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TRADIZIONE
tratto dal n. 05 - 1998

Se Adamo non avesse peccato, la proprietà privata sarebbe un furto


Per i Padri della Chiesa l’appropriazione e il possesso dei beni non è un diritto di una natura umana pura, di fatto inesistente, ma un rimedio adeguato allo stato concreto della natura umana decaduta per il peccato originale. Un insegnamento censurato


di Gianni Valente


C’è una nuova moda che tiene occupati intellettuali clericali, manager da sagrestia, affermati uomini d’affari con scrupoli religiosi. È la corsa a lubrificare con l’acqua santa dell’etica cristiana gli ingranaggi del mercato globale, a legittimare con la dottrina sociale cattolica il trionfante assetto di potere economico-politico che sta unificando il mondo.
Il postulato di partenza di quanti fremono perché venga consumato il matrimonio tra cristianesimo e spirito del capitalismo è la scelta di campo che la Chiesa cattolica avrebbe compiuto nel corso dell’ultimo ventennio. Lo ha ripetuto di recente anche il settimanale liberal, ricordando in un articolo dedicato al cardinale Roger Etchegaray il periodo di difficile transizione in cui la Chiesa cattolica, «dopo avere tenuto per lustri le distanze dai due sistemi economici che si confrontavano dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale (il capitalismo e il socialismo) si preparava a fare, con l’enciclica Centesimus annus del 1991, una scelta di campo a favore del mercato».
A quei tempi, i primi ad aprire la pista furono i teologi neoconservatori americani – i più noti erano George Weigel, John Richard Neuhaus, Michael Novak – che già negli anni Ottanta, con la loro teologia del capitalismo, facevano l’apologia del libero mercato come «corollario economico della comprensione cristiana della natura e del destino dell’uomo». Per loro il capitalismo democratico era il sistema «più vicino ai Vangeli realizzato dalla razza umana». Oggi le loro teorie, depurate degli accenti più estremistici, vengono rilanciate da frotte di cattolici infatuati dall’egemone ideologia liberista.
Negli argomenti dei tanti arruolati del neoliberismo cattolico fanno capolino diverse formule tradizionali della dottrina sociale della Chiesa, come il principio di sussidiarietà. Ma nei loro ragionamenti c’è anche un grande assente, si censura un dato che la dottrina cristiana ha sempre riconosciuto come essenziale per comprendere ogni azione umana e anche le diverse forme di ordinamento economico e sociale.
Quando i cattoliberisti esaltano le doti miracolose dell’economia di mercato e dell’impresa privata, quando, condannando ogni intervento statale, sostengono che in economia, a parte qualche piccolo correttivo “etico”, bisogna «lasciar fare alla natura», dimenticano di aggiungere che – come riconosce tutta la Tradizione e come emerge dall’esperienza umana di ognuno – questa natura è ferita nelle sue proprie forze naturali. Decaduta. In termini dogmatici si chiama peccato originale.
Non è stato sempre così, anzi. All’inizio, nei Padri della Chiesa, la realtà del dogma del peccato originale era addirittura il criterio essenziale per giudicare gli ordinamenti mondani. Comprese le diverse forme di organizzazione economica.

«Usurpatio ius fecit privatum»

