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INCHIESTA
tratto dal n. 07/08 - 2007

Le Conferenze di San Vincenzo

Il fascino discreto della carità


Un viaggio per conoscere la Società di San Vincenzo de’ Paoli, fondata dal beato Antonio Federico Ozanam nel 1833, un’organizzazione antica e ancora attuale


di Pina Baglioni


San Vincenzo de’ Paoli, il santo della carità, vissuto nel XVII secolo, da cui la Società ha preso il nome

San Vincenzo de’ Paoli, il santo della carità, vissuto nel XVII secolo, da cui la Società ha preso il nome

Sono dei talenti veri nell’intercettare la povertà. L’hanno scovata persino nell’isola di Capri, celeberrima meta dei miliardari di tutto il mondo: là gestiscono un servizio di miniambulanze a disposizione dei più poveri. Non per nulla i confratelli e le consorelle – così si chiamano tra di loro – amano ripetere che «nessuna opera di carità è estranea alla Società di San Vincenzo de’ Paoli». La conferma emerge da un vecchio fascicolo redatto dai confratelli francesi nel 1961. Dove si spiega che il povero non è solo «il senzatetto, l’operaio che non trova lavoro, colui che firma con una croce e non sa leggere», ma anche «il ragazzo che è solo, colui che non può togliersi l’odio dal cuore…». E solo una particolare sensibilità poteva coniare l’espressione «il povero decaduto e vergognoso». Vittima – informa ancora una relazione del Consiglio superiore delle Conferenze della San Vincenzo di Roma del 1966 – di «una povertà non di oggi soltanto, ma di tutti i tempi, così come di sempre sono e sono stati i rovesci della fortuna che popoli e individui hanno sofferto e dai quali la Provvidenza ha tante volte misteriosamente suscitato i prodigi della sua grazia».
Fatte di gente sobria che non ama molto far parlare di sé, le Conferenze della San Vincenzo si portano appresso un destino per certi aspetti paradossale: orgogliose della propria laicità, hanno “prodotto” una gran quantità di santi e beati. Tra gli ultimi, il fondatore: il francese Antonio Federico Ozanam (1813-1853). Professore alla Sorbona, morto a soli quarant’anni, è stato beatificato il 22 agosto del 1997 da Giovanni Paolo II.
E se «nei suoi scopi originari la Società non si proponeva di riformare la struttura sociale, ma di fortificare la fede dei suoi iscritti mediante la pratica in comune della carità», scrive Gabriele De Rosa nella Storia del movimento cattolico in Italia. Dalla restaurazione all’età giolittiana (vol. I, Laterza, Bari 1966), è altrettanto vero che alla San Vincenzo si riconosce il merito di aver anticipato di quasi un secolo esperienze e intuizioni tali da influenzare l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII e i lineamenti della dottrina sociale della Chiesa. C’è di più: «Dentro le pieghe del volontariato vincenziano si fa strada un’interpretazione di tipo socioculturale del messaggio caritativo che da Ozanam giunge fino al Concilio ecumenico Vaticano II», scrive Simone Misiani ne I visitatori dei poveri. Storia della Società di San Vincenzo de’ Paoli a Roma. Dalla Grande guerra al Concilio Vaticano II, 1915-1966 (vol. III, il Mulino, Bologna 2005).
Tra gli estimatori ci sono stati Giorgio La Pira, che definì le Conferenze «laboratorio dove la storia viene fusa con la fede e dove il laico si prepara all’impegno politico». E don Luigi Sturzo, che il 7 gennaio del 1925 scriveva: «Oh che insperato e validissimo aiuto alla mia propaganda tra i confratelli perché amino e conoscano Ozanam! Anch’io mi propongo di conoscerlo meglio, perché ne sono entusiasta! Che bravo precursore della democrazia cristiana!».

