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ITALIA
tratto dal n. 05 - 1998

POLITICA. Uno studio su un principio fondamentale per chi opera nel sociale

Sussidiarietà e nuova Costituzione


Il principio elaborato dalla dottrina sociale della Chiesa a partire dall’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno del 1931 è ormai presente in molti trattati dell’Unione europea. Breve storia del dibattito attuale


di Francesco Colucci


La sussidiarietà è un principio della vita sociale che regola i rapporti fra la persona, le formazioni sociali in cui essa svolge la propria personalità e l’organizzazione statuale, la quale a sua volta si articola nelle comunità locali, nelle regioni e nello Stato. Ciò che gli uomini possono fare da sé con le proprie forze non può essere loro tolto e rimesso alla società, e ciò che vale per il singolo rispetto alla società vale parimenti per le società minori e di ordine inferiore nei confronti delle maggiori e più alte. Principio di ordine interno, quindi, nell’ambito di qualsiasi società nei confronti dei suoi componenti, ma anche principio di ordine esterno, nei confronti delle varie società tra di loro. Come la società non deve sostituirsi ai singoli in ciò che questi possono fare da sé, così le società maggiori non devono assumere compiti che possono essere svolti dalle società minori.
Il principio di sussidiarietà è stato elaborato dalla dottrina sociale della Chiesa a partire dall’enciclica Quadragesimo anno del 1931. Dopo aver constatato come «per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni», l’enciclica afferma con forza che, anche in questa nuova situazione, deve «restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale» secondo il quale «siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare».
Il principio di sussidiarietà è di vitale importanza per le associazioni, i movimenti, le organizzazioni di volontariato, gli enti non profit (cioè senza finalità di lucro) quando essi, come generalmente accade, intendono proporre una loro originale risposta ai problemi sociali e spirituali della persona. Se lo Stato, ovvero le altre istituzioni regionali e locali assumono un atteggiamento che non agevola l’iniziativa della persona e delle formazioni sociali, ma anche se lo Stato rimane indifferente e non interviene ove l’iniziativa della società non riesce ad arrivare, si nega il principio di sussidiarietà, che non costituisce una formula di compromesso tra la teoria statalista (che tanta fortuna ha avuto nella cultura giuridica italiana) e quella dello Stato minimo di impronta liberista, ma esprime una concezione originale che implica realisticamente la necessità dell’intervento promozionale o ordinatore e coordinatore dello Stato a favore dell’incremento e dell’incentivazione di una cultura della responsabilità.
Pur non essendo esplicitamente previsto dalla nostra Costituzione, approvata nel 1947, il principio di sussidiarietà è implicitamente tenuto presente. Nella Costituzione, infatti, la persona è vista nella concretezza del suo legame sociale e nella sua possibilità di apporto libero e creativo all’edificazione del bene comune: il valore della dignità umana è costantemente affermato e l’imputazione dei diritti è fatta all’individuo considerato nella concretezza del suo esistere, a un soggetto, cioè, che così come non è considerato al di fuori della relazione sociale, tantomeno è sublimato nella dinamica organizzativa della persona statale. Il secondo dato è inerente alla caratterizzazione in senso pluralistico, sia associativo che istituzionale, che consente di affermare come nella Carta del 1948 sia già implicitamente sancita la rottura del monopolio statale dell’interesse comunitario, in vista del riconoscimento ai soggetti del compito di perseguire gli obiettivi propri dell’intera collettività statale.
Il principio di sussidiarietà è invece esplicitamente previsto dai trattati europei.
Nel disegno di legge di modifica della seconda parte della Costituzione, approvato dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali il 4 novembre 1997 e ora in discussione presso la Camera dei deputati, si prevede esplicitamente il principio di sussidiarietà; infatti il progettato nuovo articolo 56, primo comma, della Costituzione così recita: «Nel rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte dall’autonoma iniziativa dei cittadini, anche attraverso le formazioni sociali, le funzioni pubbliche sono attribuite a comuni, province, regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà e differenziazione. La titolarità delle funzioni compete rispettivamente a comuni, province, regioni e Stato, secondo i criteri di omogeneità e adeguatezza. La legge garantisce le autonomie funzionali».
Si tratta di una formulazione che, pur accogliendo per la prima volta il principio di sussidiarietà nella Carta fondamentale, forse non ne esplica pienamente il significato. In particolare, il testo così com’è potrebbe essere interpretato non nel senso autentico, cioè che l’azione dello Stato è sussidiaria rispetto alle attività che sono svolte dai cittadini, bensì, al rovescio, che proprio questi ultimi finiscono per avere compiti sussidiari, rispetto alle funzioni pubbliche.
Facendosi portavoce di tale preoccupazione, nel corso della discussione del nuovo articolo 56 della Costituzione presso la Camera dei deputati, il deputato del Partito popolare italiano, Andrea Guarino, ha proposto un emendamento il cui testo era il seguente: «Lo Stato, le regioni, le province e i comuni esercitano le funzioni ad essi attribuite, in conformità alle finalità di interesse generale previste dalla Costituzione e in maniera proporzionata all’obiettivo di volta in volta perseguito, quando il conseguimento di tali finalità non può essere adeguatamente assicurato dall’autonomia dei privati, anche attraverso le formazioni sociali».
