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VENT’ANNI DALLA MORTE DI...
tratto dal n. 09 - 1998

INTERVISTA. I ricordi del cardinale Bernardin Gantin

Papi umili e fedeli


«Tutti conoscono il motto “Humilitas” di Giovanni Paolo I... e non è vero che Paolo VI ha lasciato andare tutto nel disordine. Basta ricordare il Credo del popolo di Dio in cui sono fissati i punti fermi della sua fede profonda, della fede della Chiesa». Parla il decano del Sacro Collegio


Intervista con il cardinale Bernardin Gantin di Gianni Cardinale


«In questi venti anni, dovunque mi trovassi, anche in capo al mondo, sono sempre tornato a Roma per partecipare alla messa commemorativa della morte di Paolo VI». Anche quest’anno il cardinale Bernardin Gantin, decano del Sacro Collegio, non è mancato alla celebrazione in suffragio di papa Montini tenuta da Giovanni Paolo II il 6 agosto a Castelgandolfo. Il porporato africano è un grande devoto di papa Montini. Molto schivo, non ama concedere interviste, ma per 30Giorni ha fatto una eccezione. L’ha fatta per ricordare appunto la figura di Paolo VI, anche se nel corso del colloquio non ha mancato di rammentare il breve, «ma significativo» pontificato di Albino Luciani. Nell’intervista il cardinale Gantin non ha mancato di rilasciare anche dichiarazioni piuttosto comprensive sul caso Lefebvre.
Gantin è nato nel 1922 in Benin.A soli 34anni, nel 1956, è ausiliare di Cotonou, di cui diviene arcivescovo quattro anni dopo. Nella Curia romana dal ’71, è stato negli ultimi quattordici anni prefetto della Congregazione per i vescovi. «Sono stato il prefetto più longevo, almeno in questo secolo. Lo scorso anno ho compiuto 75 anni e, anche per essere di esempio per gli altri vescovi, ho subito rassegnato le mie dimissioni al Papa e lui, con grande gentilezza, mi ha concesso un anno di proroga. Ora ho ottenuto dal Papa l’autorizzazione a lasciare questo servizio ad altri più preparati, più addestrati, che serviranno il Pontefice e la Chiesa in modo diverso, ma col medesimo cuore». Il 25 giugno infatti Giovanni Paolo II ha nominato nuovo prefetto della “fabbrica dei vescovi” il brasiliano Lucas Moreira Neves. Gantin continua comunque a far parte di una mezza dozzina di dicasteri romani. «Spero di continuare a dare il mio contributo. La mia salute non è tanto buona, il Papa lo ha capito e con grande senso di amicizia e di comprensione paterna mi ha concesso un periodo, per così dire, di riposo sabbatico per riprendermi un po’».
Gantin è inoltre da cinque anni decano del Collegio cardinalizio: «I cardinali vescovi mi hanno eletto, non so bene perché... Si dice che sia una nomina a vita. Lo è, più o meno. Ma dopo gli ottanta, visto che non servo più a niente qui, vedremo...». Per inciso il porporato africano ci fa anche una piccola “rivelazione”: in futuro, il titolo di “sottodecano”, la cui elezione è prevista dopo che i due nuovi cardinali dell’ordine dei vescovi (Moreira Neves e Roger Etchegaray) prenderanno “possesso” delle diocesi, muterà in “vicedecano”. «Ho chiesto a monsignor Re (Giovanni Battista Re, sostituto alla Segreteria di Stato, ndr) di abolire il titolo di sottodecano e di sostituirlo con quello di vicedecano. Quel “sotto” è veramente brutto. Se si pensa poi che l’ultimo “sotto” è stato un cardinale della levatura di Agostino Casaroli...».
Eminenza, lei è considerato un grande devoto di Paolo VI. È stato il primo prefetto della Curia romana ad appoggiare pubblicamente nel 1992 la causa di beatificazione di papa Montini dopo la richiesta fatta in tal senso dalle Conferenze episcopali brasiliana, argentina e italiana.