Il liberalsocialista Francesco Saverio Nitti, citando in maniera forzata Tertulliano («Tutto è comune tranne le donne») e san Giacomo («Noi portiamo ciò che possediamo e dividiamo tutto coi poveri») sosteneva che «quasi tutti i Padri considerano il comunismo come la forma più perfetta e più cristiana di organizzazione sociale». Pura propaganda, ché anzi la condanna assoluta della proprietà privata e il comunismo esaltato come unico sistema compatibile col Vangelo erano un tratto distintivo degli eretici. È invece facilmente documentabile che i Padri della Chiesa giustificavano e legittimavano la proprietà privata, radice dell’economia capitalistica, solo in relazione al peccato originale, come realistica concessione conveniente allo stato di natura decaduta che segna la presente condizione umana.
Sant’Ambrogio, il grande vescovo di Milano, difensore dei poveri, contesta nel De officiis la tesi dei moralisti pagani secondo cui l’appropriazione privata dei beni è inscritta ab origine nella natura umana. Solo la ferita del peccato originale ha aperto nel cuore umano la brama di possesso. Così che l’usurpazione privata dei beni destinati a tutti è una delle conseguenze del peccato originale. Spiega Ambrogio: «Loro [Cicerone e i moralisti pagani] fanno consistere la giustizia nell’usare ciascuno, come beni comuni, quei beni che sono comuni, e come beni propri i beni privati. Ma nemmeno questo è secondo natura. La natura infatti profuse a tutti i suoi doni. Perché Dio comandò che tutto si producesse a comune beneficio di tutti e che la terra fosse in certo qual modo comune possesso di tutti. La natura ha dunque generato il diritto comune, l’usurpazione ha generato il diritto privato [Natura igitur ius commune generavit, usurpatio ius fecit privatum]» (De officiis 1, 28, 132). In un altro passo dell’Expositio in Psalmos, Ambrogio ripete che la spartizione delle proprietà dei singoli non è stata compiuta dalla natura per volere di Dio, ma si è prodotta in base a fatti contingenti, per soddisfare l’avidità di possesso che segna lo stato di natura decaduta dopo il peccato originale: «Il Signore Dio nostro ha voluto che la terra fosse comune possesso di tutti gli uomini e che i frutti di essa si somministrassero a tutti, ma l’avidità del possesso ne ha distribuito i diritti [avaritia possessionum iura distribuit]». Autori come il Dignant documentano nei loro studi come l’avaritia ambrosiana indichi precisamente il peccato originale. Da questa aviditas è cominciata la divisione e l’accaparramento dei beni per reciproca invidia. Ma davanti alle conseguenze storiche della colpa di Adamo, Ambrogio e gli altri Padri non propongono utopici sistemi che pretendano di ristabilire le condizioni dello stato d’innocenza. Al contrario, tengono realisticamente conto dello stato attuale in cui versa l’umanità, dove ognuno deve guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Ambrogio e con lui tutti i Padri riconoscono che, nella condizione in cui il peccato ha posto ogni uomo, il regime di proprietà privata si rivela come uno strumento utile per ordinare le passioni nella vita sociale. Come scrive Jean-Remy Palanque nel suo studio Saint Ambroise et l’empire romain, «Ambrogio e i Padri non predicano la sovversione dell’ordine stabilito, la divisione delle terre, il saccheggio delle ricchezze; ma, in mezzo alla società corrotta dal peccato originale, proclamano forte il principio della realtà primitiva, voluta da Dio, al fine di riabbassare l’orgoglio e la cupidigia dei ricchi». Difendere i poveri, tesoro della Chiesa, dalla rapacità dei ricchi, è ciò che interessa ad Ambrogio. Il santo vescovo di Milano non discute la legittimità della proprietà privata, ma contrasta l’idea che il ricco sia ricco per natura, e che possa rapinare impunemente con la violenza i miseri averi di chi ha solo il necessario per vivere. Colpendo nei suoi scritti e nelle sue omelie la rapacità dei ricchi, Ambrogio diventa non l’avversario del diritto di proprietà, ma il difensore dei fragili beni dei poveri. Come è contro natura il collettivismo forzoso, che non rispetta la natura decaduta dell’uomo, così è contro natura un sistema dove l’abbondanza di alcuni avviene a prezzo della fame degli altri.
Anche sant’Agostino, seguendo il venerato Ambrogio, applica al diritto di proprietà il criterio che dà forma a tutta la sua teologia politica, espressa nel De civitate Dei. Agostino parte proprio dalla percezione dello scarto esistente tra la legge naturale e la condizione storica dell’uomo, segnata dal peccato. Per lui l’intero ordinamento civile e sociale è necessario per mantenere la convivenza pacifica, contenere lo scatenarsi degli egoismi individuali nello stato di natura decaduta. Anche l’appropriazione individuale dei beni rientra in questa concezione utilitaristica. Il diritto di proprietà non discende dal diritto divino, ma dal diritto umano. È una creazione umana resasi necessaria nella condizione corrotta dal peccato di Adamo. «La terra» scrive il santo vescovo d’Ippona nel Tractatus in Evangelium Iohannis «è del Signore con tutto ciò che contiene. È secondo il diritto umano che un uomo dice: questa villa, questa casa, questo servitore è mio. E perché? Perché Dio distribuisce i diritti umani al genere umano attraverso gli imperatori e i re».

