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VATICANO
tratto dal n. 06 - 1998

VIAGGI PAPALI. L’ipotesi di Giovanni Paolo II in Iraq potrebbe non essere un sogno

Sulle orme di Abramo


Da Ur dei Caldei alla Palestina. Un viaggio con grandi implicazioni geopolitiche impedito finora dall’embargo nei confronti di Baghdad e dalla crisi del processo di pace israelo-palestinese. Ma dopo la missione di Etchegaray in Iraq e l’incontro del Papa con Arafat, qualcosa è cambiato…


di Marco Politi


Giovanni Paolo II è pronto a riprendere il bastone di pellegrino per una meta fantastica e lontana: Ur dei Caldei, la patria di Abramo, l’antica città dei sumeri, quattrocento chilometri a sud di Baghdad. Basta solo evocare il nome della nazione in cui dovrebbe recarsi – l’Iraq – per capire le implicazioni geopolitiche del viaggio. Un’altra missione (come a Cuba) in un Paese che non vuole più stare al bando della comunità internazionale.
Papa Wojtyla ne ha riparlato improvvisamente nei giorni scorsi, poco prima di partire per l’Africa: «Quel viaggio sulle orme di Abramo» ha detto ai suoi intimi «sarebbe bello farlo». Il pensiero accompagna costantemente il vecchio Pontefice, che ha svelato qualche anno fa il progetto (anzi ha parlato di “sogno”) di seguire passo passo il lungo tragitto di Abramo dalla Mesopotamia fino alla terra di Canaan. Un tour straordinario dall’Iraq alla Siria, al Libano, alla Giordania, all’Egitto per arrivare alle terre palestinesi e allo Stato di Israele.
«Un viaggio complesso da organizzare», ha spiegato la settimana scorsa il portavoce vaticano Joaquín Navarro Valls a una conferenza di rappresentanti dei mass media americani, «ma il progetto non abbandona la mente del Papa».
Ciò che finora è apparso un sogno, sta però per realizzarsi. Due avvenimenti verificatisi a pochi giorni di distanza nel mese di giugno hanno avvicinato di colpo la possibilità che Giovanni Paolo II possa mettersi in cammino già nel 1999: cominciando da Baghdad per approdare a Betlemme. Dall’8 al 10 giugno il cardinale Roger Etchegaray, presidente del Comitato internazionale per il Giubileo, ha partecipato a una conferenza di Chiese cristiane, organizzata dal patriarca Raphael Bidawid per invocare la fine dell’embargo imposto all’Iraq dopo la guerra del Golfo e rafforzare il dialogo cristiano-islamico.
Durante la sua permanenza, il cardinale Etchegaray ha avuto due colloqui con il vicepremier, Tarek Aziz, e il ministro degli Esteri iracheno, Al Sahaf. Con entrambi si è parlato sia della necessità di premere sull’Onu perché venga posto fine all’embargo, sia del progettato viaggio papale. Saddam Hussein ha già invitato ufficialmente il Papa l’ultima volta che Tarek Aziz è stato ricevuto in Vaticano. Anche il patriarca Bidawid chiede con insistenza che Giovanni Paolo II si rechi presso la comunità cristiana irachena.
«Gli iracheni veraci siamo noi caldei, perché eravamo già qui ai tempi di Abramo, mentre i sovrani successivi sono venuti dall’Arabia e dalla Turchia», ci ha detto sorridendo il patriarca Bidawid a Baghdad, nei giorni della conferenza che ha visto la partecipazione di oltre cento Chiese cristiane, anche nordamericane. Battute a parte, il Vaticano è molto preoccupato per la sistematica erosione della presenza cristiana nel Vicino Oriente. Dalla Palestina all’Iraq, dal Libano alla Siria le comunità cristiane si vanno assottigliando in modo preoccupante. Molte famiglie scelgono la via dell’emigrazione, specialmente in America, con l’effetto di ridurre la vita cristiana in luoghi centrali per la fede, anzi proprio nei luoghi «da cui tutto il mondo ha avuto inizio». Il cardinale Achille Silvestrini, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, ripete spesso: «Non dobbiamo dimenticare che queste sono le terre percorse da Gesù, dagli apostoli, dai primi evangelizzatori». Per non parlare di Abramo, padre e capostipite dei credenti delle tre grandi religioni monoteistiche.
«Il Papa vuole venire entro l’anno prossimo, salute permettendo», afferma il patriarca Bidawid, desideroso di rafforzare il suo gregge di 600mila anime, il più consistente nel Vicino Oriente.
