Home > Archivio > 06 - 2007 > Non è più “ora” per la religione?
ITALIA
tratto dal n. 06 - 2007

SCRISTIANIZZAZIONE. I nuovi dati sull’insegnamento della religione

Non è più “ora” per la religione?


Il dato nazionale di adesioni è ancora molto alto, ma, specie nei licei delle grandi città del Centro-Nord, emergono chiari segnali di crisi. In calo anche il numero di sacerdoti che insegnano, nonostante l’ora di religione resti un’occasione per far conoscere il cristianesimo ai ragazzi


di Giovanni Ricciardi


Entrando in alcuni storici licei romani, come il Tasso, il Virgilio o il Mamiani, capita sempre più spesso di imbattersi in sciami di ragazzi che escono dalla classe quando entra l’insegnante di religione. E chi prendesse questi esempi a modello della realtà nazionale rischierebbe di pensare che in Italia l’ora di religione abbia, per così dire, le ore contate, e sia destinata, nel breve volgere di qualche anno, a chiudere i battenti per mancanza di “utenza”.

Crisi dei numeri alle superiori
Ma le cose stanno dappertutto così? A quanto pare, no. I dati nazionali, forniti anche quest’anno dalla Cei e messi a confronto col passato, disegnano nell’insieme una situazione ancora piuttosto positiva. Ma è pur vero che nelle scuole superiori del Centro-Nord e specialmente nelle grandi città emergono chiari segnali di crisi: a Firenze sono ormai più gli studenti che “non si avvalgono” di quelli che scelgono l’ora di religione (41,3%). A Bologna gli “avvalentisi” sono al 52,8%. Seguono Venezia (62,5%), Genova (62,6%), Torino (62,7%), Milano (64,1%) e Roma (71,2%). Una certa “dispersione” avviene anche nel corso del quinquennio. A Roma, per esempio, nel primo anno delle superiori gli “avvalentisi” sono il 75%, poi calano via via fino a ridursi al 68% nell’anno della maturità.

La “tenuta” del Sud e delle scuole elementari
Se guardiamo invece al dato generale, senza tenere conto delle differenze tra le regioni del Paese e tra i diversi ordini di scuola, le statistiche appaiono ancora molto positive. Da quando, nel 1984, il nuovo Concordato ha reso facoltativa l’ora di religione, non si è assistito mai a un crollo di adesioni. I dati, raccolti sistematicamente dal 1994, mostrano un calo costante, progressivo, ma non traumatico: nel 1997, ad esempio, optava per la religione il 93,7% degli studenti delle scuole pubbliche italiane. Oggi, a distanza di dieci anni, siamo al 91,2%. A tenere alte le percentuali contribuiscono soprattutto due fattori. Primo: il Sud dell’Italia, a differenza del Centro-Nord, continua a scegliere in massa l’ora di religione (98,4%) in ogni ordine di scuola. Basti pensare che a Napoli le superiori registrano tuttora quasi il 100% di “avvalentisi”. Secondo: restano altissime le adesioni, in tutta Italia, a livello di scuola materna ed elementare (94, 6%), nonostante il massiccio ingresso di figli di immigrati, tra cui molti non cattolici o non cristiani, che pure giustifica un lieve calo rispetto al 96,8% di dieci anni fa. Ma qui intervengono anche altre dinamiche.
«Oltre alla tendenza tradizionale a non negare l’istruzione religiosa negli anni dell’infanzia», spiega Andrea Caroni, insegnante elementare di una scuola romana e ora neodirettore didattico, «nella scuola primaria i genitori sono attenti a non creare occasioni per cui i bambini possano sentirsi esclusi dal gruppo. Se si fa una gita, fanno di tutto, anche se sono in difficoltà economiche, per mandarvi i propri figli e non farli sentire “diversi”. E lo stesso avviene per l’ora di religione. Anche se non sono credenti, o neppure cattolici, non vogliono che i bambini siano costretti a uscire dall’aula mentre la maggior parte dei compagni rimane in classe. Spesso, infatti, l’ora di religione nelle scuole elementari è ancora tenuta da una maestra che svolge anche altre materie. E comunque non c’è quasi mai la sensazione di uno “stacco” tra questa disciplina e le altre. Il bambino, logicamente, non capisce perché dovrebbe uscire per un’ora, fare altre cose, spesso da solo, e poi rientrare». Gli chiediamo se questo valga anche per i figli degli immigrati. «In genere gli asiatici di tradizione buddista o induista non hanno problemi a optare per l’ora di religione cattolica. I pochi casi di rifiuto provengono piuttosto da famiglie che appartengono a Chiese protestanti, in particolar modo ai testimoni di Geova, oltre, ovviamente, a ebrei e musulmani. Per loro vengono organizzate attività di laboratorio, lettura o disegno e così via».

L’ora alternativa non decolla
Naturalmente, nelle medie questo aspetto “psicologico” è meno determinante e scompare alle superiori, dove solo raramente viene organizzata un’ora alternativa a quella di religione, per mancanza di fondi, di spazi e talora di volontà. Nel 50% dei casi gli studenti che “non si avvalgono” hanno il permesso di uscire dalla scuola, altre volte (40%) si dedicano allo «studio individuale» in biblioteca o in un’aula attrezzata a questo scopo. Solo il 10% deve seguire corsi alternativi veri e propri, ad esempio musica o fotografia. La decisione di “non avvalersi” finisce per rappresentare così, per alcuni, una forma di “emancipazione” dalla tutela della famiglia e della scuola, più spesso l’opportunità di fare un’ora in meno di lezione, soprattutto quando il “monte ore” settimanale è più elevato, come avviene negli istituti tecnici e professionali (33-35 ore settimanali) dove la media di “non adesioni” è normalmente più alta rispetto ai licei (in media 30 ore settimanali).

