Solo se un Paese non possa o non voglia fare giustizia si attiva il Tpi. Oltretutto esiste anche una disciplina per chiedere le dimissioni del procuratore. E poi non è un problema solo degli americani, ma dei soldati inglesi, pakistani, italiani in giro per il mondo… La verità è che gli americani non volevano neanche arrivare a questa fase di discussione della conferenza. E per essere chiari, il problema non sono le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, ma quelle della Cia, quelle “coperte”.
La Santa Sede era presente con una sua delegazione. Non certo per sventare controlli sulle sue operazioni coperte… Che posizione e che efficacia ha avuto nei lavori?
BONINO: Vi è stato un momento di crisi con la delegazione vaticana quando abbiamo condannato lo stupro sistematico come crimine contro l’umanità, poiché si toccava il problema dell’aborto. Lo reputo uno scontro marginale, rispetto al fatto che a proposito di prevenzione umanitaria, come sul problema delle mine antiuomo, la Santa Sede è sempre molto attenta. E una serie di Paesi cattolici, magari tentennanti sulla costituzione del Tpi, sono stati aiutati dalla presenza e dall’azione vaticana.
In che modo?
BONINO: La Santa Sede ha funzionato da copertura ideale e morale per molti delegati, i quali hanno aderito al Tpi giocando sul fatto che, diversamente, non avrebbero saputo come spiegare ai propri cittadini cattolici un passo indietro del loro governo sui temi umanitari. Le nostre campagne vivono della credibilità, e per questo la Santa Sede ci dà una grande cauzione morale. Vede, io sono laica, non cattolica, ognuno segue una storia personale… Ma ogni volta che, anche per via del mio lavoro di commissario per l’aiuto umanitario, mi imbatto in organizzazioni cattoliche o nella diplomazia vaticana, scopro che sui valori di fondo, sulla dichiarazione dei diritti dell’uomo nella sua interezza, siamo d’accordo. E quando lavoriamo insieme, a livello pratico, devo dire che ci intendiamo benissimo.
Lo scorso anno alla conferenza intergovernativa di Amsterdam si stabilì che a livello europeo lo status delle Chiese veniva parificato a quello delle organizzazioni non confessionali, dei circoli culturali. Oltretevere non sono stati molto soddisfatti.
BONINO: Io sono convinta che la religione è un fatto individuale di grande, grande rispetto. E solo in questa prospettiva possiamo avviarci ad una situazione di tolleranza, rafforzando la laicità di uno Stato che non si occupi delle coscienze. Pur nei veti incrociati di Stati laici e Stati cattolici, ero quasi certa che sul tema dello status delle Chiese si sarebbe giunti in Europa a questa decisione. Possiamo essere tutti più cristiani e più cattolici, ma nella laicità del potere. Vorrei anche ricordare che nel continente abbiamo oggi 16 milioni di musulmani: sono il sedicesimo Stato dell’Unione europea. Come li dobbiamo considerare? Infedeli, criminali, cittadini europei? Può anche capitare ai cattolici di essere minoranza. Non è meglio chiedere che lo Stato sia laico, piuttosto che porsi nella prospettiva delle guerre di religione, o peggio, della persecuzione strisciante?
Questa è l’idea di Europa di Emma Bonino…
BONINO: La tolleranza, assolutamente. Il papa è il papa, non il presidente della Repubblica. Che il papa si proclami contro l’aborto è sacrosanto, ma lo Stato deve essere laico, perché ciò che potrebbe essere peccato non diventi automaticamente reato.
L’ultima domanda. Lei, insieme a Marco Pannella, è celebre per le sue battaglie politiche e per i diritti civili, sin dagli anni Settanta. È molto cambiata l’Italia? Vede un interesse genuino per la politica?
BONINO: Non mi pare. Le nostre erano battaglie per grandi idee: che cos’è lo Stato laico, il rispetto per la libertà e la religione di ciascuno… Noi radicali ci hanno dipinti sempre come dei libertini, quando invece abbiamo esaltato sempre la responsabilità individuale, il limite dove lo Stato non deve entrare. «Non c’è reato se non c’è vittima», diceva Einaudi, e lo Stato in termini legislativo-penali non deve intervenire. Oggi questo desiderio, questa lotta non c’è più, ma tutto mi appare di un conformismo, di una mediocrità angosciante.
Anche in Europa prospera una società crassa, che non vede al di là del suo ombelico, a cui non interessa nulla delle tragedie al di fuori dei suoi confini.
Per questo loro conformismo non amo molto i ragazzi d’oggi, piuttosto ne ho pena. Non hanno nulla da conquistare. È una grande povertà per la loro vita. Persino in termini di trasgressione non hanno più nulla da trasgredire. Quando ero piccola, a diciott’anni, il sogno di tutti era di andare a vivere per i fatti propri, perché mamma e papà erano inflessibili: a mezzanotte non si poteva rientrare a casa, e “questo non si può fare e quello neppure”… Ma li ringrazio anche per questo. Oggi magari si resta a casa sino ai trent’anni, ma mi sembra che nella vita manchino le difficoltà da superare, le cose da scoprire, il gusto dell’avventura.


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