«Ad rixas et negligentias vitandas»

Seguendo Ambrogio e Agostino, anche san Tommaso nel descrivere fini e uso dei beni materiali parte dalla distinzione tra stato di natura integra e stato di natura decaduta. Dopo aver definito l’appropriazione collettiva dei beni come il regime ideale che sarebbe convenuto all’umanità innocente, se non ci fosse stato il peccato (Summa Theologica I, q. 98, a. 1), Tommaso riconosce che da quando il peccato originale ha introdotto nella condizione umana l’orgoglio, l’egoismo, l’avarizia, la violenza, l’unica soluzione realistica è quella della proprietà privata. I suoi argomenti non fanno riferimento ai diritti della persona, come avviene nel moderno personalismo cattolico, ma esclusivamente a esigenze di ordine sociale: l’appropriazione individuale può facilitare il raggiungimento dello scopo, che è la destinazione dei beni materiali a tutti gli uomini, garantendo allo stesso tempo la pace sociale. «È lecito che l’uomo possieda cose proprie, ed è anche necessario alla vita umana, per tre motivi: primo, perché ognuno è più sollecito ad aver cura di ciò che compete a lui solo, piuttosto che di ciò che è comune a tutti, o a molti; perché ognuno, fuggendo la fatica, lascia all’altro la cura di ciò che appartiene alla comunità [...]. Secondo, poiché le cose umane vengono amministrate più ordinatamente se ai singoli rimane la cura di ciò che devono amministrare: invece ci sarebbe confusione se chiunque dovesse curare ogni cosa senza distinzione. Terzo, poiché in questa forma lo stato dell’uomo si conserva più pacifico, finché ciascuno è soddisfatto nelle sue cose; mentre osserviamo che tra quelli che possiedono qualcosa in comune e senza divisione, frequentemente sorgono diverbi» (Summa Theologica II-II, q. 66, a. 2).
San Tommaso chiarisce anche che l’appropriazione privata dei beni avviene «secondo l’umano accordo, che appartiene al diritto positivo; quindi la proprietà delle cose possedute non è contro il diritto naturale, ma si aggiunge al diritto naturale per una attività della ragione umana» (Summa Theologica II-II, q. 66, a. 2, ad 1). È dunque in virtù di un diritto universale (ius gentium), ma d’invenzione umana, che le cose diventano di proprietà privata. La soluzione della proprietà privata serve ad evitare le discordie e la negligenza causate dall’egoismo umano. Come scriveva il domenicano Antonin Marie Henry nel 1929 in un famoso articolo su proprietà e Tomismo, «il regime di proprietà privata è, per san Tommaso, un ripiego: regime adattato alle tare di un’umanità peccatrice, incline al predominio, poco rispettosa dei diritti di ciascuno e altrettanto poco preoccupata del bene comune».
Tutti i decretalisti e gli scolastici ripetono e approfondiscono la dottrina tradizionale che considera la proprietà privata un espediente resosi necessario nello stato di natura decaduta. Guglielmo d’Auxerre nei primi decenni del secolo XIII, mentre ripete con gli altri che l’appropriazione privata è una concessione fatta alla natura decaduta «ad rixas et negligentias vitandas», introduce alla maniera scolastica un’interessante distinzione, per chiarire che la proprietà privata non contraddice comunque la legge naturale: «Che tutte le cose siano in comune era un precetto nello stato di innocenza e nello stato di natura ben disposta. Ma nello stato di cupidigia della natura corrotta non è un precetto, né deve esserlo. Poiché se lo fosse, si dissolverebbe la repubblica». Ciò che sarebbe stato possibile all’uomo nello stato d’innocenza, non lo è nella sua condizione storica reale. Dal momento che si sperimenta che la natura umana è stata ferita dal peccato, è normale che una formulazione di diritto che tende a realizzare la legge naturale tenga conto di questo offuscamento dei sensi e della ragione.