L’emendamento è stato respinto dalla Camera dei deputati nella seduta del 19 marzo 1998; il giorno 21 marzo lo stesso onorevole Guarino così spiegava il significato dell’emendamento in un articolo ospitato dal quotidiano Il Sole–24 ore: «La mia proposta, presentata come è noto a titolo personale, voleva inserire nella nuova Costituzione un principio di proporzionalità, ossia un vincolo di congruità tra i mezzi e le forme dell’intervento pubblico e i risultati che questo si propone di ottenere. Tale principio comporta conseguenze di portata non trascurabile. Sul fronte istituzionale, ad esempio, graduare l’intervento pubblico nella misura necessaria e sufficiente al raggiungimento dell’obiettivo voluto significa innanzitutto porre il rapporto tra pubblico e privato in termini di cooperazione e non di sudditanza: Stato, regione e gli altri enti derivano quindi la propria legittimazione dalla volontà dei cittadini. Sul piano dei rapporti sociali il principio di proporzionalità significa garantire la libertà del singolo e la possibilità di intervento quando un obiettivo di interesse generale non viene altrimenti raggiunto. Ad esempio, si può difendere allo stesso modo il diritto ad avere una scuola libera e il diritto ad avere una scuola (o un ospedale o un servizio sociale) pubblica. Altrettanto vale per i rapporti economici: il principio di proporzionalità tutela la capacità di autoorganizzazione dell’impresa contro un eccesso di dirigismo e di programmazione, ma giustifica e addirittura impone il sostegno pubblico per rimediare a situazioni di sottosviluppo o di disoccupazione. In altri termini, avrebbe giustificato, o addirittura imposto, la creazione dell’industria pubblica, ma ne avrebbe ugualmente imposto la privatizzazione (ben prima di quando sia stata effettivamente realizzata) al momento in cui tale processo di riavvio avesse raggiunto la maturazione».
Considerando il tentativo dell’onorevole Guarino un passo decisivo per il miglioramento del testo in discussione alla Camera dei deputati, la Compagnia delle Opere – un’associazione di imprese che si ispira al movimento ecclesiale Comunione e liberazione – ha tenuto a Roma, il 18 marzo 1998, cioè il giorno precedente la votazione dell’emendamento, un’assemblea dal titolo: «Più società e meno Stato. Il principio di sussidiarietà nelle riforme costituzionali», nel corso della quale autorevoli esponenti istituzionali (il presidente del Senato, Nicola Mancino; il presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni) politici (Giulio Tremonti, Rocco Buttiglione, Gianguido Folloni, Roberto Maroni, Enzo Bianco) economici (Giorgio Fossa, Cesare Romiti) e lo stesso Andrea Guarino hanno discusso del principio di sussidiarietà e di come esso trovava posto nella nuova Carta costituzionale. Il presidente della Compagnia delle Opere, professor Giorgio Vittadini, ha auspicato l’approvazione dell’emendamento Guarino, perché nel testo approvato dalla Commissione bicamerale il 4 novembre 1997, l’intervento degli enti non profit è destinato a essere configurato come meramente integrativo di quello statale, mentre l’emendamento rimuoveva ogni incertezza al riguardo, riconsiderando il ruolo del potere pubblico in campo sociale, conformemente alla fine del monopolio statale dell’interesse comunitario e giungeva a una formulazione del principio di sussidiarietà, che lo riporta nel suo campo d’azione tradizionale, rivolto alla valorizzazione del privato che svolge attività di interesse pubblico, il cosiddetto privato sociale.
Il 19 marzo 1998, quindi, la Camera dei deputati ha votato l’emendamento. La Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, rappresentata da un apposito comitato, non ha espresso un parere sull’emendamento, ritenendo di doversi rimettere alla libertà di voto di ogni deputato. Com’è chiaro tale decisione rispecchiava le divisioni presenti fra le forze politiche. Prima di passare alla votazione l’onorevole Guarino ha proposto una votazione per parti separate dell’emendamento, con l’intento di raggiungere gradualmente la sua approvazione, ma tutte le forze politiche hanno respinto tale ipotesi, chiedendo di votare in blocco. In sede di dichiarazione di voto i partiti che sostengono la maggioranza di governo hanno dichiarato il loro voto contrario, preferendo il mantenimento del testo approvato dalla Commissione bicamerale il 4 novembre 1997; tutte le opposizioni hanno dichiarato il loro voto favorevole, come pure, ovviamente, l’onorevole Guarino.
L’emendamento è stato respinto, rimanendo così confermato il testo del 4 novembre 1997. Il testo della nuova Costituzione, una volta approvato dalla Camera dei deputati, sarà esaminato dal Senato; dovrà inoltre essere riesaminato dalle due Camere con un intervallo di almeno tre mesi, perché così prevede la Costituzione vigente per le modifiche costituzionali. Inoltre, la legge istitutiva della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, che regola il procedimento di revisione della Carta del 1948, prevede un referendum popolare sul testo approvato dalle due Camere, da svolgersi entro tre mesi dalla pubblicazione; per essere approvato dal corpo elettorale, il testo dovrà non solo ricevere la maggioranza più uno dei voti validamente espressi, ma il referendum stesso sarà valido qualora vi partecipi la maggioranza degli aventi diritto al voto, cioè dei cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età.


