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MEDIO ORIENTE
tratto dal n. 09 - 1998

PROCESSO DI PACE. Intervista con il Patriarca latino di Gerusalemme

I prigionieri della Terra Santa


Nello stallo del processo di pace continuano le sofferenze dei palestinesi tra check point e permessi militari israeliani. I cristiani locali ormai preferiscono la diaspora. Il Papa si recherà laggiù per il Giubileo? «Deve venire» dice Michel Sabbah «per dire una parola vera sui luoghi santi» ma per dirla «ad ambedue le parti in conflitto»


Intervista con Michel Sabbah di Giovanni Cubeddu


Da quando la sede del Patriarca latino fu ristabilita a Gerusalemme nel 1847, Michel Sabbah è stato il primo palestinese (dopo una lunga serie di patriarchi di nazionalità italiana) a occuparla. Lo scorso mese di gennaio ha festeggiato dieci anni di nomina a patriarca: anni vissuti intensamente, come pastore dei fedeli e amico del popolo palestinese nelle vicissitudini del processo di pace. Sabbah, nativo di Nazareth, ha uno sguardo deciso ed è cortese e spiccio nei modi. Non teme di spendersi personalmente anche nell’affrontare e giudicare questioni concrete e taglienti come la politica israeliana, la dura vita quotidiana della comunità cristiana in Israele e la necessità che il nascente Stato palestinese si faccia carico – nonostante le pressioni islamiche – della vita e delle opere dei cristiani. Di più: in quest’intervista il Patriarca di Gerusalemme prende posizione apertamente a favore del pellegrinaggio del Papa in Terra Santa. Di un Papa che però, se verrà, non sia ostaggio del processo di pace ma incoraggi la piccola comunità cristiana e dica una parola di giustizia «ad ambedue le parti in conflitto».
In attesa che rinasca un cammino di pace (mentre scriviamo Netanyahu pare intenzionato ad accettare la proposta americana di un ritiro dal 13 per cento dei territori palestinesi e a riaprire così il dialogo), la vita dei palestinesi comuni scorre uguale a se stessa, tra check point e permessi israeliani da esibire per ogni piccola cosa e spostamento. «La verità è che si resta sotto l’occupazione militare israeliana» afferma Sabbah. «Si può avere una vita economica normale e una vita sociale normale, quando la gente è rinchiusa nei confini della propria città? Nella regione di Betlemme vive oggi la maggioranza dei cristiani dei territori occupati: 30mila sui 50mila presenti nell’Autonomia palestinese. Vivono come dei confinati. Allora, con dolore, io dico: è meglio l’emigrazione, uscire fuori, riavere la propria dignità e libertà; meglio che subire qui una disintegrazione morale e sociale dentro una città che è diventata una grande prigione. I danni psicologici sono evidenti, causano dissensi nelle famiglie, dentro la comunità e perfino verso la comunità musulmana. Questo è il male più grave. Da cristiani ci affidiamo alla pazienza, diciamo di non abbandonare la speranza, ché altrimenti tutto è perduto».

