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GIOVANNI PAOLO I
tratto dal n. 07/08 - 1998

«Lo stupore di Dio»


Disse Luciani: «Io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto». Un professore universitario, suo amico, ricorda quei trentatré giorni di pontificato


di Vittore Branca


Quella mattina del 29 settembre del 1978, quando alle 8, alla radio, sentii del misterioso transito di papa Luciani, mi si ripresentò subito la sua immagine, ridente e familiare, ventidue giorni prima alla stessa ora. Mi aveva accolto nel suo studio, con mia moglie, in quel limpido inizio di mattina settembrina, dopo che avevamo attraversato logge e sale vaticane ancora deserte. E, mentre discorreva domesticamente con noi, guardava insistente l’angolo del tavolo dov’era un pulsante bianco con le insegne pontificie. «Vorrei suonare per farvi portare un caffè ma temo disturbare». Una delicatezza umanissima che forse quella notte lo fece morire tutto solo.
Un’umiltà e un abbandono tutti rosminiani (in lui che aveva iniziato i suoi studi con Rosmini) caratterizzarono la sua vita, illuminarono episodi esemplari della sua vicenda terrena. Ce n’è tutta una serie, quasi aneddotica, che offrirebbe a un poeta o a un agiografo, alla Jacopone da Todi o alla Tommaso da Celano, occasione facile per scrivere di lui una “legenda dorata” di conformità a Gesù, di Speculum Christi, e per raccogliere lungo la sua vita una serie di “fioretti” gentili ed edificanti. Trentatré giorni come vicario di Cristo per i trentatré anni sulla terra del suo Signore; quattro discorsi ufficiali nelle udienze generali come quattro sono i Vangeli; un linguaggio tutto fatto delle realtà più quotidiane, tutto aforismi e parabole, tutto semplicità e immediatezza come quello evangelico; un sorriso d’umiltà che illuminava tutto e tutti e un interesse spiegato e continuo, come quello del Buon Pastore, per i semplici, i poveri, i sofferenti di ogni specie.
Tutta la vita di Albino Luciani fu impegnata a ricercare la sostanza del Vangelo, come unica ed eterna verità, al di là di ogni contingenza storica o peggio di moda. E come il Vangelo, senza rinnegare nulla dell’Antico Testamento, impose il Nuovo e il suo stile di realtà e non di forme, così Albino Luciani con la sua disarmata e disarmante semplicità demitizzava ogni forma anche religiosa o ecclesiastica per riportare tutto alla sostanza. A chi a Venezia lo richiamava alla tradizione di gloria e di potentato racchiusa nel titolo di patriarca, ultimo vestigio dello splendore della Serenissima, rispondeva: «Ma io sono solo un vescovo tra i vescovi, un pastore fra i pastori che deve avere come unico impegno l’annuncio della Buona Novella e la salvezza delle sue pecorelle. In San Marco non posso dire che le cose che dicevo a Canale, a Belluno, a Vittorio Veneto».
Ed era proprio per questo – e per la radicata e tranquilla convinzione di essere come san Francesco «servus inutilis et ineptus» – che poteva senza sdegno alcuno sfocare forme e titoli, mirando alla sostanza.
Bastarono quell’ieri e quell’io iniziali del suo primo discorso papale per spazzare via le solennità del plurale maiestatico; bastò quel suo gesto familiare di ravviarsi il ciuffetto per relegare in museo la tiara che già Paolo VI aveva posto in oblio; bastò la sua decisione, da pastore, di presentarsi al mondo nella nuova veste di vescovo di Roma celebrando una messa di fronte al suo popolo, per respingere nei ricordi storici le incoronazioni e i cortei trionfali. Ma bastarono anche il richiamo ai preti a essere soprattutto preti, sempre al servizio di tutti, e il ricordo del valore del sacrificio e dell’obbedienza, come suprema povertà e carità, a far capire che quel sorriso, quel francescano disprezzo di sé, quell’oblio di ogni solennità non significavano incuria o insipienza ma volontà di mirare a quello che solo contava secondo il Vangelo.
Raccontava che quando, fatto vescovo da papa Roncalli, fu da lui in udienza, aprirono insieme – secondo una pia consuetudine – l’Imitazione di Cristo quasi a raccogliere una direttiva al nuovo pastore. Capitò il capitolo 23 del libro III: «Studiati, figliuolo, di fare la volontà altrui piuttosto che la tua. Cerca sempre l’ultimo posto e di sottostare a tutti. Desidera sempre e prega che si compia in te la volontà di Dio». Erano parole che consacravano una vocazione e un’ascesi interiore divenute in Albino Luciani regola di vita e di apostolato.
Eppure, nonostante questa dedizione e questa immediatezza tutte evangeliche, il patriarca Luciani non fu popolare a Venezia. Non poteva essere popolare chi andava risolutamente contro corrente. Mentre era umanissimo e tollerante per debolezze ed errori episodici, il patriarca Luciani fu severo con coloro che, come ripeteva Danielou, «invece di servire in umiltà la Chiesa sono diventati dei divi, dei personaggi alla moda: criticano, contestano, demoliscono incoraggiati da una pubblicistica che riferisce ogni parola che dicono come se soltanto quella fosse verità». Fu a Venezia, negli anni della contestazione, alle volte come Geremia quando predicava contro l’idolatria, chiuso in una fossa: in una fossa di isolamento e di rancore. Divenne per lui vero quello che un suo autore, Gregorio di Nissa, scriveva dei profeti: «Gli amici e maestri della verità diventano sempre dei nemici per quei discepoli che essi rimproverano».
Era proprio in questa situazione, il patriarca Luciani, quando partì per il conclave. E difatti né i vaticanisti né i cosiddetti “consiglieri dello Spirito Santo”, pensavano a lui.
Eppure forse nessun papa ebbe tanto rapidamente e tanto largamente i consensi dei cardinali e l’entusiasmo del popolo. «La pietra rigettata da quelli che presumevano di costruire è stata posta come chiave di volta dal Signore: ed è miracolo agli occhi nostri» (Salmo 117).
Quel motto «Humilitas» che aveva voluto sul suo stemma, non era solo, come ha ben detto don Mario Senigaglia, suo segretario a Venezia per lunghi anni, un ricordo delle sue origini contadine ma «uno stile di vita e di servizio vissuto da prete, da vescovo, da patriarca e da papa con questa certezza, come egli scrisse: “Siamo i figli della speranza, lo stupore di Dio... Io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto”».
Dirà a Bernardin Gantin, suo ultimo interlocutore la sera del 28 settembre: «Solo Gesù Cristo dobbiamo presentare al mondo. Fuori di questo non avremmo nessuna ragione di parlare: non saremmo, del resto, per la nostra incapacità, neppure ascoltati». Lo diceva poche ore prima della sua improvvisa scomparsa mentre tutti, anche i più fedeli, dormivano, come al Getsemani.


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