Una crisi pericolosa?
Il rischio che, nel tempo, l’ora di religione finisca per essere frequentata solo alle elementari e poi progressivamente abbandonata, esiste. Ma qui interviene anche la capacità del singolo docente di suscitare interesse e apprezzamento per questa disciplina storicamente senza voto. Vi sono insegnanti che riescono a catalizzare le adesioni anche in controtendenza rispetto alle statistiche, come avviene, per portare solo un esempio, al liceo Lucrezio Caro di Roma, che registra percentuali altissime rispetto alla media degli istituti superiori della capitale.
«Resta il fatto» osserva monsignor Manlio Asta, responsabile dell’ufficio scuola del Vicariato di Roma «che su 100mila ragazzi delle superiori romane, 70mila incontrano ogni settimana un insegnante di religione. Non è certo così nelle parrocchie. Supponendo, a lume di naso, che le 334 parrocchie romane abbiano in media, nei loro gruppi del “dopo cresima”, una trentina di ragazzi, si raggiungerebbe una cifra di 10mila unità, meno del 10% della popolazione studentesca».

Sempre meno tonache in cattedra
Alcuni sacerdoti tornano così a considerare l’importanza del lavoro nella scuola e la scelgono addirittura come la loro principale missione pastorale. Sono ancora pochi, «una decina in tutto a Roma» ci spiega monsignor Asta, e costituiscono un’eccezione rispetto al sempre più massiccio ingresso dei laici sulle 20mila cattedre italiane. Basti pensare che nel 1994 sacerdoti e religiosi costituivano ancora il 36% dei docenti di religione, nel 1997 erano ridotti al 28%, oggi sono crollati al 14%, con punte del 10% nell’Italia centrale. Un fenomeno che non si spiega solo col calo delle vocazioni. Saranno le accresciute difficoltà di tutta la classe insegnante a sostenere un lavoro sempre più difficile e di frontiera, specie nelle periferie disagiate delle grandi città. Sarà il moltiplicarsi degli impegni burocratici che richiama i professori a scuola il pomeriggio molto più di qualche anno fa. È anche vero che l’Istituto per il sostentamento del clero, grazie all’8 per mille, garantisce oggi a tutti i sacerdoti un minimo di entrata ed è meno sentita per loro l’esigenza di avere uno stipendio fisso facendo qualche ora di religione. C’è forse anche una sfiducia nell’importanza pastorale dell’insegnamento, o una diffusa convinzione che non sia un compito proprio degli ecclesiastici, e che vada dato spazio ai laici, che oggi si formano negli Istituti di Scienze religiose delle diverse diocesi e spesso lavorano con passione e competenza.
Inoltre, con l’approvazione, nel 2003, della legge sul loro “stato giuridico”, gli insegnanti di religione hanno ottenuto per la prima volta il diritto al ruolo, cioè in pratica al “posto fisso”, mentre prima le cattedre erano assegnate di anno in anno, in una sorta di “precariato permanente” che non garantiva la sicurezza del posto di lavoro e rendeva questa professione meno “appetibile” per il laicato.

Battaglie burocratiche
Il provvedimento, atteso da vent’anni, aveva suscitato forti polemiche tra gli schieramenti politici, in Parlamento e nei sindacati. E molte associazioni continuano oggi una “battaglia” che cerca di delegittimare la disciplina rispetto alle altre materie. Il Consiglio di Stato ha sospeso in extremis, pochi giorni prima degli scrutini di quest’anno, una sentenza del Tar del Lazio che toglieva agli insegnanti di religione il diritto di votare, alla pari degli altri docenti, per l’assegnazione del cosiddetto “credito scolastico”, un pacchetto di punti che il candidato all’esame di maturità si vede assegnare dai suoi professori sulla base del profitto del triennio ma anche della partecipazione e del comportamento. Una questione per “addetti ai lavori”, si dirà. Se non fosse che il Tar recepiva, con questa sentenza, un ricorso presentato da una lunga lista che comprendeva molte sigle dell’associazionismo laico (Associazione nazionale libero pensiero Giordano Bruno, Cidi, Cgil scuola, Radicali italiani, Associazione 31 ottobre per una scuola laica e pluralista) insieme alle più importanti comunità protestanti italiane (evangelici, luterani, avventisti, valdesi, pentecostali). Ultima della lista, con intervento ad adiuvandum, l’Unione delle comunità ebraiche italiane, un fatto che ha destato qualche sorpresa. Basti pensare che, in un recente convegno promosso dalla Conferenza episcopale del Lazio (“Ebraismo in Italia: identità, incontro, dialogo”, svoltosi a Fiuggi il 15 marzo scorso), il rabbino Benedetto Carucci Viterbi, direttore della Scuola ebraica di Roma, aveva dichiarato: «Siamo consapevoli che quel poco che gli italiani conoscono dell’ebraismo lo dobbiamo quasi totalmente agli insegnanti di religione cattolica».
Ma queste sono solo scaramucce rispetto al problema che forse comincerà a porsi già tra qualche anno. Se i numeri di coloro che scelgono religione, specie alle superiori, dovesse scendere ancora di molto, qualcuno potrebbe mettere in discussione il principio, finora mai intaccato, che debba comunque esserci un insegnante per ogni classe, anche con uno o due alunni. E proporre una drastica riduzione delle cattedre oggi esistenti.


Español English Français Deutsch Português