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STORIA
tratto dal n. 06 - 1998

Dante a Roma per il Giubileo del 1300


Per gli studiosi anche il sommo poeta venne a Roma pellegrino, durante l’Anno Santo indetto da Bonifacio VIII. Ecco come si è giunti a ritenere quasi certo il suo viaggio nella Città eterna


di Serena Ravaglioli


Il primo Giubileo della Chiesa fu promulgato da papa Bonifacio VIII nel febbraio 1300. Erano già diversi decenni che le tombe degli apostoli avevano ripreso a essere meta di numerosissimi pellegrinaggi, come si era già verificato nei primi secoli del Medioevo. Con la bolla Antiquorum habet il Papa intese ratificare questa pia pratica devozionale, concedendo l’indulgenza plenaria a chi avesse visitato entro l’anno le Basiliche di San Pietro e di San Paolo. Da tutto il mondo folle di pellegrini accorsero a Roma. Dai racconti dei cronisti contemporanei si può ricostruire che in quell’anno la media delle presenze in città fu di duecentomila persone ogni giorno. Tale moltitudine, tanto più significativa se si pensa che gli abitanti della città erano in quel periodo solo trentacinquemila, rappresentò un fenomeno eccezionale sotto ogni aspetto, religioso, politico e anche economico. Sempre dalle cronache coeve sappiamo che i pellegrini (i romei, per usare le parole di Dante: «chiamansi romei in quanto vanno a Roma») rimanevano affascinati dalla febbrile animazione e dalla ricchezza della città, dalla quantità e dallo splendore delle chiese.
Che tra i fiorentini recatisi in pellegrinaggio a Roma nel 1300 vi fosse anche Dante è opinione generalmente accolta dagli studiosi, anche se, in realtà, non ci sono documenti certi su questo. L’unica visita di Dante a Roma sicuramente attestata avvenne l’anno successivo, nel settembre 1301, quando fece parte dell’ambasceria inviata da Firenze al Papa per ben disporne l’animo verso la città. Cosa spinge allora a ritenere quasi certa la partecipazione di Dante al Giubileo? Soprattutto un passo della Divina Commedia, per l’esattezza del canto XVIII dell’Inferno. In esso Dante paragona il procedere in senso opposto delle due schiere di peccatori della prima bolgia ai pellegrini che sul ponte Sant’Angelo, durante il Giubileo, si incrociavano, gli uni diretti a San Pietro, gli altri, di ritorno, diretti a Monte Giordano: «come i Roman per l’essercito molto, / l’anno del giubileo, su per lo ponte / hanno a passar la gente modo colto, / che da l’un lato tutti hanno la fronte / verso ’l castello e vanno a Santo Pietro; / da l’altra vanno verso il monte...». La notizia del “doppio senso di marcia” sul ponte, disposto per organizzare la grande ressa («l’essercito molto») di quelli che andavano e venivano dalla Basilica, la si ritrova solo in Dante e ha chiaramente il sapore di un ricordo personale di una “cosa vista”, anche se, a rigore, egli potrebbe averla appresa da altri pellegrini o dai romani nella sua visita dell’anno seguente.
Secondo i cronisti del tempo, da Firenze partirono alla volta di Roma numerosissimi pellegrini. Fra loro ricordiamo en passant Giovanni Villani, che fu tra i molti che trassero impressioni forti e feconde dalla visita giubilare e «in quello benedetto pellegrinaggio nella santa città di Roma» ebbe l’ispirazione a scrivere la sua Storia di Firenze per emulare i grandi scrittori di storia romana. In ogni modo, basandosi sul passo relativo all’andirivieni su ponte Sant’Angelo e sui dati relativi all’affluenza così robusta di romei fiorentini, e considerando naturalmente la profonda e sollecita religiosità di Dante, gli studiosi, come si è detto, sono pressoché concordi nel ritenere che Dante sia venuto a Roma per il primo Giubileo. Quanto si sa dell’attività del poeta in quel torno di tempo induce a datare questa visita alla prima parte dell’anno. È particolarmente suggestivo pensare che sia avvenuta proprio in quella settimana santa del 1300, in cui si colloca l’inizio del viaggio della Divina Commedia.
