Home > Archivio > 01 - 2000 > La pietà di Dante verso «i peccator carnali»
DANTE
tratto dal n. 01 - 2000

La pietà di Dante verso «i peccator carnali»


«La pietà induce Dante a collocare in ubicazioni particolarissime i lussuriosi in tutti e tre i luoghi oltremondani». Intervista con il professor Ignazio Baldelli


Intervista con Ignazio Baldelli di Paolo Mattei


Paolo e Francesca (canto V dell’Inferno), miniatura lombarda del XIV secolo, Biblioteca Trivulziana, Milano

Paolo e Francesca (canto V dell’Inferno), miniatura lombarda del XIV secolo, Biblioteca Trivulziana, Milano

«Il canto V dell’Inferno, dove Dante incontra i lussuriosi Paolo e Francesca, è uno dei canti più belli – forse il più bello – della Divina Commedia, che è indubbiamente il più grande poema dell’umanità». Il professor Ignazio Baldelli non lesina i superlativi se gli si chiede di rendere ragione, in poche parole, della sua ultima fatica editoriale, Dante e Francesca, Leo Olschki Editore, Firenze 1999. Il professor Baldelli, presidente della classe di Scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia Nazionale dei Lincei e professore emerito di Storia della lingua italiana dell’Università di Roma La Sapienza, in questo libro legge il canto V con la voce magistralmente chiara e articolata – e d’altronde celebre – del filologo, dello studioso che comunque non sa (e non vuole) evitare, nonostante l’assidua frequentazione del testo dantesco, le commosse vibrazioni che l’interpretazione della Commedia suscita anche nei commentatori provetti, negli addetti ai lavori. Ma pure in tutti i semplici lettori appassionati. Ed è proprio la passione, quella carnale, il peccato condannato nel secondo cerchio infernale dove il pellegrino Dante, accompagnato da Virgilio, incontra i lussuriosi, «i peccator carnali,/ che la ragione sommettono al talento».
Con il professor Baldelli, che alcune generazioni di studenti universitari romani non dimenticano per le memorabili lezioni che teneva la mattina presto nella facoltà di Lettere, abbiamo dialogato su alcuni spunti di lettura offerti dal suo libro.

Il V è innanzitutto un canto di commossa pietà verso i peccatori…
IGNAZIO BALDELLI: Senza dubbio. Dice Dante: «or son venuto/ là dove molto pianto mi percuote»; «pietà mi giunse e fui quasi smarrito»; «sì che di pietade/ io venni men com’io morisse». Anche Francesca, rivolgendosi al poeta, s’accorge di questa commozione: «noi pregheremmo lui della tua pace,/ poi c’hai pietà del nostro mal perverso». E ancora Dante le risponde: «Francesca, i tuoi martiri/ a lagrimar mi fanno tristo e pio». La pietà è evidentemente il motivo poetico e musicale più rilevante, e il canto ne è intessuto in tutte le sue parti.
I lussuriosi sembrano “beneficiari privilegiati” di questa pietà nell’Inferno.
BALDELLI: In effetti è così, e non soltanto nell’Inferno. La pietà induce Dante a collocare in ubicazioni particolarissime i lussuriosi in tutti e tre i luoghi oltremondani. Cominciamo dall’Inferno. Esso è fatto a forma di imbuto e procedendo verso il basso – verso la strozzatura in cui si trova Lucifero – si incontrano i condannati per peccati via via sempre più gravi, fino ad arrivare ai traditori. I traditori sono i peccatori più gravi perché hanno adoperato il dono più grande che Dio ha fatto all’uomo – l’intelletto – per tradire. Per tradire la famiglia, la patria, l’amico, il benefattore. Nella parte “alta” dell’Inferno è punita invece l’incontinenza, la smoderatezza delle passioni, che «men Dio offende e men biasimo accatta», offende meno Dio e acquista meno riprovazione. I lussuriosi sono i primi incontinenti che Dante incontra, i più lontani dal centro dell’abisso, i peccatori meno gravi. Si osservi anche che Dante pone la gola come peccato più grave della lussuria. I golosi si trovano nel cerchio successivo, il terzo, più in basso dei «peccator carnali».
Nel Purgatorio, che è un monte, i lussuriosi sono posizionati nel cerchio più alto, la settima cornice, la più vicina al paradiso terrestre. Si trovano là due poeti d’amore, Arnaut Daniel e Guido Guinizzelli. Tra l’altro, nel Purgatorio insieme ai lussuriosi vi sono i sodomiti. E questo è un fatto rilevante perché rispetto alla loro posizione nell’Inferno – fra i violenti, nella città di Dite – si registra qui una forte attenuazione di giudizio: da peccato contro natura, e cioè peccato di violenza contro Dio, ordinatore della natura, e quindi con il coinvolgimento dell’intelletto, a peccato di lussuria, cioè di incontinenza. È l’unica derubricazione compiuta dall’Inferno al Purgatorio.
Ma l’elemento diciamo così più “scandaloso” è la presenza dei lussuriosi nel Paradiso: sono gli spiriti amanti, coloro che hanno risolto il loro essere amatori carnali in spirito amante. In Paradiso le distinzioni sono per virtù positive (ad eccezione dei primi due cieli, quello della Luna e quello di Mercurio: nel primo vi sono anime buone segnate dal non aver adempiuto ai voti, nel secondo dall’avere operato il bene mirando all’onore e alla fama). Gli unici veri peccatori presenti in Paradiso sono gli spiriti amanti, che si trovano nel terzo cielo, quello di Venere. Sia Carlo Martello sia Cunizza da Romano sia Folchetto da Marsiglia sia Raab amarono carnalmente, furono scandalosamente lussuriosi. Raab era una meretrice, di cui si narra nel Vecchio Testamento, che aiutando Giosuè nella conquista di Gerico («perch’ella favorò la prima gloria/ di Iosuè in su la Terra Santa») favorì la gloria di Cristo. Cunizza da Romano era una nobildonna dell’Italia settentrionale, sorella di Ezzelino da Romano. Ella fu protagonista di una serie di amori adulteri che ebbero un’eco vastissima nel XIII secolo, tanto da divenire oggetto della poesia di molti trovatori che a lei alludono in tono scherzoso e satirico. Cunizza da Romano dice a Dante che non le nuoce più la scandalosa condotta della sua vita terrena, l’essere stata vinta dalla passione amorosa («ma lietamente a me medesma indulgo/ la cagion di mia sorte, e non mi noia») perché ora è al cospetto di Dio.
Insomma, non possiamo nasconderci la centralità del peccato d’amore in tutte le cantiche della Commedia e non registrare la presenza nel Paradiso di peccatori carnali.
Raab, la meretrice di Gerico (canto IX del Paradiso), miniatura giottesca 
del XIV secolo, Biblioteca Marciana, Venezia

