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STORIA
tratto dal n. 07/08 - 1998

Petrarca in una Roma senza papa


Il poeta venne più volte nella Città eterna come pellegrino. Anche durante il Giubileo del 1350, che si svolse in una situazione ben triste: Roma era una distesa di rovine, e i pontefici da tempo risiedevano ad Avignone


di Serena Ravaglioli


All’amico Barbato da Sulmona che gli aveva espresso il suo rammarico per non averlo trovato a Roma durante l’Anno Santo, Francesco Petrarca rispose: «Avresti potuto prevedere, se ti fossi ricordato della mia lentezza, che mi avrebbe condotto a Roma non il principio ma la fine del Giubileo». Del resto, che i due amici non si fossero incontrati era per il Petrarca un’espressione della volontà divina, perché in caso contrario avrebbero finito per visitare i luoghi dell’Urbe spinti da curiosità poetica, piuttosto che frequentare le chiese animati da devozione cattolica, e avrebbero trascurato la cura dell’anima a favore della passione letteraria.
I motivi che avevano spinto Petrarca sulla via di Roma nell’autunno 1350 erano invece di ordine puramente religioso. Si trattava della sua quinta (e sarebbe stata l’ultima) peregrinatio romana, e il poeta stesso la riteneva la più felice «di tanto quanto è più importante la cura dell’anima rispetto a quella del corpo ed è più desiderabile la salvezza eterna della gloria mortale».
Già quando, quattordici anni prima, era venuto per la prima volta a Roma, per soddisfare il desiderio da lungo tempo nutrito di conoscere la città, Petrarca, pur rimanendo ammirato dai resti dell’antica grandezza dell’Urbe, non aveva potuto fare a meno di notare lo stato di estremo degrado in cui la città versava, tanto da essere ridotta a «mera ombra dell’antica». Da quando il Papa e la sua corte cardinalizia si erano stabiliti ad Avignone, tutti i ceti le cui attività erano in qualche modo connesse con la Curia – ed erano quelli che avevano un ruolo centrale nell’economia cittadina – erano rimasti privi della loro fonte di sostentamento. Le opere pubbliche erano state interrotte, mentre strade, case, chiese cadevano in abbandono. La malavita imperversava, bande armate assalivano le case e le saccheggiavano, i torbidi e le lotte fra le potenti famiglie nobili degli Orsini e dei Colonna erano tali che si era praticamente all’anarchia. Negli anni immediatamente precedenti il Giubileo del 1350, la situazione si era ancora aggravata a causa di due eventi che si erano susseguiti in drammatica successione: la peste del 1348 e il terremoto del 1349. Se la peste a Roma non aveva avuto le stesse nefaste conseguenze che in altre città, nondimeno aveva portato a un’ulteriore diminuzione della popolazione, già notevolmente calata di numero rispetto all’inizio del secolo. È peraltro alla peste, o meglio alla sua fine, che la tradizione vuole sia legata la costruzione dell’unico grande monumento eretto in quegli anni a Roma: la scalinata dell’Ara Coeli, che sarebbe appunto un ex voto per la cessazione della “morte nera”. Conseguenze ancora più gravi aveva portato il terremoto: le scosse erano state tanto forti da costringere i cittadini a dormire fuori delle case per settimane; molti edifici, sia privati che pubblici, sia sacri che profani, erano crollati o erano stati pesantemente danneggiati. Sebbene qualche tentativo di restauro fosse stato fatto, la situazione che si presentava agli occhi dei pellegrini era assai triste. Qualche anno dopo, scrivendo al papa Urbano V per esortarlo a lasciare Avignone e a fare ritorno alla sede di Pietro, Petrarca vi avrebbe fatto un doloroso riferimento: «Come puoi (perdona, o clementissimo Padre, l’ardito linguaggio!) dormire tranquillo sotto i tetti dorati in riva al Rodano mentre il Laterano cade in rovina e la chiesa che è madre di tutte, scoperchiata, non ha difesa dai venti e dalle piogge, vacillano le sante case di Pietro e di Paolo e dove non molto tempo fa sorgeva il tempio sacro agli apostoli non si vedono che macerie e rovine, il cui aspetto deforme forzerebbe al pianto anche chi avesse un cuore di pietra?».