«Ricoprire il mondo di una rete di carità»
«Dio si compiace soprattutto di benedire ciò che è piccolo e impercettibile: l’albero nella sua semenza, l’uomo nella sua culla, e le opere buone nella timidezza dei loro inizi». Antonio Federico Ozanam lo scrive alla futura moglie in una lettera del 1° maggio 1841. Ripensando, probabilmente, a tutto quello che gli era accaduto a partire da quel 23 aprile del 1833, in Rue du Petit-Bourbon-Saint-Sulpice n. 18, a Parigi. Quando, in un clima di scontri ideologici e sociali che stava infiammando le più importanti città francesi, lui, brillante universitario della Sorbona, insieme a sei altri studenti s’era buttato a capofitto «in una grande pazzia». Dando vita a «un’associazione esclusivamente cristiana, dove solo la carità fosse lo scopo primario, e in cui l’oggetto pacifico divenisse Nostro Signore Gesù Cristo, nella persona dei poveri», annota Paul Lamache, uno di quei primi amici. Quei ragazzi, tutti più o meno intorno ai vent’anni, l’avevano voluta chiamare “Conferenza di carità”, sulla scia delle conferenze di storia, diritto e filosofia cui avevano partecipato insieme ad altri studenti di diversa connotazione ideologica. Discutevano degli sconquassi provocati dall’irresistibile ascesa dell’alta borghesia mercantile di Parigi e Lione sugli strati sociali più deboli: sugli operai sottopagati, innanzitutto. In realtà quegli incontri s’erano via via trasformati in processi sommari contro la Chiesa. Era arrivato, secondo Ozanam, «il momento di passare dalle parole all’azione e di affermare con le opere la vitalità della fede». Da dove cominciare? Innanzitutto si mise in chiaro che, pur nel rispetto e nella deferenza nei confronti dell’autorità ecclesiastica, la loro associazione sarebbe rimasta laica. Per patrono si scelsero san Vincenzo de’ Paoli, il santo della carità vissuto due secoli prima. Infine depositarono il loro “marchio di fabbrica”, l’aspetto peculiare di tutta l’operazione: la visita alle case dei poveri. Una pratica cui Ozanam attribuirà, nel tempo, un grande significato: «Noi siamo convinti che la scienza delle benefiche riforme non si impara sui libri o alla tribuna delle pubbliche assemblee», dirà qualche anno dopo, «ma nel salire alle soffitte del povero, nel sedersi al suo capezzale, nel soffrire il freddo che egli soffre, nello strappare con l’effusione di un amichevole colloquio il segreto di un animo desolato».
Ma dove trovare le risorse economiche per centrare l’obiettivo di «ricoprire il mondo di una rete di carità»? Si fece una questua tra i partecipanti, libera e segreta. E uno di loro, Jules Devaux, raccolse col suo cappello le offerte degli amici. La seduta terminò con una preghiera alla Madonna, nominata loro protettrice.

Un ritratto di Antonio Federico Ozanam; sullo sfondo, una stampa della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi

Un ritratto di Antonio Federico Ozanam; sullo sfondo, una stampa della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi

Una forza di interposizione tra i ricchi e i poveri
E fu così che, in una sorta di gemmazione spontanea, quella prima Conferenza parigina si divise in due per poi moltiplicarsi senza sosta: prima in Francia, poi in Italia (a Roma, per esempio, già dal 1836) e poi nel resto d’Europa. Nel corso di un decennio questa originale forma di carità avrebbe contagiato l’America, l’Asia e l’Africa.
A partire dall’8 dicembre 1835, tra il fiorire continuo di opere e di adesioni, le Conferenze saranno denominate globalmente Società di San Vincenzo de’ Paoli. E ovunque, attorno alla consueta pratica della visita alle case dei poveri, nasceranno laboratori per apprendisti stampatori, asili e patronati; si promuoveranno l’adozione e l’educazione degli orfanelli e dei bambini abbandonati; l’istruzione agli spazzacamini, ai garzoni delle manifatture, agli ex carcerati. Si allestiranno stabilimenti di vestiario e di biancheria. Più tardi arriveranno le casse di risparmio, le casse di collocamento e soccorso, le dispense di vitto, i soccorsi medici, i consulti legali, i circoli e le riunioni ricreative, le biblioteche, le scuole… Non mancarono le conversioni: «Si è ottenuta l’abiura di una povera malata protestante», annota Ozanam, «si è fatta fare la comunione a parecchi poveri moribondi…».