Di che dimensione è l’emigrazione dei cristiani?
Michel Sabbah: Grande, ma non ancora eccessiva. Ho sempre ripetuto che si deve lavorare per prevenirla. Il primo problema riguarda i terreni dei cristiani che vengono venduti e non sono più recuperati. Non è solo una questione di povertà: i terreni hanno un valore politico e religioso. Perciò un terreno venduto non sarà mai recuperato: i musulmani sono organizzati per comprare; gli israeliani hanno la loro politica e i loro mezzi per comprare. Solo i cristiani, per mancanza di fondi, non sono organizzati per conservare i loro terreni e per avere uno spazio sufficiente per il presente e l’avvenire. È una questione grave, che non trova molta attenzione.
In un senso più generale nelle città palestinesi, a Betlemme, a Ramallah, non viviamo in una situazione normale… ma nell’instabilità politica, economica, sociale.
Beatitudine, lei ripete da tempo questi appelli, anche da prima che ci fosse il governo Netanyahu. Destra e sinistra in Israele non dimostrano allora diverse sensibilità verso i cristiani?
Sabbah: Primo, non si tratta di cristiani: nella visione israeliana esistono solo i palestinesi, siano essi cristiani o musulmani. Secondo, la differenza tra i due tipi di governo consiste in questo: che il governo laburista ha iniziato il processo di pace e ha camminato in questa via. Ha avuto una nuova visione del presente e dell’avvenire. Ma i laburisti hanno avuto anche troppe esitazioni e ritardi. Forse con loro si sarebbe ora giunti alla fine del processo di pace. Con la destra è tutto fermo.
Traete un vantaggio dall’attenzione internazionale che il Giubileo suscita verso la Terra Santa?
Sabbah: Sì, ma i risultati per la vita quotidiana della gente sono pochi, molto relativi. Spero che il Giubileo porti l’attenzione dei credenti e del mondo al Signore, che è il Principe della pace, il centro del Giubileo. La giustizia e la pace nella città e nella terra del Giubileo sono la priorità essenziale. Va bene l’attenzione del Ministero del Turismo israeliano, ma è necessaria l’attenzione del Ministero della Difesa, da cui dipende la pace, la guerra o la continuazione d’una situazione di sofferenza e di frustrazione.
Quali sono i vostri rapporti con gli organismi centrali vaticani per il Giubileo?
Sabbah: Il presidente del Comitato locale che rappresenta l’Assemblea di tutte le Chiese cattoliche di Terra Santa, sua eccellenza monsignor Kamal Bathish, è anche membro del Comitato centrale del Grande Giubileo a Roma. Il coordinamento continua.
I palestinesi hanno l’intenzione di stilare un accordo con la Santa Sede per dare uno status legale alle istituzioni cattoliche nell’Autorità palestinese. Lei è notoriamente amico di Arafat. Gli ha suggerito qualcosa?
Sabbah: Ciò che chiediamo all’Autorità palestinese è di definire e organizzare i settori nei quali la Chiesa ha a che vedere con la società palestinese: l’educazione, i programmi religiosi nella scuola, le opere sociali, la personalità giuridica della Chiesa e i suoi diritti.
Le sembra forse che l’Autorità palestinese sia restia a concedere quanto richiesto?
Sabbah: No. C’è completa disponibilità in tutti i campi. Ora occorre però definire i dettagli. Ma non esistono le norme giuridiche: tutta la legislazione palestinese è ancora in formazione e perciò i lavori vanno a rilento. Cerchiamo peraltro di cogliere questo momento “propizio” per orientare la legislazione palestinese a tener conto della vita e delle opere cristiane. Alcune difficoltà possono venire dalla concezione islamica della società o del futuro Stato palestinese, che deve tener conto di tutte queste pressioni. Noi comunque dobbiamo far presente il nostro punto di vista cristiano poiché è parte essenziale del patrimonio comune palestinese.
L’accordo che la Santa Sede ha stipulato nel ’97 con Israele sulla personalità giuridica della Chiesa vi è stato d’aiuto?
Sabbah: Sì, ha il valore di un utile precedente. Ma non è stato ancora applicato…
Lei crede che ci sia un motivo per cui Israele non lo esegua?
Sabbah: Non saprei. Ma tutto ciò che immediatamente non tocca la sfera politica non interessa Israele. Inoltre si tratta di situazioni nuove per gli israeliani, forse a loro un po’ estranee…
Secondo lei il Papa verrà in Terra Santa? Che senso ha la sua venuta a Gerusalemme?
Sabbah: Non si può ancora prevedere. C’è tempo. Se ci chiediamo il senso della sua venuta, allora dico che il viaggio è necessario. Per due motivi: per incoraggiare la piccola presenza cristiana e per dire una parola di verità e di giustizia nel processo di pace, per dirla ad ambedue le parti.
Ma se il Papa viene sarà ostaggio del processo di pace?
Sabbah: È possibile. Ma tocca al Papa liberarsi. Dipenderà da quello che dirà: se, cioè, lascerà un messaggio vero per tutte e due le parti. Così, lo Spirito gli ispirerà quello che dovrà dire.
Se il Pontefice verrà nella Città Santa, gli israeliani, o perlomeno alcuni, diranno che il Papa ha riconosciuto la sovranità di Israele su Gerusalemme. Al contrario, da parte palestinese lo si invocherà come tutore dei diritti degli arabi...
Sabbah: Ognuno affermi quello che vuole! Ma anche il Papa potrà affermare ciò che vuole e quello che lo Spirito gli dirà di affermare! Dirà la sua parola giusta, aperta e fraterna per tutti su Gerusalemme. Ci saranno commenti, non tutti magari capiranno. Ma molti sì. E questo aiuterà al momento voluto il processo di pace.
Quindi il Papa può venire?