Il principio di sussidiarietà nei trattati comunitari

Il Trattato di Maastricht, regolando i rapporti tra la Comunità, quale ente superiore, e gli Stati membri, quali enti inferiori, per la prima volta eleva il principio di sussidiarietà al livello dei principi codificati della costruzione comunitaria. L’articolo che definisce gli obiettivi dell’Unione europea sancisce che tali obiettivi saranno perseguiti nel rispetto del principio di sussidiarietà. Inoltre, il Trattato di Maastricht, modificando quello fondamentale firmato a Roma nel 1957, che ha istituito la Comunità europea, entra nel merito del principio di sussidiarietà, stabilendo che la Comunità interviene, secondo tale principio, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati a livello comunitario. Due sono, quindi, i fattori di novità recati dal Trattato di Maastricht. Il primo consiste nella definizione del principio di sussidiarietà quale parametro guida dell’Unione europea nel raggiungimento di tutti gli obiettivi che essa si prefigge; il secondo dà una prima definizione del principio di sussidiarietà, sottolineando il suo carattere dinamico che consente l’espansione o meno dell’azione comunitaria, avuto riguardo alla possibilità che l’obiettivo non possa essere raggiunto con un’azione da parte dello Stato membro, il quale trova una forma di tutela contro possibili prevaricazioni da parte della Comunità quale ente di grado superiore. È una definizione del principio di sussidiarietà di carattere “verticale” che regola i rapporti tra organizzazioni pubbliche di diverso grado, come in Italia potrebbero essere lo Stato da un lato, e le regioni dall’altro, ovvero queste ultime rispetto agli enti locali (comuni, province e città metropolitane). Manca una definizione del principio di sussidiarietà di tipo “orizzontale” che regoli i rapporti tra il soggetto pubblico e quello privato, in particolare il privato sociale che non ha come obiettivo principale il conseguimento di un profitto, ma il soddisfacimento di finalità di carattere mutualistico fra gli associati.
Prima del Trattato di Maastricht, del principio di sussidiarietà si era parlato nel 1975, quando la Commissione europea, l’organo esecutivo della Comunità, lo citò in un suo rapporto sulla futura Unione europea. Il principio di sussidiarietà conobbe un momento di altissimo significato politico nell’ambito del Progetto di un trattato che istituisce l’Unione europea, promosso dall’europarlamentare Altiero Spinelli. Il Progetto venne approvato dal Parlamento europeo nel 1984, ma, come si è visto, occorrerà attendere fino al Trattato di Maastricht per vederlo assurgere al livello dei principi fondamentali, codificati, del diritto costituzionale europeo.
Nel 1986, limitatamente alla materia ambientale, vi era stata una codificazione del principio di sussidiarietà, ad opera dell’Atto unico europeo.Il documento stabilisce che la Comunità può intervenire nel settore ambientale solo se e nella misura in cui il problema da risolvere può essere affrontato in modo migliore e più efficiente a livello comunitario piuttosto che a livello dei singoli Stati membri. Ma si tratta, come già detto, di una norma specifica per la materia ambientale.
Il principio di sussidiarietà rappresenta una novità nell’ambito dell’ordinamento comunitario, oppure è l’esplicitazione di un concetto già presente? Non è agevole dare una risposta univoca per il semplice fatto che la definizione stessa del principio di sussidiarietà non è condivisa da tutti.La sussidiarietà è un modello di gestione delle competenze formali fra pubblico e privato, ovvero, all’interno di un’organizzazione statale, fra i vari livelli di governo.Tale modello è diverso rispetto alla rigida ripartizione delle competenze, che ha disciplinato, e tuttora disciplina, i rapporti fra la Comunità e gli Stati membri.