Un altro riferimento al Giubileo, meno diretto e personale, si trova in alcuni versi del II canto del Purgatorio, nell’episodio di Casella: questi spiega all’amico che l’angelo che ha l’incarico di trasportare in purgatorio le anime raccolte alla foce del Tevere ormai da tre mesi non rifiuta a nessuno l’entrata nella sua barca: «veramente da tre mesi elli ha tolto / chi ha voluto intrar, con tutta pace». Tutti i commentatori vedono in questo brano una chiara allusione all’indulgenza accordata alle anime del purgatorio con il Giubileo a partire dal Natale 1299.
Più difficile, invece, è connettere precisamente all’occasione giubilare un celebre passo del Paradiso, canto XXXI, dove Dante paragona se stesso in contemplazione del volto di san Bernardo al pellegrino venuto da una regione molto lontana, la Croazia, per saziare il desiderio da lungo tempo provato di vedere la sembianza del Cristo nell’immagine della Veronica: «Qual è colui che forse di Croazia / viene a veder la Veronica nostra, / che per l’antica fame non sen sazia, / ma dice nel pensier, fin che si mostra: / “Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?”; / tal era io...». La Veronica è il Santo Sudario, conservato nella Basilica di San Pietro forse dai primi secoli del Medioevo. Secondo la tradizione, questo lembo di lino sarebbe stato porto a Cristo durante la salita al Calvario da una pia donna, chiamata appunto Veronica, perché si asciugasse il volto sudato e insanguinato, e i tratti divini sarebbero così rimasti impressi nella stoffa. Nel Medioevo la Veronica fu oggetto di grande venerazione ed esercitò un enorme richiamo, perché era considerata l’immagine più importante di Cristo di tutto l’Occidente. Da Giovanni Villani abbiamo la notizia che durante il Giubileo del 1300 la Veronica venne esposta ogni venerdì e tutti i giorni festivi. Da altre fonti però sappiamo che l’esposizione della sacra reliquia avveniva tutti gli anni in diverse occasioni, in particolare durante la settimana santa. È per questo che un diretto riferimento all’ostensione durante l’anno giubilare nel passo del Paradiso è solo un’ipotesi. Quel che comunque è certo è la profonda devozione che si incentrava intorno a questa immagine sacra e la fortissima impressione che Dante, come tutti gli altri pellegrini che potevano contemplarla, ne riportò. Oltre che nel canto di san Bernardo, Dante parla della Veronica in un brano della Vita Nuova definendola «quella imagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura». Un’altra suggestiva testimonianza della vivezza della pratica devozionale per il Santo Sudario si ha in un noto sonetto del Petrarca, in cui è descritto il pellegrinaggio del «vecchierel canuto et biancho» che abbandona casa e familiari per intraprendere il lungo e faticoso viaggio che lo porterà finalmente a contemplare la “sembianza” del Redentore.
Si possono citare per concludere alcuni altri passi in cui Dante accenna a monumenti o a luoghi romani. Sono cenni fugaci e non è possibile distinguere quelli che derivano da una conoscenza mediata da altri che risultano invece da una visione personale. Tanto meno, è evidente, è possibile avanzare ipotesi per valutare se queste conoscenze gli venissero dalla visita del 1300 o da quella del 1301. Nel canto XV del Paradiso è citato il colle di Monte Mario, dal quale chi veniva dal Nord aveva la prima visione sulla città. Nell’Inferno la faccia del gigante Nambrotte è paragonata alla «pina di San Pietro» ed è menzionato il «sasso di Monte Aventino». Un brano del Convivio, infine, parla della notorietà della «guglia di San Pietro», l’obelisco ora al centro della piazza e a quei tempi situato sul fianco della Basilica. Si può ricordare, per finire, l’ipotesi, suggestiva ma tutt’altro che comprovata, che Dante abbia appreso la vicenda della “donazione costantiniana” nel corso di una visita alla Basilica dei Santi Quattro Coronati, dagli affreschi dell’oratorio di San Silvestro.


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