Home > Archivio > 05 - 1998 > L’ecumenismo delle opere
APPROFONDIMENTI
tratto dal n. 05 - 1998

L’ecumenismo delle opere


Riassumendo in una sola e concisa espressione un concetto ampiamente illustrato dal Concilio ecumenico Vaticano II nel Decreto sull’ecumenismo, Giovanni Paolo II, nell’enciclica sul valore e l’inviolabilità della vita umana, parla di «ecumenismo delle opere»


del cardinale Fiorenzo Angelini


Riassumendo in una sola e concisa espressione un concetto ampiamente illustrato dal Concilio ecumenico Vaticano II nel Decreto sull’ecumenismo, cioè sul ristabilimento dell’unità da promuoversi fra tutti i cristiani, Giovanni Paolo II, nell’enciclica sul valore e l’inviolabilità della vita umana, parla di «ecumenismo delle opere» (Evangelium vitae 91, 25 marzo 1995).
La cooperazione sul piano operativo di quanti professano la fede in Cristo può essere quanto mai estesa: essa, infatti, offre un ventaglio illimitato, che il Concilio Vaticano II indicò nella difesa della vita e della dignità della persona umana, nella promozione del bene, della pace, nell’applicazione sociale del Vangelo, nel far progredire con spirito cristiano le scienze e le arti, come pure nell’usare rimedi d’ogni genere per venire incontro alle miserie del nostro tempo, quali sono la fame e le calamità, l’analfabetismo e l’indigenza, la mancanza di abitazioni e la non equa distribuzione dei beni. In chiusura di questo elenco, il Decreto conciliare sull’ecumenismo precisa che da questa cooperazione i credenti in Cristo possono facilmente imparare come gli uni siano in grado di meglio conoscere e maggiormente stimare gli altri, e come si appiani la via verso l’unità dei cristiani (Decreto sull’ecumenismo, 12).
Non si tratta di uno spostamento di ottica in campo ecumenico, quasi che i problemi dottrinali che furono all’origine della divisione tra fratelli separati di Oriente e di Occidente – e che tuttora permangono, nonostante siano in atto da oltre un secolo generosi, sinceri e intelligenti sforzi per superarli – abbiano a passare in secondo piano. Al contrario, il riferimento all’ecumenismo delle opere va al cuore del problema dottrinale, come afferma lo stesso Concilio Vaticano II in un testo sull’ecumenismo, che il teologo protestante Oscar Cullmann, osservatore al Concilio, considerò il più rivoluzionario tra quelli approvati dall’assemblea ecumenica. Il passo in questione dice che quanti sono impegnati nel mettere a confronto le dottrine, «devono ricordare che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana» (Decreto sull’ecumenismo 11c). Ma qual è il fondamento della fede cristiana? Non è forse quello che l’evangelista Giovanni enuncia nella sua prima lettera scrivendo: «Dio è amore: e chi sta nell’amore sta in Dio, e Dio sta in lui» (1 Gv 4, 16), e che san Paolo spiega come il dovere di rendere credibile la nostra fede attraverso la carità (Gal 5, 6)? Non ha forse detto Cristo: «Da questo riconosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri» (Gv 13, 35)? Il che equivale a dire che senza un amore reciproco reso visibile attraverso le opere e i fatti non potremo essere riconosciuti come discepoli di Cristo. Nell’ecumenismo delle opere, verità e carità si saldano, essendo la carità la prima verità da professare.
Non è mancato chi, in campo ecumenico, ha persino suggerito una moratoria nel dibattito dottrinale, appellandosi, ad esempio, alla necessità per i cristiani delle diverse confessioni di unirsi insieme per pregare, così che la legge del pregare diventi guida alla legge del credere; oppure che, considerata l’urgenza di una comune e più credibile testimonianza cristiana in un mondo lacerato da divisioni, si operi insieme dove è urgente, possibile e necessario operare insieme, lasciando a tempi più lunghi e maturi quanto attiene all’incontro e alla convergenza in materia dottrinale.
Un dato è acquisito e sembra insinuato dal paradosso circolato negli stessi ambienti ecumenici, secondo il quale, nella situazione attuale del mondo, l’unità operativa nonostante le divergenze dottrinali sarebbe preferibile alla divisione nella stessa verità, in quanto lo stare insieme, l’operare insieme sarebbe già premessa per arrivare a quella carità/verità che, nel patrimonio dottrinale cristiano, è fondamento e nesso della fede.

