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VATICANO
tratto dal n. 04 - 1998

NEOLIBERISMO. Perché il Magistero lo critica seguendo la Sacra Scrittura e la Tradizione

La novità è la Tradizione


Intervista con il cardinale Roger Etchegaray, presidente di Iustitia et Pax, sul dibattito che si è aperto dopo la pubblicazione da parte del suo dicastero del documento Per una migliore distribuzione della terra. La sfida della riforma agraria


Intervista con il cardinale Roger Etchegaray di Gianni Valente


Sono passati tre mesi dalla pubblicazione del documento Per una migliore distribuzione della terra. La sfida della riforma agraria prodotto dopo tre anni di lavoro dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Dalla sede di piazza San Calisto a Roma, gli officiali vaticani adesso seguono con interesse e con qualche apprensione il modo in cui l’atto di denuncia romano contro il latifondismo viene ripreso e rilanciato nelle situazioni delicate e conflittuali che in altre parti del mondo sorgono riguardo al possesso della terra. Il cardinale Roger Etchegaray, presidente del dicastero vaticano, nell’intervista che segue ripropone i criteri che hanno guidato la stesura del documento, e le realtà sociali concrete a cui si rivolge. Il settimanale Liberal ha dedicato al porporato basco di terra francese un recente articolo-ritratto in cui lo definisce «l’uomo che la Chiesa di Roma ha scelto per seguire e condurre i flussi della globalizzazione». Ma nelle risposte che seguono il “cardinale globale” si sottrae alle avances di chi gli attribuisce nuove complicate strategie per giudicare e affrontare le ingiustizie che sorgono nel tempo del mercato senza confini. Lo dimostra – dice il cardinale – proprio il documento sulla nuova questione agraria, che si limita a riproporre, sul problema della distribuzione della terra, l’insegnamento tradizionale della Chiesa.