Non farsi vedere, ma lasciarsi vedere
Una grande storia dietro le spalle, dunque. Ma quasi sconosciuta. «E forse non è un caso» scrive ancora Gabriele De Rosa. «È infatti verosimile che non sia che il fedele riflesso dello stile silenzioso dell’associazione».
Eppure, oggi, gli eredi di quei primi sette ragazzi francesi sono 800mila. Distribuiti in 49mila Conferenze sparse in 137 Paesi, per due terzi nei Paesi in via di sviluppo. Insomma, una realtà in grande espansione in tutto il mondo. In Brasile soprattutto, dove nascono novanta Conferenze all’anno. La sede generale è a Parigi, alla cui guida c’è ora lo spagnolo José Ramón Díaz-Torremocha. E in un ufficio di tre stanze, nello splendido palazzo seicentesco Maffei-Marescotti di proprietà del Vaticano, nel rione Pigna a Roma, sta la sede del Consiglio nazionale della San Vincenzo in Italia. Organismo che rappresenta 1.900 Conferenze con 16mila membri.
«Operare in silenzio per noi è una scelta» informa Gianfranco Rufino. È di Torino e rappresenta i cinquecento giovani della Società in Italia. «Perché giudichiamo ancora valido quello che consigliava Ozanam: “Non farsi vedere, ma lasciarsi vedere”. Anche se oggi sarebbe forse necessario dare maggiore visibilità alla nostra esperienza. Per esempio, l’esperienza missionaria in Albania dove siamo andati per incontrare i bambini del posto, organizzare giochi, corsi d’informatica, di bricolage», racconta. «È soprattutto l’occasione per incontrare e riscoprire tramite gli occhi di decine e decine di bambini l’amore che Gesù ci ha donato».
Fedeli alla loro storia di visitatori dei poveri, i confratelli della San Vincenzo assistono in Italia circa 30mila famiglie disagiate all’anno. Contestualmente all’attività tradizionale, sono sorte in tutta Italia le cosiddette “opere speciali”, opere cioè che hanno bisogno di una certa specializzazione da parte dei volontari. «Qui a Roma, per esempio, da circa vent’anni portiamo cibo e bevande alle persone senza fissa dimora. Accade tutti i venerdì. Una volta bastavano i dormitori a ospitare i senzatetto. Oggi, con l’immigrazione è cambiato tutto. Sono circa 15mila le persone senza casa» racconta Stefano Zoani, avvocato, presidente del Consiglio interregionale delle Conferenze di Lazio e Umbria.
Immagini della beatificazione di Antonio Federico Ozanam a Notre-Dame, il 22 agosto 1997

Immagini della beatificazione di Antonio Federico Ozanam a Notre-Dame, il 22 agosto 1997

Per poter operare in maniera più efficace la San Vincenzo ha negli ultimi tempi provveduto ad aggiornare lo statuto delle 2.021 associazioni di volontariato spuntate in Italia come funghi. «Siamo abili, più degli altri a volte, a realizzare progetti. Ma se non ci si iscrive all’albo regionale delle associazioni di volontariato è fatica sprecata» spiegano Maria Supino e Concettina Arcopinto, rispettivamente presidente del Consiglio interregionale Campania e Basilicata e presidente del Consiglio centrale di Napoli. Ci raccontano della San Vincenzo a Napoli, 28 Conferenze animate da oltre trecento persone. E soprattutto di quel microcosmo pullulante di buone opere che è l’Istituto Ozanam. Sta ben piantato in mezzo al rione Sanità, universalmente riconosciuto come una delle zone più a rischio della città. Qui, a disposizione di tutti i poveri del quartiere e non solo, opere di carità tradizionali si mescolano a quelle ispirate a progetti educativi all’avanguardia. Scuole di taglio e cucito, di ceramica e quant’altro fanno da cornice al progetto “Bimbi sani”, un percorso educativo con il quale si sta provando a strappare dalle grinfie della criminalità organizzata le generazioni future del rione Sanità. «Contiamo molto sulle mamme, vere protagoniste qui alla Sanità, visto che i mariti stanno quasi sempre in carcere», racconta Claudio Nardi, il presidente dell’Istituto. «Ciò che distingue il nostro progetto educativo da quelli di tipo più tradizionale, è il tentativo di far emergere la vocazione, il talento, la creatività personale di questi ragazzi. Vogliamo aiutarli ad avere coscienza del proprio valore, e a percorrere una strada diversa da quella dei loro padri». A tredici chilometri da Napoli, a Sant’Antimo – tutta palazzoni, solitudine e cumuli di immondizia lasciati per strada –, sta il Centro Ozanam, un’oasi di accoglienza e carità sorta nel 1991 insieme con la parrocchia di San Vincenzo Ferreri: anche qui si combatte soprattutto per salvare i minori a rischio, figli per lo più di disoccupati, di prostitute e di gente inguaiata con la giustizia. «Prima d’ogni cosa a questi ragazzi vanno ridati fiducia, affetto, orgoglio, un equilibrio interiore e soprattutto la voglia di tornare a scuola», raccontano Antonio Gianfico e Monica Galdo, due volontari del Centro. Un aiuto che estendiamo anche alle loro famiglie, costituite per lo più dalla sola madre. Proprio per questo c’è uno spazio riservato anche agli adulti che hanno bisogno di confidarsi e chiedere aiuto». Tra tanta durezza, però, negli anni, raccontano i due volontari, sono capitati tanti fatti bellissimi: c’è chi si è laureato. Addirittura qualcuno è diventato sacerdote.


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