In quest’ultimo scorcio di millennio, «l’unità dei cristiani» come ha ribadito Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente (del 10 novembre 1994) «è un problema cruciale per la testimonianza evangelica nel mondo, come lo furono nella Chiesa nascente quelle germinali divisioni conseguenti la pretesa di alcuni cristiani di vantare, quasi in contrapposizione, la paternità del convertito Paolo di Tarso o del dotto Apollo di Alessandria». «Ma chi è Apollo?» ribadisce preoccupato san Paolo. «Chi è Paolo? Sono dei ministri per mezzo dei quali avete creduto, e ciascuno secondo la misura che gli ha dato il Signore. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma Dio ha fatto crescere. Quindi né colui che pianta è qualche cosa, né colui che irriga, ma solo Dio che fa crescere». E aggiunge: «Colui che pianta e colui che irriga sono una cosa sola» (1 Cor 3, 5-8).
E come valutare i danni provocati da secoli di divisione che hanno moltiplicato i motivi per non capirsi, hanno consolidato linguaggi diversi e persino contrapposti, al punto che tra molti fedeli cristiani non poche ragioni della divisione con i fratelli separati sono addirittura incomprensibili?
Ad attenuare, tuttavia, lo sgomento per lo scandalo della divisione dei cristiani, sono in atto – come riconosce il Papa – «le molte iniziative ecumeniche intraprese con generosità ed impegno» (Tertio millennio adveniente 34); iniziative che «si presentano come spazio provvidenziale per il dialogo e la collaborazione», anche «con i seguaci di altre religioni e con tutti gli uomini di buona volontà» (Evangelium vitae 91).
Senza perciò misconoscere l’importanza dell’incontro in materia dottrinale, né soprassedere alle iniziative che cercano di affrettarlo, nessuna propedeutica si conferma più efficace dell’ecumenismo delle opere, in tutte le sue molteplici espressioni, tra le quali – come l’esperienza mi ha portato a toccare con mano – si distingue e primeggia il servizio alla vita, alla sua inviolabilità e sacralità e alla dignità della persona umana. Non è certamente questo l’unico ambito che rende possibile una tempestiva, forte ed esemplare collaborazione tra quanti portano il nome di cristiano, ma si tratta indubbiamente di un settore che offre inesauribili possibilità di convergenza operativa.