Raab, la meretrice di Gerico (canto IX del Paradiso), miniatura giottesca del XIV secolo, Biblioteca Marciana, Venezia

Una presenza particolarmente centrale nel canto V dell’Inferno.
BALDELLI: È un canto bellissimo. Si accenna a molti personaggi, tutti lussuriosi: Semiramide, regina degli Assiri che legalizzò l’incesto («A vizio di lussuria fu sì rotta/ che libito fe’ licito in sua legge»), Didone, la regina di Cartagine ospite e amante di Enea, Cleopatra, Elena di Troia e Paride suo rapitore, Achille, Tristano, amante di Isotta, moglie di suo zio Marco, re di Cornovaglia… E naturalmente a Paolo e Francesca.
Nel suo libro c’è una parte significativa che analizza le similitudini nel canto V.
BALDELLI: Il canto V è profondamente segnato dalle similitudini. I retori del tempo di Dante che leggevano tante similitudini nell’Eneide, nelle Metamorfosi di Ovidio, ritenevano che dopo la venuta di Cristo questo modo di esprimersi poteva e doveva essere abbandonato. Dante lo recupera nel quarto trattato del Convivio; e nella Divina Commedia le similitudini sono una delle quinte essenziali del poema. Ne sono state contate più di cinquecento, alcune per brevitatem, brucianti, rapidissime («come per acqua cupa cosa grave», ecco questa mi ha sempre colpito tantissimo per la straordinaria armonia vocalica) altre per collationem, in cui gli elementi vengono minuziosamente confrontati. Le similitudini della Divina Commedia sono affascinanti in quanto sono “incarnate” nel testo. Non hanno uno scopo di abbellimento come la maggior parte delle similitudini dei grandi poeti dell’antichità, Virgilio, Ovidio. Nel canto V, su suggerimento della spinta continua e violenta a cui sono sottoposti i lussuriosi, Dante costruisce tre similitudini, tratte dal volo degli uccelli, con gli storni, le gru e le colombe. Queste ultime sono Paolo e Francesca.
È con Francesca che Dante si intrattiene nel dialogo fondamentale del canto…
BALDELLI: Sì, diciamo che questo colloquio ne costituisce tutta la seconda parte. Il dialogo tra Dante e Francesca è introdotto da un momento di riflessione. Dante china la testa. Perché evidentemente pensa a se stesso come travolto dalla lussuria: «Oh lasso,/ quanti dolci pensier, quanto disio/ menò costoro al doloroso passo!». Poi, invitato da Virgilio, si rivolge di nuovo a Francesca: «i tuoi martiri/ a lagrimar mi fanno tristo e pio». Ecco la pietà, ecco Dante pietoso che chiede come è stato possibile che essi abbiano compiuto quel «doloroso passo». Paolo e Francesca erano infatti tutti e due sposati ed erano oltretutto cognati, perché Francesca era moglie di Gianciotto Malatesta, fratello di Paolo e signore di Rimini, che fu poi il loro uccisore. Insomma, secondo la legislazione medievale Paolo e Francesca erano quasi come fratelli. Quindi fu qualcosa di drammatico e pesante che essi ruppero con quell’atto. Noi siamo abituati a una letteratura in cui i baci si sprecano, e non solo i baci ma le manifestazioni più aperte, più narrate dell’amore. In tutto Dante – quindicimila versi, centinaia di pagine in prosa latina e volgare – c’è un solo bacio sulla bocca, ed è qui, nel canto V: «la bocca mi baciò tutto tremante».
Non furono forti abbastanza, non bastò loro la volontà per resistere alla tentazione?