Nell’ambito comunitario le regole per attribuire l’esercizio della competenza sono state dettate dall’ultimo atto internazionale firmato dagli Stati membri, il Trattato di Amsterdam, sottoscritto il 2 ottobre 1997, di cui è in corso la ratifica da parte degli stessi Stati membri. Uno speciale Protocollo del Trattato afferma che il principio di sussidiarietà non rimette in questione le competenze conferite alla Comunità; i criteri enunciati dal Trattato di Roma del 1957 che istituisce la Comunità europea, come modificato dal Trattato di Maastricht, prima menzionato, riguardano settori che non sono di esclusiva competenza della Comunità e il principio di sussidiarietà dà un orientamento sul modo in cui tali competenze devono essere eventualmente esercitate a livello comunitario. Ci si potrebbe, quindi, chiedere se una tale affermazione costituisca un passo indietro rispetto a quanto affermato dal Trattato di Maastricht, per cui gli obiettivi dell’Unione europea sono perseguiti nel rispetto del principio di sussidiarietà, senza fare distinzione tra competenze esclusive e competenze concorrenti con le azioni svolte dagli Stati membri. Tuttavia, il Protocollo non approfondisce ulteriormente questa distinzione e, anzi, un’interpretazione siffatta appare contrastante con l’evoluzione fin qui raggiunta dall’ordinamento comunitario.
Il Protocollo prevede che ciascuna istituzione comunitaria assicuri, nell’esercizio delle sue competenze, il rispetto del principio di sussidiarietà e di quello di proporzionalità, secondo i quali ciascuna istituzione non deve andare al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del Trattato.
Secondo il Protocollo, il principio di sussidiarietà è un concetto dinamico, che consente un ampliamento dell’azione della Comunità laddove le circostanze lo richiedano e una sua riduzione o sospensione laddove essa non sia più giustificata. Ciascuna proposta di normativa comunitaria va motivata nel senso della conformità ai principi di sussidiarietà e proporzionalità; le ragioni che hanno portato a concludere che un obiettivo comunitario può essere conseguito meglio dalla Comunità devono essere confortate da indicatori qualitativi o, ove possibile, quantitativi. Affinché l’azione comunitaria sia giustificata, è necessario che gli obiettivi della stessa non possano essere completamente raggiunti dagli Stati membri nel quadro dei loro sistemi costituzionali nazionali.
Per valutare se sussistono i presupposti per l’attivazione del principio di sussidiarietà che, come si è visto, consente un’azione comunitaria su materie che non sono già di esclusiva competenza della Comunità, il problema deve essere esaminato per accertare se: presenti aspetti transnazionali i quali non possono essere disciplinati in maniera soddisfacente mediante l’azione degli Stati membri; le azioni dei soli Stati membri o la mancanza di un’azione comunitaria siano in conflitto con le prescrizioni del Trattato (con riguardo alla necessità di tutelare la concorrenza, o di rafforzare la coesione economica e sociale); l’azione a livello comunitario produca evidenti vantaggi rispetto a quella dei singoli Stati membri.
Il Protocollo contiene anche un’affermazione apparentemente lapalissiana, ma che la frequenza con cui nel nostro Paese vengono emanate le leggi dimostra quanto sia sacrosanta: la Comunità legifera soltanto per quanto necessario.
Dal Protocollo traspaiono due tendenze, entrambe vogliono rendere più efficace l’azione della Comunità europea, ma con un metodo diverso: da una parte si intende espandere l’area delle competenze comunitarie, dall’altra si cerca di contrastare la cosiddetta “eurocrazia”, accusata di invadere le competenze degli Stati membri. Per cercare di risolvere questa contrapposizione non si è messo mano alla modifica delle competenze della Comunità o degli Stati membri, cercando di individuare nuovi settori, ovvero di ritagliare aree di competenza da quelli tradizionali, bensì si è preferito chiarire quando un’azione deve essere svolta a livello comunitario e quando, invece, deve essere lasciata agli Stati membri.La soluzione, tuttavia, presta il fianco a interpretazioni discordanti; da un lato le misure comunitarie dovrebbero lasciare il maggior spazio possibile alle decisioni nazionali, purché, d’altro canto, sia garantito il raggiungimento degli obiettivi prefissati.


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