Sabbah: Non solo può. Il Papa deve venire. Perché deve essergli reso possibile fare il suo pellegrinaggio. Se è possibile farlo per ogni cristiano al mondo, tanto più deve essere possibile per il Papa. Malgrado tutti i giudizi, deve venire anche per dire la sua vera parola sui luoghi santi.
Esiste in Israele una minoranza araba. Crede che i cristiani arabi debbano essere una forza unica e unita anche dentro il Parlamento israeliano, legiferando a favore della comunità cristiana?
Sabbah: La minoranza araba presente in Israele, sia musulmana che cristiana, ha già suoi rappresentanti nella Knesset. Chiaramente sarebbe molto utile se s’esprimesse con una sola voce. Ma attualmente questo resta solo un auspicio.
Lei ha recentemente incontrato i due rabbini capi di Israele, quello ashkenazita e quello sefardita. Ciò ha fatto notizia ed ha aperto nuove speranze. Che significa?
Sabbah: I capi religiosi devono incontrarsi perché in tempi di conflitto c’è bisogno che loro abbiano una visione unitaria e la offrano al popolo. Ciò può essere decisivo per il processo di pace. Se i patriarchi, i muftì, i rabbini capi raggiungono un’intesa, la pace può sottoscriversi anche domani, perché qui l’opinione pubblica è sensibile ai messaggi dei leader religiosi. L’opinione pubblica significa elettori, e se è orientata da una parola unica dei leader religiosi, eleggerà di conseguenza chi può realizzare la pace.
Quindi lei sta tenendo anche colloqui con autorità musulmane per favorire il processo di pace?
Sabbah: Sì.
Con quali risultati?
Sabbah: È un risultato già il fatto di incontrarsi. Ora la situazione è tale che ogni leader religioso attende dall’altro una manifestazione di buona volontà a favore della pace: i rabbini attendono le parole del muftì sulla non violenza, il muftì si aspetta che i rabbini parlino per la giustizia e per i diritti negati ai palestinesi…
E il Patriarca latino di Gerusalemme?
Sabbah: Noi abbiamo parlato già e parliamo con tutti, con gli ebrei e con i musulmani.
La via religiosa porta frutti politici migliori che non l’attività di lobbying parlamentare. Intanto c’è chi, come il sindaco di Tel Aviv Roni Milo, futuro candidato a primo ministro, propone una legge per eliminare definitivamente ogni influenza religiosa nei poteri statali. Che ne dice?
Sabbah: In Israele governano i religiosi secondo criteri religiosi ed esclusivisti: la loro priorità è imporre la propria visione, alla quale gli altri devono sottomettersi, e solo dopo a loro interessa la pace. La separazione può essere un bene per tutti, e deve continuare a garantire libertà per tutte le religioni. D’altra parte, separare lo Stato dalla religione non vuol dire che i religiosi non siano più ascoltati dal popolo, sia che si pronuncino a favore che contro il processo di pace. Essi mantengono un ruolo.
La Santa Sede ha recentemente reso pubblico il documento sulla Shoah. Qual è il suo giudizio? Ha avuto riflessi qui in Terra Santa sul dialogo per la pace? È stato giusto pubblicarlo in questo momento?
Sabbah: Innanzitutto tutti i documenti di questo peso non dipendono dal momento, sono linee guida per tutti e per sempre. Per i cristiani il documento ha un valore non incidentale ma generale, trattando del mistero del male nella storia della Chiesa e dell’uomo, della sofferenza e del perdono reciproco, del mistero della redenzione. È un passo nel cammino del dialogo ebraico-cristiano, pur con tutte le polemiche che ne sono scaturite, espresse soprattutto da chi non ha visto i valori che esso esprime e da chi basa le sue critiche sulle difficoltà politiche presenti o su incidenti della storia passata della Chiesa.
Le critiche del mondo ebraico non si sono fatte attendere: la Chiesa è stata accusata di non aver chiesto sufficientemente scusa del suo preteso antisemitismo, papa Pio XII non sarebbe stato ufficialmente riprovato dalla Santa Sede per la sua prudenza politica…
Sabbah: Quando parliamo del popolo ebraico parliamo del mistero di Dio. Prima di tutto il popolo ebraico ha a che vedere con Dio, più che con gli uomini o con la Chiesa cattolica. Deve interrogarsi davanti a Dio, non ridurre il mistero di Dio a rapporti e problemi umani, altrimenti si allontana dalla logica propria di popolo eletto.
Lei prega per i suoi nemici?
Sabbah: Certo, ma non c’è nessuno che io possa mettere per definizione nella categoria dei miei nemici. Per Dio nessuno è nemico: ogni essere umano è creatura, figlio di Dio, amato da lui e chiamato alla salvezza. Dio è il modello del cristiano: per me dunque nessuno è nemico. Tutti, ebrei e palestinesi, sono figli di Dio, amati da lui e ugualmente chiamati alla salvezza. Ci sono coloro che violano la giustizia o causano danni agli altri, o li opprimono: malgrado tutto il male che possono fare, rimangono figli di Dio e la loro dignità proviene da questo fatto. Malgrado il loro male, essi sono amati, ma si dice loro che sono in una situazione di ingiustizia, che devono uscirne e mettere fine alle loro ingiustizie.
Ma i fedeli palestinesi accettano completamente queste sue posizioni?
Sabbah: È difficile capire e vivere questa visione. Quando uno è proprio sotto l’oppressione, è difficile alzarlo a questo livello fino a fargli vedere la dignità di figlio di Dio nel suo oppressore. Comunque, la verità profonda è questa e la si deve proclamare.
Cosa accadrà dopo Arafat? Lei è preoccupato?
Sabbah: Di cosa? Più di quello che abbiamo sopportato non può accadere. Ma un giorno ci sarà la pace.


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