Home > Archivio > 01 - 2000 > L’uomo colmo di dolore e di certezza
LETTURE
tratto dal n. 01 - 2000

Un articolo sull’inizio dell’Anno santo tratto dal primo numero del giornale del pellegrino

L’uomo colmo di dolore e di certezza



di Luigi Giussani


«Nella mia infanzia ho creduto anch’io alla divinità di Cristo: andavo a messa, mi confessavo, mi comunicavo; avevo vent’anni l’ultima volta che mi sono confessato e comunicato; poi ho smesso di credere alla sua divinità, ma per cominciare a credere alla sua umanità. Sento che Cristo non ha perduto importanza, dentro di me, da quando ho smesso di credere nella sua divinità; e anzi ne ha guadagnata. Egli è diventato più importante per me, come cultura, di quello che prima non fosse per me stesso, come via dell’altra vita». Queste parole sono di Elio Vittorini, che non aveva di sicuro conosciuto il cristianesimo della Tradizione come l’ho incontrato io, attraverso i miei genitori e il Seminario. Per lui Cristo era guida all’altra vita e basta, come se la via all’altra vita non fosse il mio io storico, questo tempo che devo percorrere, questa società in cui sono stato immesso da chi mi ha generato.
Cristo che indica un bambino, placca in avorio del X secolo, Museo del Louvre, Parigi

Cristo che indica un bambino, placca in avorio del X secolo, Museo del Louvre, Parigi

Quanto è diverso dall’uomo di Vittorini l’homo viator, l’uomo camminatore come è concepito dalla mentalità cristiana e come ne parla Giovanni Paolo II nella Incarnationis mysterium, quando descrive l’esistenza «come un cammino. Dalla nascita alla morte, la condizione di ognuno è quella peculiare dell’homo viator». Uomo in cammino, il cristiano è colmo di dolore e di certezza; è, cioè, umile; è colmo di dolore perché è ben consapevole dell’incoerenza e dei tradimenti che affondano in ciò che la Chiesa chiama “peccato originale”; è pieno di certezza perché sa che proprio attraverso un’umanità piena di limite passa – trionfando – l’evidenza della presenza del Signore, la volontà Sua, così che la vita è testimonianza della Grande presenza anche attraverso il male di ciascuno.
Il segno della Porta Santa spalancata dal Papa grida al mondo l’annuncio della salvezza, l’avvenimento del passaggio dal peccato alla grazia, che anche oggi si attua per la forza dell’ebreo Gesù di Nazareth morto e risorto, da duemila anni compagnia di Dio all’uomo. Infatti il Giubileo ripropone con inaudita attualità il metodo che Dio ha scelto per comunicarsi al mondo: si è fatto uomo, e l’umano è il modo attraverso cui la salvezza – il grande mistero della pietà –, cioè il compiersi della verità, della bellezza, della giustizia, della felicità, diventa un’esperienza possibile per tutti gli uomini. Celebrare la nascita di Cristo è riconoscere la Sua presenza oggi nel mondo, “udibile, visibile, toccabile” attraverso il suo Corpo misterioso che è la Chiesa.
Di questo fa memoria il Giubileo, voluto dalla Chiesa affinché giriamo lo sguardo (cum-vertere) per fissarlo sulla persona di Gesù e sulla sua pretesa inaudita di essere la risposta esauriente alla nostra “febbre” di vita. «L’Anno Santo è per sua natura un momento di chiamata alla conversione. È questa la prima parola della predicazione di Gesù, che significativamente si coniuga con la disponibilità a credere: “Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15). Questa, peraltro, è in primo luogo frutto della grazia» (Giovanni Paolo II).

La vita si gioca tutta nella grande alternativa che quell’Uomo ha posto per tutti i tempi, fino all’ultimo: «Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà se stesso? O che darà l’uomo in cambio di sé?». Per coloro che incontravano Gesù lungo le strade polverose della Palestina, così come per noi che ne sentiamo l’annuncio duemila anni dopo, l’alternativa ha come forma l’atteggiamento descritto in due opere poetiche di Karol Wojtyla: «Io t’invoco e Ti cerco, Uomo – in cui/ la storia umana può trovare il suo Corpo./ Mi muovo incontro a Te, non dico “Vieni”/ semplicemente dico: “Sii”» (Pietra di luce). L’altro brano descrive la figura opposta a Cristo, al povero di spirito; questa è l’immagine del rivoluzionario o, se vogliamo, del fariseo evangelico: «Il peggio è che vogliono convincervi che tutto ciò che avete non vi spetta di diritto, ma vi è dato per grazia. Non state ad aspettare la carità! La carità vi umilia. Voi non ne avete bisogno. Dovete capire che tutto vi appartiene assolutamente. Niente per grazia. Volevo dimostrarvi che si pensa a voi. Si lotta per i vostri diritti. Occorre soltanto la vostra ira» (Fratello del nostro Dio).
Quello indicato dal Papa è veramente l’aut-aut culturale radicale per il quale passa la sottile lama della libertà, la quale, nel suo livello crepuscolare, esprime una posizione di fronte al reale – di apertura originale o di chiusura preconcetta –, che le permette di percepire l’accento del Vero nella presenza e nell’annuncio di Cristo o di rimanere sorda e ribelle agli echi delle Sue parole.
Sotto questo aspetto è impressionante per me un brano di Kafka: «Non sono solo perché ho ricevuto una lettera d’amore, eppure sono solo perché non ho risposto con amore». Questa è la descrizione della situazione dell’uomo contemporaneo verso Dio, cioè verso Cristo. Per rispondere con amore occorre povertà di spirito; la pagina più emblematica, da questo punto di vista, è nel Santo Evangelo: «E, detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti di bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”. Molti dei giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in Lui. Ma alcuni andarono dai farisei e riferirono loro quel che Gesù aveva fatto. Allora i farisei dicevano: “Che facciamo? Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in Lui”… Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo» (Gv 11, 43ss). Qui sta il dramma della libertà. Anche noi non possiamo evitare l’alternativa tale e quale, perché il segno e l’accento della Sua verità giungono anche al nostro cuore e alla nostra coscienza, qui e ora, attraverso la testimonianza viva di uomini che nella loro carne Lo riconoscono.
Per noi varcare la Porta Santa col Papa significa “cedere” con semplicità all’attrattiva dell’avvenimento imprevisto che segna l’inizio della storia come la numeriamo da duemila anni, proprio come accadde a Zaccheo, quel giorno che Gesù si fermò sotto la pianta su cui quel pubblicano era salito per vederlo passare e gli disse: «Vieni giù, vengo a casa tua»; fu come se Zaccheo si fosse sentito dire: «Io ti stimo e ti amo». Era tale l’attrattiva suscitata da quel giovane uomo che Zaccheo corse a casa e ne varcò la soglia come non aveva mai fatto in vita sua.


Español English Français Deutsch Português