BERNARDIN GANTIN: Certo, in quella occasione ho detto che Giovanni Battista Montini è un vero santo, e lo è da sempre. Inoltre ho aggiunto che questo era, ed è, il sentire di tutta l’America Latina e di tutta l’Africa. Paolo VI è il primo papa che ha visitato l’Africa: si trattenne in Uganda dal 31 luglio al 2 agosto ’69. Furono due giorni di grande intensità per il popolo africano, per la Chiesa d’Africa e per l’episcopato, il quale fece coincidere questa visita con il primo simposio che coinvolgeva tutta la Chiesa africana nelle persone dei presidenti delle conferenze episcopali. Così anch’io, che guidavo l’episcopato del Benin, potei partecipare all’avvenimento. Fu un evento grandissimo che non ha ancora cessato di suscitare commozione e gratitudine nel cuore di tutti. Il Papa, che ha presieduto ai primi passi del simposio, ha aperto la strada della speranza alla nostra Chiesa dicendo: «Voi dovete avere un cristianesimo africano, dovete ormai essere i missionari di voi stessi». Ordinò poi simbolicamente dodici vescovi per sottolineare l’apostolicità della Chiesa. Comunque all’epoca non lo conoscevo ancora personalmente, l’ho solo salutato come tutti i presenti.
Eppure, due anni dopo, nel 1971, papa Montini l’ha chiamata nella Curia romana...
GANTIN: Sì, è stata una grande sorpresa per me. Ma forse c’è una spiegazione. Paolo VI aveva mandato nella nostra regione come delegato apostolico nell’Africa nord-occidentale – con sede a Dakar – l’arcivescovo Giovanni Benelli, nunzio apostolico di grande spicco, di grande senso umano e missionario. Ricordo che quando visitò il Benin, lo portai al nord, la parte più povera e meno evangelizzata del Paese. Passammo una settimana insieme, condividendo la vita dei missionari e dei poveri. Ricordo che rimase colpito nel vedere la pochezza e la povertà dei mezzi a disposizione dei missionari, si commosse fino alla lacrime alla vista del misero posto dove viveva uno di loro. Poco dopo quel viaggio, Paolo VI chiamò Benelli a Roma come sostituto nella Segreteria di Stato. Forse è stato lui a suggerire la mia chiamata. Ricordo ancora benissimo come mi arrivò la notizia della mia chiamata a Roma. Il successore di Benelli, Giovanni Mariani, venne a Bamako, in Mali, dove era in corso una riunione regionale dei vescovi, e mi disse che Paolo VI voleva un africano a Roma e aveva scelto me come segretario aggiunto di Propaganda Fide. Fui molto turbato, sapevo che avrei dovuto abbandonare la mia diocesi, in cui mi trovavo benissimo, e anche la mia mamma che era ancora in vita. Dopo alcuni giorni scrissi un biglietto in cui comunicavo la mia accettazione e spiegavo il perché. «Il Papa ha parlato» scrissi «e per me è Cristo che ha parlato». E aggiunsi: «Più di un secolo fa da molti Paesi sono arrivati in Benin i missionari, e lo hanno fatto in obbedienza al Papa e alla Chiesa, malgrado tutte le difficoltà. Ora, per la prima volta si chiede a uno dei loro figli spirituali di partire anche lui missionario, e non si può dire di no». E così sono stato sradicato dal mio Paese. La ferita è rimasta profonda e ancora oggi non posso dire che sia completamente sanata. Prima di andare a Roma passai a Dakar dall’arcivescovo Hyacinthe Thiandoum, con cui avevo legami particolarmente fraterni – avevamo fatto gli studi assieme – per salutarlo e per avere parole di conforto.
È stato lo stesso Paolo VI a nominarla successivamente presidente dell’allora Pontificia Commissione Iustitia et Pax (oggi Pontificio Consiglio della giustizia e della pace).
GANTIN: Sì, cinque anni dopo, nel dicembre ’76, mi ha nominato pro-presidente di quel dicastero e successivamente anche del Pontificio Consiglio «Cor Unum». Incarichi che ho mantenuto fino all’84, quando Giovanni Paolo II, che avevo conosciuto durante il Concilio, anche se un po’ da lontano e non intimamente, mi ha nominato prefetto della importante Congregazione per i vescovi. Facendo un bilancio dei ventisette anni passati nella Curia romana è stato più quello che ho ricevuto di quello che ho dato. Roma è una scuola di grande cattolicità. Il Signore mi ha colmato di tante grazie. Ho partecipato a due conclavi, una grazia senza misura...
Cosa può dire di quei due conclavi?
GANTIN: Dal di fuori non si può immaginare quale è il contenuto profondo di un conclave. Si fanno tanti progetti, congetture, supposizioni. E invece quei conclavi sono stati una grande lezione: il Signore abita la sua Chiesa e non la lascia in balìa di congetture e supposizioni. Gli eletti usciti da quei due conclavi, Albino Luciani e Karol Wojtyla, erano infatti inaspettati...
Aveva già conosciuto Luciani quando era patriarca di Venezia?