Valenza ecumenica del servizio alla vita
Nell’enciclica sull’ecumenismo Ut unum sint (del 25 maggio 1995), Giovanni Paolo II, con riferimento soprattutto a coloro che operano tra i deboli, i sofferenti e i malati, parla di un «martirologio comune a tutti i cristiani», siano essi cattolici, ortodossi o protestanti, non tanto richiamandosi ai martiri del periodo anteriore alla divisione, ma parlando espressamente del nostro tempo; allude, infatti, «ai martiri del nostro secolo, più numerosi di quanto non si pensi». Un martirologio comune, dice il Papa, che «mostra come, a un livello profondo, Dio mantenga tra i battezzati la comunione nell’esigenza suprema della fede, manifestata con il sacrificio della vita» (Ut unum sint 84).
La fede comune, quindi, che spinge a dare anche la vita, si traduce in operato comune soprattutto nel servizio alla vita. Infatti: «La sfida che ci sta di fronte, alla vigilia del terzo millennio, è ardua: solo la concorde cooperazione di quanti credono nel valore della vita potrà evitare una sconfitta della civiltà dalle conseguenze imprevedibili» (Evangelium vitae 91).
Ecumenismo delle opere, allora, altro non è che compiere insieme ai nostri fratelli separati – e, in prospettiva, anche insieme a coloro che professano altre fedi religiose – ciò che insieme si può compiere, senza pregiudizio della propria fedeltà alla confessione religiosa professata.
Credo sia più che motivato e legittimo chiedersi: c’è forse un settore, un ambiente, uno spazio in cui questa collaborazione sia più naturale, anzi più doverosa, di quella attuabile nel campo del servizio alla vita? Perché non partire da questo campo?
Potrei addurre un esempio emblematico: in Africa, anche se i cattolici costituiscono soltanto il 14 per cento della popolazione, le istituzioni cattoliche nell’ambito della sanità e, quindi, del servizio alla vita, rappresentano il 17 per cento dell’insieme delle strutture sanitarie di tutto il continente.
Questo dato, emerso nel corso del Sinodo dei vescovi per l’Africa celebrato nel 1994, fu indicato da Giovanni Paolo II come conferma dell’impulso ecumenico che caratterizza l’azione missionaria nel continente africano (esortazione apostolica Ecclesia in Africa 38, del 4 settembre 1995).
Da tempo il Papa va ripetendo che il grado di civiltà di un popolo si commisura alla sua attenzione e sollecitudine per coloro che soffrono. Sanità, salute e malattia – fedele specchio del valore assoluto della vita – non costituiscono soltanto il più universale dei problemi, ma sono l’elemento che più di ogni altro, e in maniera preponderante, può unire i popoli nella ricerca di una soluzione ai più gravi problemi umani e sociali. In realtà, l’ecumenismo delle opere è oggi auspicato da tutti, indipendentemente dalle diversità ideologiche, culturali, politiche, di costume e religiose.
Negli anni in cui fui alla guida del Dicastero pontificio della Pastorale per gli operatori sanitari (1985-1996), cercai di non tralasciare alcuna iniziativa che, nel e per il servizio alla vita, potesse coinvolgere tutte le persone di buona volontà.
Fui a Cuba tre volte in un anno (1988-1989), quando nell’isola caraibica le difficoltà per la Chiesa erano assai maggiori di oggi. Quale rappresentante della Santa Sede fui al Summit di Londra del 1987, dove i rappresentanti di 47 governi affrontavano il problema dell’Aids. Nella medesima veste partecipai più volte agli incontri di massimi rappresentanti dei Paesi del Gruppo Contadora, allorché alcuni di essi erano in guerra tra loro. Mi recai per ben tre volte nella Repubblica popolare cinese prima dei fatti di piazza Tienanmen; una volta mi intrattenni per ventitré giorni, visitando numerose istituzioni sanitarie, mentre in altra circostanza intervenni con una mia relazione a un congresso scientifico di medicina e partecipai all’inaugurazione di strutture sanitarie sorte con la partecipazione del governo italiano. Fui più volte nell’Unione Sovietica diversi anni prima del crollo del suo impero. Sono stato in Croazia quando la guerra infuriava. Ho visitato, per motivi pastorali, diversi Paesi africani.
Il motivo di fondo di questo impegno era sempre il medesimo: ricordare l’attenzione e l’impegno della Chiesa nella promozione e nella difesa della vita e ribadire che da una reciproca collaborazione in questo campo potevano scaturire sicure premesse di pace e di progresso per tutti i popoli.
Per essere accolti nelle più svariate sedi che ricordavo non occorreva alcun visto ideologico, perché salute e malattia non hanno estrazione ideologica, politica, culturale, religiosa che si scontri con qualcosa o con qualcuno. «Il Vangelo della vita non è esclusivamente per i credenti, è per tutti. La questione della vita e della sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani... Nella vita c’è sicuramente un valore sacro e religioso, ma in nessun modo esso interpella i soli credenti: si tratta, infatti, di un valore che ogni essere umano può cogliere anche alla luce della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti» (Evangelium vitae 101).
Il servire chi soffre non sporca le mani e non può – e andrebbe scritto a lettere cubitali –, non può, ripeto, insinuare il sospetto di secondi fini. Anche perché, nel mio impegno volutamente ecumenico ho sempre cercato di parlare all’uomo dotato di intelligenza e di libertà, impegnato nel servizio a tutti, nel convincimento che la fede cristiana non è motivo o criterio di discriminazione, ma premessa e via per l’incontro tra tutti gli uomini. Soprattutto nel campo della sanità e della salute, non c’è nulla che compiuto da soli non possa essere meglio compiuto insieme. Peraltro, delle opere di giustizia, il servizio alla vita e a chi soffre è la prima, perché è la più necessaria e urgente, e conta il maggior numero di destinatari.