Perché un dicastero vaticano interviene sulla riforma agraria?
ROGER ETCHEGARAY: Non è la prima volta che la Chiesa interviene per chiedere un’equa distribuzione della terra attraverso efficaci riforme agrarie. Nel 1961, con la Mater et magistra, più volte citata nel documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, papa Giovanni XXIII si sofferma con una serie di argomentate riflessioni su questa specifica questione. Anche il Concilio Vaticano II, nella costituzione pastorale Gaudium et spes, si sofferma brevemente ma puntualmente sul tema della distribuzione della terra. Con il documento Per una migliore distribuzione della terra, si è inteso riprendere quel filone di riflessione tipico della dottrina sociale aggiornandolo alle mutate situazioni ed esigenze del nostro tempo, secondo un paradigma classico di elaborazione della dottrina sociale, quello di fedeltà ai principi e, nello stesso tempo, dell’aggiornamento alle res novae del tempo storico.
Evidentemente, la Chiesa interviene su questa questione che, a prima vista, sembra riguardare unicamente il politico o l’economista, con la sua specifica competenza che è quella religiosa ed etica. Quando negli assetti economici o politici c’è di mezzo il rispetto della trascendente dignità di ogni uomo, soprattutto del povero, la Chiesa avverte subito il dovere di intervenire per compiere il suo ministero di illuminare con il Vangelo le situazioni e per orientarle al bene. Si tenga presente che nel far questo, la Chiesa non compie un qualche cosa di secondario e accessorio alla sua missione evangelizzatrice, ma qualcosa di essenziale e fondamentale, perché la salvezza cristiana che essa annuncia ha una intrinseca dimensione storica.
Quali situazioni particolari e avvenimenti recenti vi hanno spinto a preparare un documento su questo tema specifico?
ETCHEGARAY: Nel documento si dà riscontro, soprattutto, di una serie di richieste che sono pervenute da molti episcopati, in prevalenza dei Paesi in via di sviluppo, che hanno sollecitato a più riprese il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ad affrontare in maniera organica una questione che interessa milioni di poveri nel mondo. Il documento intende, inoltre, porsi come strumento autorevole per sostenere la sofferta testimonianza di molte Chiese locali che operano quotidianamente per promuovere la giustizia sociale e che, in molti casi, hanno visto sacrificati dei loro figli e figlie.
Per ultimo, bisogna ricordare l’esigenza di offrire delle indicazioni “fortemente impegnative” in vista del Grande Giubileo del duemila. La distribuzione della terra è tema che soddisfa, con immediata percezione, l’esigenza di prepararsi a vivere autenticamente il prossimo Giubileo.
Quali reazioni positive avete raccolto, dopo la pubblicazione del documento? E quali critiche?
ETCHEGARAY: Moltissime le reazioni positive. Anche qualche critica, tra cui quella di 30Giorni, che valuta il documento come espressione di quella «cultura moderata egemone nella Chiesa» che condiziona da un ventennio i pronunciamenti ecclesiastici. Ritengo che sia più prudente aspettare ancora un po’ di tempo a formulare il conto delle reazioni perché il valore del documento in questione si misura soprattutto nella sua capacità di interpellare sui tempi lunghi la vita concreta della Chiesa.
C’è stato qualche governo o qualche istituzione economica internazionale che prima o dopo la pubblicazione ha manifestato il suo dissenso rispetto ai giudizi contenuti nel documento?
ETCHEGARAY: L’interesse dei governi, soprattutto dei Paesi in via di sviluppo, continua a essere significativo a riprova che il documento solleva e rilancia un problema di vivissima e bruciante attualità. Finora non mi è capitato di dover registrare alcun caso di dissenso.
La seconda sezione del documento espone i criteri del giudizio sulla proprietà della terra. Quali sono, e quali novità contengono?
ETCHEGARAY: La seconda parte del documento non fa altro che riproporre, nel contesto tematico della questione connessa alla distribuzione della terra, l’insegnamento tradizionale della Chiesa, soprattutto quello che si articola nel rapporto tra il principio della destinazione universale dei beni e l’affermazione del diritto alla proprietà privata, vista non come un fine, ma come uno strumento per la realizzazione del principio della destinazione universale. Niente di nuovo, quindi. Il nuovo lo si può trovare nell’aver esplicitato, all’inizio del capitolo, l’ispirazione biblica di questo insegnamento e di averlo opportunamente collegato con la tematica complessa della riforma agraria.
I Padri della Chiesa consideravano l’appropriazione privata dei beni una concessione fatta alla natura ferita, che si doveva tollerare per evitare le risse e la negligenza. Secondo loro la proprietà privata era non un furto, come diranno i marxisti, ma una conseguenza della condizione umana dopo il peccato originale. Lei che ne pensa?