Ma finora c’erano due ostacoli che bloccavano la realizzazione del progetto: l’embargo decretato contro l’Iraq e la crisi del processo di pace israelo-palestinese. Il Papa non può arrivare in Terra Santa, ha spiegato a più riprese il “ministro degli Esteri” vaticano, monsignor Jean-Louis Tauran, finché la situazione non è pacificata. In altre parole finché una delle due parti (quella palestinese) potrebbe concepire la visita come il placet a una ingiustizia: l’occupazione arbitraria della Cisgiordania e di Gerusalemme Est da parte di Israele.
Tuttavia, proprio rispetto a questi due fattori, ci sono stati recentemente cambiamenti significativi. «Il viaggio papale si può fare anche se continuasse l’embargo» dichiara il patriarca Bidawid «anzi sarebbe utile per affrettarne la fine». La posizione del Vaticano è chiara ed è stata espressa a più riprese dal Papa e ribadita a Baghdad dal cardinale Etchegaray: quando il blocco finisce per danneggiare la popolazione, specialmente bambini, vecchi e malati, non è più moralmente sostenibile, «è ingiusto». Un segnale nuovo – ancora timido – è venuto dal capo della commissione speciale delle Nazioni Unite, Richard Butler, giunto a Baghdad per una delle sue periodiche visite mentre Etchegaray stava concludendo la sua missione. Butler ha dichiarato per la prima volta che «si comincia a vedere la luce in fondo al tunnel» e cioè che si sta per entrare nella fase finale del processo, che dovrebbe certificare che l’Iraq ha rispettato le condizioni di disarmo imposte dalle Nazioni Unite.
La visita papale potrebbe dunque svolgersi in un’atmosfera positiva e potrebbe favorire il pieno inserimento dell’Iraq nella comunità internazionale, tenuto conto che la quasi totalità dei Paesi arabi, gran parte delle nazioni europee, Russia e Cina premono per una normalizzazione. D’altronde, anche gli avversari più tenaci di Baghdad nello scacchiere del Vicino Oriente stanno mutando atteggiamento. «Con il Kuwait e l’Arabia Saudita» ci ha confidato uno dei consiglieri di Saddam Hussein «non abbiamo più contenziosi».
Nessuno si illude che non ci possano essere ancora contraccolpi. Si era appena spenta l’eco delle prime dichiarazioni di Butler che scoppiava una nuova polemica tra il governo iracheno e il capo degli ispettori dell’Onu, sospettato da Baghdad di essere schierato troppo dalla parte degli Stati Uniti. Nell’ultimo rapporto di Butler, presentato al Consiglio di sicurezza, si accusa l’Iraq di reticenza su questioni come il gas nervino vx, di cui sarebbero stati dotati i missili iracheni prima della guerra del Golfo. L’effetto immediato è stato il prolungamento del blocco per altri 60 giorni.
Eppure, nonostante questi irrigidimenti, sembra farsi strada a Washington – almeno in alcuni settori politici – l’idea che non si possano governare le crisi a colpi di embargo. Nei confronti di Cuba e dell’Iran l’amministrazione Clinton sta già mutando atteggiamento e una parte del merito va data anche alla Santa Sede che, da anni, sostiene la necessità di instaurare un nuovo ordine internazionale, garantito collettivamente e non guidato solitariamente dall’unica superpotenza rimasta.
Mentre il cardinale Etchegaray si trovava ancora in missione speciale a Baghdad, il presidente dell’Autorità palestinese, Yasser Arafat, giungeva in Vaticano. Il leader dell’Olp ha invitato caldamente Giovanni Paolo II a recarsi a Betlemme per il Giubileo. Cade così il suggerimento del rinvio di una visita in Terra Santa, avanzato nei mesi scorsi da esponenti palestinesi per protesta contro la politica del governo Netanyahu.
Abbiamo chiesto a Nemer Hammad, rappresentante dell’Olp in Italia, se c’era un collegamento fra la visita del Pontefice a Betlemme e un eventuale accordo definitivo fra Tel Aviv e i palestinesi. «Nessun collegamento» ha risposto Hammad. «Speriamo che per quell’epoca si sia trovato un accordo, ma l’invito è stato rivolto al Pontefice del tutto autonomamente».
Giovanni Paolo II è dunque il benvenuto nei territori palestinesi (e di conseguenza in Israele) senza condizioni. Era il tassello mancante per iniziare a pianificare il viaggio di Wojtyla sulle orme di Abramo. Il patriarca Bidawid ha già indicato le prime tappe: Ur e Babilonia. Il periodo migliore – per evitare il caldo soffocante – sarebbe la primavera oppure l’autunno del 1999. L’11 giugno scorso il cardinale Etchegaray si è recato in avanscoperta a Ur, pregando presso i resti della “casa di Abramo”. Ai cristiani di Baghdad, riuniti nella Cattedrale di San Giuseppe, ha annunciato: «Il Papa è in cammino verso il vostro Paese!».


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