BALDELLI: Guardi, Dante nel terzo libro del Convivio indica l’impossibilità all’uomo di resistere da solo alla «soperchievole operazione» dell’amore. L’uomo, secondo Dante, ha bisogno di aiuto per resistere alla passione carnale, alla bellezza, alla «sensibile apparenza», al piacere del gusto e del tatto che sono su di lui potenti al massimo grado. Della ineluttabilità di amore-passione Dante parla anche nel sonetto di corrispondenza con Cino da Pistoia, Io sono stato con amore insieme, quando dice che chi gli oppone ragione o virtù fa come chi suona le campane per scemare la tempesta: «chi ragione o virtù contra gli sprieme,/ fa come que’ che ’n la tempesta sona,/ credendo far colà dove si tona/ esser le guerre de’ vapori sceme». Nel cerchio del dominio dell’amore «libero arbitrio già mai non fu franco». E ancora, a conclusione dell’Epistola IV, Dante osserva come l’attrattiva del piacere d’amore uccida il suo buon proposito di tenersi lontano dalle donne e cacci lontano «come sospette, le assidue meditazioni, con le quali consideravo le cose del cielo e della terra». La passione, conclude, «liberum meum legavit arbitrium».
E qual è allora, per Dante, la difesa contro questa tentazione?
BALDELLI: Dante, addolorato per la sua sua incapacità di usare il libero arbitrio davanti alla passione amorosa, sembra riposarsi nella meravigliosa preghiera di san Bernardo alla Vergine, nell’ultimo canto del Paradiso, quando il santo chiede per lui a Maria: «Vinca tua guardia i sentimenti umani», dove l’espressione «i sentimenti umani» sta ad indicare l’umano sentire nella passione amorosa. Ecco, Dante sembra affidarsi a questa preghiera.
Questo è uno di quei momenti della Commedia in cui sembra addolcirsi il carattere irruente del poeta…
BALDELLI: Sì, la Commedia è fatta anche dall’avvicendarsi di momenti aspri e dolci. Ma la cosa che più mi colpisce e che meno riesco a comprendere dell’Alighieri è un’altra. Il suo grande nemico è Bonifacio VIII. Dante non perde occasione per condannarlo violentemente lungo tutta la Commedia, e l’episodio di Guido da Montefeltro (Bonifacio VIII è il diavolo tentatore che lo induce al peccato) è il più significativo. Bonifacio VIII è la persona che Dante odia di più. Eppure, quando nel Purgatorio, al canto XX, Ugo Capeto profetizza la cattura del Papa da parte di Filippo il Bello e lo “schiaffo d’Anagni” del 1303, Dante lo fa parlare così: «veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,/ e nel vicario suo Cristo esser catto./ Veggiolo un’altra volta esser deriso;/ veggio rinnovellar l’aceto e il fiele,/ e tra i vivi ladroni esser anciso». Ecco, qui Bonifacio VIII è il vicario di Cristo, Dante lo identifica con Cristo stesso, Cristo deriso e schiaffeggiato. Così come mi è difficile comprendere l’atteggiamento di Iacopone da Todi, anche lui autore di laudi violentissime contro Bonifacio VIII che lo fece gettare in prigione. Iacopone, dal luogo della sua cattività, chiede a Bonifacio soltanto l’assoluzione dalla scomunica che gli aveva inflitto, lasciandogli le altre pene: «Per grazia te peto/ che me dichi: “Absolveto”,/ e l’altre pene me lassi/ fin ch’e’ de mondo passi». Per Iacopone, acerrimo nemico di Bonifacio, la sua scomunica è comunque valida… Tutto questo per me è incomprensibile… C’è una fede in questi uomini…


Español English Français Deutsch Português