Le circa trentamila istituzioni sanitarie cattoliche operanti nel mondo, delle quali per la prima volta nella storia fu condotto il censimento da parte del Dicastero che avevo l’onore di presiedere, hanno porte spalancate a tutti e ignorano qualsivoglia barriera, salvo quella che volesse coinvolgerle in attentati o aggressioni alla vita.
Sin dall’istituzione del Dicastero per la Pastorale degli operatori sanitari ho promosso una conferenza internazionale annuale dedicata ai problemi centrali del servizio alla vita: dai farmaci all’umanizzazione della medicina, dai problemi della longevità della vita a quelli attinenti alla mente umana, dalla droga all’alcolismo e all’Aids, dalla difesa della vita nascente e del bambino al sostegno ai portatori di handicap, dai malati di mente alla medicina dei trapianti. Fu sempre preoccupazione mia e dei miei collaboratori invitare a tenere lezioni a queste conferenze i massimi rappresentanti della scienza, legati non solo alle diverse confessioni cristiane, ma anche ad altre religioni. Mai convergenza nell’impegno del servire la vita parve più spontanea e quasi scontata.
L’ecumenismo delle opere, quindi, può trovare nel servizio alla vita un suo punto di partenza solido e sicuro.
Certamente sono molti altri i settori di stretta collaborazione che possono favorire l’ecumenismo delle opere, soprattutto tra i fratelli separati delle tre confessioni cristiane, come peraltro ricordava il testo ecumenico del Concilio Vaticano II. E non è questa la sede per elencare le tante iniziative in atto, dalla Bibbia ecumenica agli incontri comuni di preghiera, dei quali l’altissimo esempio è stato dato da Giovanni Paolo II con la preghiera comune ad Assisi; dalla partecipazione a progetti solidali nel campo dell’educazione di base alla scolarizzazione, alla formazione, alla cooperazione allo sviluppo ecc.
Il servizio alla vita, tuttavia, ha una prerogativa che può considerarsi unica: quella di poter coinvolgere il massimo numero di persone sia come “ministri della vita” sia come destinatari del “servizio alla vita”. Questa singolare caratteristica, che affonda le sue radici nella domanda universale di servizio alla vita, conosce nel nostro tempo possibilità straordinarie dovute al progresso della scienza, della tecnica e allo sviluppo vorticoso delle comunicazioni.
In questo campo, l’ecumenismo delle opere può avvalersi di strumenti nuovi, innumerevoli e incredibilmente efficaci.
Per i cristiani delle diverse confessioni, l’ecumenismo delle opere, oltre che un dovere, è l’occasione nuova per dare credibilità alla loro testimonianza E qui trovo particolarmente attuale una annotazione. L’ecumenismo delle opere ha trovato e trova in Giovanni Paolo II una personificazione esemplare.
Alla vigilia di un suo incontro con il presidente del più potente Stato del mondo, Giovanni Paolo II, particolarmente provato dalla sofferenza, anche fisica, disse che a Bill Clinton avrebbe offerto, quale strumento di cooperazione alla pace nel mondo, la sua sofferenza accompagnata dalla preghiera.
Sofferenza e preghiera, partecipazione vissuta al dolore e sua trascendente valorizzazione, sono insieme espressione e altissima sintesi del solo e più efficace ecumenismo delle opere. Quando, nel settembre del 1994, fallì il primo e tenace sforzo del Santo Padre di poter visitare Sarajevo lacerata dalla guerra, il coro dei mass media parlò di una sconfitta del Pontefice. In realtà, il Papa, che aveva accettato di perdere, non perdette allora la sua battaglia per la pace. La sua sfida non era una sfida tra potenti; il Vicario di Cristo voleva l’incontro delle vittime cattoliche, ortodosse, musulmane della Bosnia insanguinata dalla prepotenza di pochi. Quel primo viaggio mancato rese più forte, più gridata e straordinariamente credibile la sua preghiera per la pace. E nella Tertio millennio adveniente ritorna su questa sua visione dell’ecumenismo, quando afferma: «Bisogna proseguire nel dialogo dottrinale, ma soprattutto impegnarsi di più nella preghiera ecumenica... coinvolgendo sempre più i cristiani, in sintonia con la grande invocazione di Cristo, prima della Passione: “Padre... siano anch’essi una cosa sola” (Gv 17, 21 )».
Ci si stupisce o si vuole dare un’interpretazione riduttiva dell’insistenza con cui Giovanni Paolo II invita i cristiani a chiedere perdono delle loro colpe passate e presenti: e tra quelle presenti, egli indica gli ostacoli frapposti al ritorno dell’unità dei cristiani.
In realtà, egli vuole ricordare a tutti che la divisione tra i cristiani fu conseguenza del prevalere dell’orgoglio sull’umile obbedienza a Cristo, di valutazioni materiali sulla supremazia dello Spirito, dello scontro di forze sul dovere dell’incontro nell’amore.
Dialogo dottrinale, trattative sui mille aspetti pratici e organizzativi hanno un loro valore, a condizione però che la volontà di ritrovarsi uniti, l’insistente preghiera per il raggiungimento di questo traguardo, la consapevolezza di doversi lasciare guidare dallo Spirito siano preminenti e indirizzate a ispirare ogni altra iniziativa.
L’ecumenismo delle opere è anche premessa al grande incontro interreligioso che, allo scadere del secondo millennio, il Papa ha ravvisato negli auspicabili e storici incontri a Betlemme, a Gerusalemme e sul Sinai, luoghi significativi per le grandi religioni monoteiste.
L’ecumenismo delle opere è unità raggiunta nei fatti, che è in nostro potere preparare e attuare.


Español English Français Deutsch Português