La dimenticanza della natura concreta dell’uomo

Jean-Marie Aubert, autore dell’articolo sulla voce proprietà per l’enciclopedia Catholicisme, annota: «Bisogna ammettere che questa legittimazione tradizionale della proprietà privata, nel quadro teologico della dottrina del peccato originale, è stata completamente dimenticata dagli autori attuali». Nel 1950, in un articolo pubblicato dalla Nouvelle Revue Théologique, il gesuita belga Léon de Sousberghe provò a indagare le cause e i passaggi di questa amnesia progressiva. Secondo il professore di Lovanio era stato fatale l’allineamento dei teologi e dei moralisti cattolici alle tesi sulla proprietà elaborate da John Locke ad uso della nascente borghesia industriale e commerciale inglese. Il padre fondatore (insieme ad Hobbes e Kant) del pensiero liberale, nel creare il mito moderno dell’uomo che costruisce il suo destino col suo lavoro e la sua iniziativa, fa del diritto di proprietà un corollario inviolabile della nuova ideologia. La proprietà, considerata «frutto del lavoro», viene concepita come realtà «di diritto naturale», senza più alcuna distinzione tra stato di natura integra e stato di natura ferita. Con questi argomenti Locke giustifica tutte le forme di proprietà esistenti in Inghilterra. Soprattutto quelle dei grandi latifondisti suoi amici, «la cui proprietà» nota de Sousberghe ironizzando sulla contraddizione «non è il risultato del lavoro, ma permette al contrario di prelevare dal lavoro altrui». È per questa via che «il diritto di proprietà, proclamato diritto sacro dal legislatore, viene infine definitivamente riconosciuto come diritto naturale dal moralista cristiano». Il gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio nel 1840 scrive il primo manuale in cui la proprietà viene considerata come un prolungamento della persona, e non si fa più alcun riferimento alla stato di natura decaduta in cui tale forma di appropriazione dei beni è diventata necessaria. L’avvento della società industriale, la dottrina marxista e il sorgere del movimento socialista contribuiscono ad accelerare questa silenziosa eclissi del peccato originale dall’orizzonte di tanto pensiero sociale cattolico. Anche encicliche e documenti ufficiali, nell’intento di contrapporsi alle teorie marxiste, tendono a “blindare” il diritto di proprietà. Scrive sempre Aubert alla voce proprietà nell’enciclopedia Catholicisme: «Le impronte dell’antica concezione, ancora presenti in san Tommaso, sono definitivamente abbandonate, per giustificare la dottrina unicamente per il diritto naturale, concepito come un dato metafisico permanente». Accantonando la concezione tradizionale, che con le sue realistiche distinzioni poteva sperimentare una grande ricchezza di applicazione nei diversi e sempre più complessi sistemi economici, il pensiero sociale cattolico si autocondanna secondo Aubert all’astrattezza: «La legittimazione tradizionale della proprietà privata, nel quadro della dottrina del peccato originale, è stata completamente dimenticata dagli autori attuali. Lo meritava completamente, per la sola paura di fare un apparente regalo al collettivismo marxista? [...] E non è forse per questo che il richiamo all’uso comune dei beni resta spesso teorico, vista la difficoltà di concepire attraverso quali strutture dovrebbe essere realizzato?».

La natura ferita nelle sue proprie forze naturali

Una continuità reale con quanto tramandato dalla Tradizione sul criterio essenziale per giudicare le realtà economiche si è comunque conservata anche nel Magistero sociale dei tempi moderni, almeno fino a quando tale Magistero ha mantenuto il suo distacco e la sua neutralità nel rapportarsi ai diversi sistemi economici. Quando Pio XI, nell’enciclica Quadragesimo anno (1931), parlava del «funesto ed esecrando internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è là dove c’è guadagno», e quando, qualche mese dopo, nell’altra enciclica Caritate Christi compulsi (19 maggio 1932) descriveva «quell’ingiusto squilibrio per cui si vedono le ricchezze delle nazioni concentrate nelle mani di alcuni individui che gestiscono a loro capriccio il mercato mondiale», coglieva con realismo ineguagliato il volto dell’odierno regime economico. Intuendo il tratto distintivo dell’attuale assetto di potere mondano, quell’unico potere economico egemone che prevale dietro tutte le apparenti differenze dei regimi politici.
La Tradizione è stata riproposta da Paolo VI nel Credo del popolo di Dio. Dopo aver dichiarato: «È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini», nel medesimo Credo del popolo di Dio può affermare che: «Il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo» e che «la sua vera crescita non può essere confusa con il progresso». Così il dogma del peccato originale può almeno impedire di usare il Magistero per occultare il nuovo prezzo di vittime e sofferenze provocate dal trionfo mondiale del libero mercato.


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