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GIOVANNI PAOLO II
tratto dal n. 09 - 2002

La visita del Papa in Polonia di metà agosto

Un viaggio degli occhi


Con il suo sguardo Giovanni Paolo II ha accarezzato teneramente e malinconicamente alcuni luoghi a lui più cari, dove ormai era troppo faticoso salire e scendere dalla papamobile


di Marco Politi


Giovanni Paolo II a Cracovia il 18 agosto

Giovanni Paolo II a Cracovia il 18 agosto

Lo sguardo perso sulla folla sterminata – due milioni e mezzo –, Giovanni Paolo II il 18 agosto a Cracovia ha sussurrato: «Vi ringrazio, prati di Blonia, vi ringrazio per la vostra ospitalità tante volte offertami. Dio vi ripaghi!». Come se la spianata verde, come se le cose inanimate potessero ascoltare e rispondere. Chi non ha perso il “fanciullino” in sé sa che è possibile e lo sa anche chi ha lo slancio dello spirito francescano, come lo ha il sempre giovane Karol Wojtyla, che proprio nei momenti di massima fragilità del corpo rivela la freschezza della sua anima.
Il viaggio del Papa in Polonia, dal 16 al 19 agosto, è stato un viaggio di riscatto, un viaggio alle radici e – come ogni volta – un viaggio di speranza. Il Pontefice che aveva passato una primavera orribile, torturato nel suo fisico al punto da non poter celebrare pienamente i riti della settimana santa, ha ritrovato in patria una nuova linfa e soprattutto ha riconfermato la sua determinazione a condurre sino in fondo il suo compito.
«Madre santissima, nostra Signora di Kalwaria» ha pregato Wojtyla nel santuario dove il padre lo portava regolarmente dopo la morte della mamma, «ottieni anche a me le forze del corpo e dello spirito affinché possa compiere fino alla fine la missione assegnatami dal Risorto». Giovanni Paolo II non ha paura della morte, non l’ha mai avuta, ciò che gli preme è di essere in grado di compiere sino all’ultimo il dovere di timoniere della Chiesa. E, certo, può apparire un paradosso il fatto che in questo autunno del 2002 si annunci la scomparsa di alcuni papabili, mentre il Pontefice continua tenacemente il suo ministero.
Sopra, Papa Wojtyla davanti alla sua casa in via Tyniecka 10 a Cracovia;
sotto, Il Papa in visita alla tomba 
di famiglia nel  cimitero di Rakowice

Sopra, Papa Wojtyla davanti alla sua casa in via Tyniecka 10 a Cracovia; sotto, Il Papa in visita alla tomba di famiglia nel cimitero di Rakowice