GANTIN: A dire il vero non intimamente. Mi ero incontrato con lui a Venezia in occasione di una riunione di carattere ecumenico. Era un uomo molto affabile, semplice, umile. Ricordo che aveva voluto ospitare a pranzo tutti i partecipanti anche se erano molti. In quella occasione ho saputo che aveva visitato l’Africa, il Burundi. La sua elezione a papa aveva rallegrato tantissimo quel piccolo Paese che oggi soffre molto per la guerra e le divisioni al suo interno. Ricordo poi che dopo l’elezione, Luciani aveva promesso di andare a Piombino Dese, paese della diocesi di Treviso, a visitare la parrocchia guidata da don Aldo Roma. Impossibilitato a mantenere quella promessa, mi chiese di andare al suo posto. Lo feci e da lì è nato un legame forte tra me e Piombino Dese, di cui sono cittadino onorario. Un legame in memoria di questo Papa che ci ha fatto incontrare.
A dire il vero la sua è stata anche l’unica nomina curiale fatta da Giovanni Paolo I nel suo breve pontificato. Da pro-presidente, infatti, papa Luciani la nominò presidente di «Cor Unum». Non solo, Giovanni Paolo I la ricevette in udienza nell’ultimo giorno del suo pontificato, il 28 settembre.
GANTIN: Sì, è stata l’ultima udienza concessa ad un capo di dicastero. Nella sera di quel giorno in cui ci aveva accolto con grande gentilezza, col sorriso, disponendo lui stesso le sedie affinché potessimo essergli accanto, nessuno poteva immaginare che poche ore dopo lui sarebbe andato nell’Eternità, presso il Signore. Conservo ancora una foto di quell’udienza come una delle cose più preziose. Eravamo in quattro: il Papa, io, il segretario di Iustitia et Pax, il gesuita Roger Heckel, e il segretario di «Cor Unum», il domenicano Henri de Riedmatten. Gli altri tre sono tutti scomparsi, solo il sottoscritto è superstite di quella udienza... Giovanni Paolo I, ripeto, era un uomo di grande umiltà, tutti conoscono il suo motto, «Humilitas». Anche il suo pontificato è stato dal punto di vista temporale umile, appena trentatré giorni. Ma significativo.
La sua morte ha dato adito a non poche illazioni...
GANTIN: Anche in Africa hanno detto che lo avevano avvelenato. Era un uomo che aveva sofferto molto fisicamente, aveva subito delle operazioni, anche se era molto riservato su questi argomenti. Il Signore ha voluto così, tutto è grazia di Dio.
Lei ha avuto mai dubbi?
GANTIN: No. Il peso del pontificato era grande. Ne è rimasto schiacciato.
Come spiega che uno stesso “corpo elettorale” nel giro di un mese abbia eletto due personalità diverse come Luciani e Wojtyla?
GANTIN: Questa è la prova sicura, chiara, che il Signore, e non gli uomini, guida la sua Chiesa. Nessuno avrebbe umanamente pensato questo tipo di successione. Ma il Signore prepara i suoi uomini e li tira fuori al momento giusto.
Torniamo a Paolo VI. Lei nel ’92 in una bella intervista rilasciata al vaticanista Lucio Brunelli ha raccontato un episodio inedito che riguardava l’intenzione di Paolo VI di modificare la facciata della Basilica di San Pietro.
GANTIN: L’arcivescovo di Milano Giovanni Colombo mi raccontò del desiderio di Paolo VI di togliere dalla facciata della Basilica vaticana l’iscrizione in onore del pontefice Paolo V Borghese e di sostituirla con una dedica a Gesù Cristo. Ne rimasi molto impressionato. Certamente a Paolo VI non dispiaceva l’idea che la Basilica più grande, la più visitata del mondo, fosse anzitutto dedicata a Gesù Cristo e non a un papa, seppure importante. Questo episodio esprime in termini pratici e simbolici quello che noi possiamo afferrare della profondità di uno spirito come quello di Paolo VI.
Il desiderio di Paolo VI poi non si è realizzato. Con i lavori previsti per il Giubileo poteva essere la volta buona.
GANTIN: Inutile ferire la gente senza un motivo profondo e giusto. Lasciamo stare le cose così. E poi, chi mai legge e prende sul serio quell’iscrizione, specialmente se viene da lontano e non conosce neanche il latino?
Nel ’77 Paolo VI la creò cardinale nel più piccolo concistoro degli ultimi pontificati.