Ma ancor più della fatiscenza dei monumenti e dello sfacelo generale della città, certamente durante questa sua permanenza romana doveva pesare al Petrarca la situazione politica determinatasi dopo la caduta di Cola di Rienzo. Era stato proprio l’Anno Santo a creare la prima occasione di incontro tra il poeta e Cola, che nel 1342 si era recato ad Avignone a capo di un’ambasceria del popolo romano incaricata di chiedere al papa Clemente VI, oltre che di riportare a Roma la sede pontificia, di consentire l’indizione degli Anni Santi a ritmi cinquantennali invece che secolari, com’era stato inizialmente stabilito; in sostanza si chiedeva la promulgazione dell’Anno Santo del 1350. Cola perorò con forza la causa e ottenne la promessa voluta. Petrarca ne fu conquistato. Quando Cola riuscì a farsi acclamare tribuno del popolo, il poeta da Avignone ne seguì con entusiasmo il tentativo di stabilire un nuovo ordine di cose, il “buono stato” e tanto più approvò il progetto di guidare da Roma la fondazione di un impero popolare italiano. Per Petrarca, Cola era l’incarnazione di una figura ideale, un nuovo Bruto e un nuovo Romolo, l’uomo che da tanto tempo stava cercando. Gli indirizzò felicitazioni ed esortazioni piene di calore, salutandolo come il salvatore del popolo e il castigatore della tirannia nobiliare. Tanto fu il suo entusiasmo da alienarsi la protezione dei Colonna di cui aveva sempre goduto. Forte fu quindi la delusione quando Cola, mal visto dal Papa, insospettito dalle sue velleità espansionistiche, inviso ai nobili di cui aveva contestato i privilegi, e alla fine abbandonato anche dal popolo deluso nelle sue aspettative di favori e benefici, fu costretto ad abdicare.
Per punire i romani, rei di aver assecondato il programma rivoluzionario di Cola, Clemente VI fece tardare alquanto la promulgazione ufficiale del secondo Anno Santo, che alla fine fu comunque indetto, con la promessa dell’indulgenza plenaria per quelli che avessero visitato San Pietro, San Paolo e San Giovanni in Laterano. Il Giubileo «radunò quasi tutto il popolo cristiano»: malgrado l’assenza del Papa privasse i pellegrini della possibilità di essere benedetti dal Pontefice dalla loggia del Laterano, come era accaduto a quelli che erano venuti nel 1300 per il primo Anno Santo – Dante fra loro – il concorso di persone arrivate in città fu notevolissimo, soprattutto in occasione della Pasqua e del Natale.
Quando Petrarca decise di mettersi in viaggio, si rivolse a un amico, Guglielmo di Pastrengo, perché lo accompagnasse, ma ne ebbe risposta negativa. Partì da solo e sulla strada per Roma si fermò a Firenze dove trascorse alcuni giorni tra dotti conversari, ospite di Giovanni Boccaccio. Una volta arrivato a Roma gli scrisse per raccontargli l’incidente che gli era capitato mentre era in viaggio, nei pressi di Bolsena. Il compagno che procedeva alla sua sinistra, un vecchio abate, aveva perso il controllo del suo cavallo che aveva sferrato un calcio così forte sul ginocchio di Petrarca da far temere una frattura delle ossa. Nonostante il fortissimo dolore, il poeta aveva voluto comunque proseguire per Viterbo e per Roma, ma, una volta arrivato in città, la brutta ferita trascurata lo aveva costretto a stare immobile per quindici giorni.
Del pellegrinaggio di Petrarca non sappiamo altro e possiamo solo immaginarcelo impegnato con tutta la sua “cattolica devozione”, non messa a repentaglio dalla presenza di amici letterati, nelle pratiche religiose proprie del momento solenne. E piace soprattutto immaginarlo orante di fronte alla reliquia della Veronica, a cui con tanta forza aveva alluso nel famoso sonetto del «vecchierel canuto et biancho» che «viene a Roma, seguendo ’l desio,/ per mirar la sembianza di colui/ ch’ancor lassù nel ciel vedere spera».


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