La visita del Papa a Cracovia è stata un viaggio degli occhi. Con il suo sguardo ha accarezzato teneramente e malinconicamente alcuni luoghi a lui più cari, dove ormai era troppo faticoso salire e scendere dalla papamobile. Gli inquilini della sua vecchia casa in via Tyniecka, sugli argini della Vistola, avevano persino abbattuto una porta per facilitargli il passaggio nel seminterrato, dove aveva vissuto con il padre nei primi anni di guerra. Ma il Papa doveva riguardarsi e così si è limitato a osservare a lungo e in silenzio l’edificio in cui avvennero le svolte fondamentali della sua vita. Qui gli morì il padre nel 1941, qui sfuggì alla morte durante una retata nazista con i soldati che erano fisicamente entrati nell’edifico, qui maturò la sua decisione di lasciare gli studi di letteratura polacca e di farsi sacerdote.
Sempre con gli occhi Wojtyla ha carezzato la piccola scalinata della sua chiesa di quartiere, la parrocchia dei Salesiani a Debniki, dove il caso gli fece incontrare negli anni di guerra un uomo singolare, Jan Tyranowski, animatore di un gruppo giovanile chiamato “Rosario Vivente”, mistico e trascinatore d’anime (e per il quale è in corso il processo di beatificazione). E ancora con gli occhi Giovanni Paolo II ha carezzato le strade di Cracovia, l’antica piazza medievale del mercato, e la tomba dei suoi genitori e di suo fratello nel cimitero di Rakowice. È stato un momento di grande commozione vedere il Pontefice chiuso nella papamobile, non più libero di andare a inginocchiarsi, mentre meditava in silenzio di fronte alla tomba e lasciava che altri accendessero per lui una candela sul sepolcro.
Un viaggio di memorie, un viaggio alle radici. Gran parte della sua visita a Cracovia non si è “vista”, perché si è svolta tutta all’interno del suo animo. Un lungo pellegrinaggio per i sentieri della sua formazione, delle sue esperienze, delle sue emozioni, delle sue speranze, dei suoi dolori.
Solo ogni tanto Wojtyla ha lasciato che affiorassero i suoi sentimenti. Come quando d’improvviso ha ricordato gli “zoccoli di legno” con cui durante la guerra andava in fabbrica e si fermava a pregare nella cappella di suor Faustina, la mistica polacca da lui proclamata santa. O come quando ha esclamato ridendo, rivolto ai giovani radunati sotto le finestre dell’arcivescovado: «Se a qualcuno interessa, abito a via Franciszkanska numero tre». Quel palazzo è stata un’altra pietra miliare nella sua vita. Vi aveva abitato da seminarista clandestino, protetto dall’arcivescovo Sapieha, vi aveva vissuto durante la stagione del Concilio, vi era “cresciuto” anche politicamente negli anni Settanta, quando cominciò a maturare nelle sue omelie i temi della giustizia sociale e del diritto della nazione a esprimersi liberamente e a liberamente credere.
Fra i momenti nascosti della sua visita a Cracovia – nascosti perché non appariscenti e poco seguiti dai media – c’è stata la lunga preghiera nella cattedrale del Wawel. Lì, seduto a sfogliare lentamente il breviario per quasi tre quarti d’ora, si è visto il Pontefice abbeverarsi letteralmente alle sorgenti della sua esperienza religiosa. In quella cattedrale, dove sono sepolti i re polacchi e dove un giorno forse potrebbe trovare posto una sua reliquia, Karol Wojtyla serviva messa quando scoppiò la guerra e nello stesso luogo tornò a celebrare messa appena ordinato sacerdote. Ma la cattedrale del Wawel, con le reliquie del santo nazionale Stanislao, è molto, molto di più. È la radice e la summa della religiosità polacca nella sua forma nazionale. Non ne è il cuore come il santuario mariano di Czestochowa ma è come se ne fosse l’ossatura, nel lungo cammino di un popolo fattosi nazione con il cristianesimo. Nel Wawel Giovanni Paolo II è stato riportato al significato profondo dell’elezione di un cristiano polacco al soglio di Pietro. Da Cracovia al Vaticano, nell’anno particolarissimo del 1978, è stato tracciato il cammino che ha portato la Polonia “Cristo delle nazioni” (come la chiamavano i grandi poeti romantici polacchi) a diventare liberatrice delle nazioni attraverso la singolare avventura di Solidarnosc. Lech Walesa, il piccolo elettricista ribelle di Danzica, ha baciato devotamente la mano al Pontefice nel giorno della messa al santuario di suor Faustina di Lagiewniki, ma i monsignori del seguito e il Papa stesso gli hanno dedicato poca attenzione. Quasi fosse un soldato mandato a riposo, le cui battaglie sono ormai nei libri di storia. «Mi sono sentito piccolo, piccolo», ha mormorato dopo Walesa. Eppure, anche se è stato un viaggio intriso di nostalgia, Giovanni Paolo II non ha voluto che fosse un viaggio rivolto al passato. Anzi, partendo dalle difficili trasformazioni delle società postcomuniste e dalle tribolazioni della Polonia odierna, il Pontefice ha inteso lanciare un messaggio al XXI secolo, contrapponendo l’esempio della “Misericordia di Dio” all’egoismo del neoliberalismo e dell’individualismo selvaggi. C’è bisogno, ha detto ai suoi compatrioti nella messa finale sui prati di Blonia, di un programma dell’amore, di una civiltà dell’amore. C’è bisogno di uno “sguardo d’amore” per accorgersi del fratello che soffre, di chi è privo di casa, di lavoro, di risorse sufficienti per mantenere degnamente la famiglia e istruire i figli. E c’è bisogno di verità, ha soggiunto, per combattere la «rumorosa propaganda di liberalismo, di libertà senza verità e responsabilità, che si intensifica anche nel nostro Paese».
C’erano ad ascoltarlo – nella folla dei due milioni e mezzo di fedeli – tanti giovani, tanti adolescenti, che non lo avevano mai visto o lo avevano appena intravisto, piccolissimi, sollevati in braccio dai propri genitori. Una generazione che non ha più vissuto la cortina di ferro, il totalitarismo sovietico, le lotte di Solidarnosc. A loro, che gli gridavano incessantemente “sei giovane, resta con noi”, Giovanni Paolo II ha consegnato la staffetta di costruire una società in cui l’uomo non sia lupo all’uomo, ma sappia praticare la misericordia. A tutti ha domandato umilmente, l’ultimo giorno della visita: «Pregate ancora finché sono vivo e dopo la mia morte». Ma questo non vuol dire che non tornerà. «A Dio piacendo», ha risposto al premier polacco Miller, che lo invitava per una nuova visita. Il cardinale Macharski è ottimista. «Un altro viaggio in patria? Perché no?».


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