GANTIN: Sì, ricevetti la porpora insieme a Benelli, Joseph Ratzinger e Mario Luigi Ciappi. Inoltre, in quella occasione Paolo VI diede la porpora anche a Frantisek Tomasek, che aveva creato cardinale in pectore un anno prima. Un grande testimone della fede, Tomasek, una vera quercia della fede. La sua personalità mi ha talmente impressionato che mi sono imposto di andare ogni anno a Praga a trovarlo per tutto il resto della sua vita. Non è stato facile. Ma ogni anno, nonostante i problemi per avere il visto, passavo una settimana, dieci giorni con lui. Era un gran conforto per me.
Cosa ricorda del 6 agosto di venti anni fa, quando papa Montini spirò?
GANTIN: Ho appreso della sua morte quando ero lontanissimo da Roma. Mi trovavo infatti in Nuova Zelanda. Fu il nunzio Angelo Acerbi a darmi la terribile notizia. Annullai subito il resto del viaggio, dovevo infatti andare in Nuova Caledonia per presiedere il 15 agosto una celebrazione in onore dell’Assunta. Insieme al nunzio e all’allora cardinale di Wellington, Reginald J. Delargey, mi recai dal primo ministro a comunicargli ufficialmente la morte del Papa. Non dimenticherò mai le parole del premier, che non era cattolico: «Sento ancora nelle mie mani il calore del suo cuore». Papa Montini era un uomo delicato, sensibile, profondo. Si dava tutto a tutti. E ha sofferto molto avendo ereditato il Concilio e quello che è venuto dopo... Era un uomo di fede e di sofferenza. Più un uomo è sensibile, più soffre. Sono contento che la sua causa di beatificazione sia stata introdotta a Roma malgrado tutti i contestatori che non lo conoscono veramente.
Quest’anno è anche il trentesimo anniversario della Humanae vitae, che fu l’ultima enciclica di Paolo VI.
GANTIN: È vero, negli ultimi dieci anni del suo pontificato papa Montini non scrisse più lettere encicliche. All’uscita della Humanae vitae alcuni episcopati si sono ribellati, non hanno capito e l’hanno criticato duramente e ingiustamente. Paolo VI ha scritto poche encicliche (sette, per la precisione, ndr), ma di grande significato. A me piace ricordare anche la Populorum progressio, particolarmente importante per i Paesi del Terzo Mondo, dove, al contrario che in quelli occidentali, fu molto apprezzata.
Sempre trent’anni fa venne proclamato il Credo del popolo di Dio.
GANTIN: Alcuni hanno detto che Paolo VI ha lasciato andare tutto nel disordine. Non è vero. Basta appunto ricordare il Credo del popolo di Dio in cui sono fissati i punti fermi della sua fede profonda, della fede della Chiesa.
Lei prima accennava ai forti legami che la uniscono al cardinale Thiandoum...
GANTIN: Con Thiandoum ho studiato insieme al Collegio San Pietro a Roma nei primi anni Cinquanta. Eravamo gli unici due francofoni e non parlavamo né inglese né italiano. Per questo abbiamo legato molto. Venivamo dalla stessa regione ecclesiastica controllata dall’arcivescovo Marcel Lefebvre.
Appunto di Lefebvre volevo chiederle. Il cardinale Thiandoum ha avuto e continua ad avere sempre parole di stima nei confronti del presule francese scomparso nel ’91.
GANTIN: Sì, ed è giusto. Fa parte della tradizione africana: un figlio non può mai rinnegare suo padre. Thiandoum ha fatto tanto, si è inginocchiato di fronte a Lefebvre per indurlo a rinunciare alle stravaganze contro il Papa, lui che ci aveva insegnato a rispettare la volontà del pontefice. Thiandoum rimane fedele alla sua memoria. Non dimentichiamo che è stato Lefebvre che ha mandato Thiandoum a studiare a Roma e ad ordinarlo sacerdote. Anche il mio dossier per venire a Roma è passato per le sue mani, tanto è vero che quando gli hanno portato il decreto firmato da me e da Ratzinger non ha mancato di ricordarlo.
Ha incontrato Lefebvre in quegli anni?
GANTIN: Non dopo la voragine, ma prima, quando ero segretario di Propaganda Fide, lo avevo incontrato per cercare di dissuaderlo dal voler creare un seminario.
La crisi lefebvriana si può risolvere?
GANTIN: I suoi eredi sono un po’ agitati, un po’ esaltati, ma finirà anche questo; la Chiesa ha duemila anni di vita... Le parole di Thiandoum possono aiutare coloro che sono in errore a tornare un giorno... a vedere che non tutta la Chiesa li ha condannati.


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