ETCHEGARAY: La dottrina sociale della Chiesa, tra la posizione marxista (la proprietà privata è un furto) e quella liberista (la proprietà privata è un fine), ha riproposto, fin dalla Rerum novarum di Leone XIII, la sua dottrina tradizionale che esprime un grande equilibrio. La proprietà privata, il cui valore è riconosciuto come molto importante (questo contro il marxismo) è uno strumento per l’affermazione della persona e della famiglia. Su di essa grava, però, un’ipoteca sociale dettata dalle esigenze di ETCHEGARAY: Non so quali siano questi teologi ed economisti a cui lei si riferisce. Sulla modalità per fare un discernimento cristiano del capitalismo e del mercato, il testo di riferimento resta il numero 42 della Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Il mercato è un’istituzione economica di fondamentale importanza. Ma risulta inaccettabile per un cristiano la prospettiva tipica di un certo capitalismo di voler far transitare per il mercato tutti i beni e tutti i servizi, di far transitare tutto.
Inoltre, di fronte a tutti i messianismi o trionfalismi terreni, la dottrina cattolica del peccato originale costituisce un forte e salutare antidoto che permette ai cristiani di interpretare e stare nella storia con il disincanto culturale del realismo e con la forza spirituale della speranza.
L’accaparramento della terra e i meccanismi di sfruttamento e oppressione ad esso conseguenti erano già stati denunciati trent’anni fa con le stesse parole dalla Populorum progressio, l’enciclica di Paolo VI che la grande stampa finanziaria occidentale definì «marxismo riscaldato». Come sono cambiate le cose da allora?
ETCHEGARAY: Già Giovanni XXIII, con la Mater et magistra, aveva denunciato la piaga del latifondo e offerto un significativo contributo di orientamenti per l’avvio di riforme agrarie. Purtroppo, dobbiamo constatare con amarezza che molti tentativi di riforma agraria messi in atto dai governi non hanno risolto il problema del latifondo. Anzi, il documento del Pontificio Consiglio constata che l’accaparramento e la concentrazione della terra sono fenomeni diffusi e in crescita.
Questa situazione che determina uno stato di inefficienza complessiva dei sistemi economici, soprattutto dei Paesi in via di sviluppo, con conseguenze drammatiche sulle fasce più deboli della società, interpella fortemente la Chiesa a intervenire per sollecitare l’instaurazione di un sistema economico più giusto ed equo e per l’avvio di riforme che lo rendano più efficiente. Risulta evidente che il documento Per una migliore distribuzione della terra sollecita a dare risposte coerenti sia sul piano etico sia su quello della razionalità economica.
Può spiegare in poche chiare parole cosa sostiene il vostro documento sulle questioni dell’occupazione delle terre e dello sfruttamento collettivo della terra?
ETCHEGARAY: Il documento non affronta in maniera organica il tema dell’occupazione delle terre. Lo richiama soltanto per dire che solo efficaci ed efficienti riforme agrarie costituiscono il motore di uno sviluppo economico serio e duraturo. I movimenti dei contadini che, qualche volta, occupano le terre, sono da prendere molto seriamente per l’esigenza che esprimono e per i problemi che pongono ai loro governi. Il documento su questo punto è molto chiaro, quando afferma che «il ritardare e il rimandare la riforma agraria tolgono ogni credibilità alle loro azioni di denuncia e di repressione dell’occupazione delle terre».
Verso la proprietà comunitaria della terra, tipica soprattutto dei popoli indigeni, il documento esprime un significativo apprezzamento anche se constata un progressivo passaggio da questa forma di proprietà a quella individuale. La proprietà, sia comunitaria che individuale, è un mezzo e uno strumento che deve essere finalizzato alla promozione economica e sociale delle persone e delle famiglie.
Giovanni Paolo I ricordò che «l’oppressione del povero grida vendetta al cospetto di Dio». In Messico, nel Chiapas, la questione agraria è al centro dello scontro tra gli indigeni in rivolta e le oligarchie finora appoggiate dal governo. Come giudica la vicenda del Chiapas, la politica del governo messicano e l’azione di monsignor Ruiz García e della diocesi di San Cristóbal in quella situazione?
ETCHEGARAY: Il documento, in tutte le sue parti, denuncia che l’oppressione del povero grida vendetta al cospetto di Dio. Il documento è espressione eminente dell’opzione preferenziale per i poveri che caratterizza in maniera essenziale la missione evangelizzatrice della Chiesa. Senza entrare nel merito di situazioni particolari, che data la loro complessità richiederebbero riflessioni più articolate e distese, mi preme richiamare le coraggiose e profetiche testimonianze di tantissime Chiese, vescovi, sacerdoti, laici, uomini e donne, organizzazioni cristiane, che quotidianamente sono impegnati sul fronte della lotta alla povertà, della denuncia delle ingiustizie, nella promozione concreta di iniziative coraggiose e lungimiranti che coprono un ventaglio mirabile di bisogni e di necessità: da quelli formativi a quelli del credito, da quelli per la promozione delle donne a quelli per il rafforzamento della coscienza civile e sociale, dalla promozione dei diritti alla presenza operosa a livello di governo, nazionale e internazionale, dell’economia.


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