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INCONTRI
tratto dal n. 04 - 1998

Il dato che abbiamo sotto gli occhi e l’ideologia del più vero


«Il pensiero totalitario liquida così, con il rifiuto di percepirla, la realtà quale è data e l’evento quale si verifica. Forte di una granitica certezza insiste su una realtà “più vera”, che è nascosta dietro le cose percettibili dominandole tutte, e che si avverte soltanto disponendo di un sesto senso»


Intervista con Alain Finkielkraut di Stefano Maria Paci


Omologazione planetaria ed errore di prospettiva dei cattolici, Charles Péguy e Hanna Arendt, gli orrori del secolo che stiamo per lasciarci alle spalle e i rischi di quello che sta per cominciare. Una chiacchierata con Alain Finkielkraut, erede della migliore tradizione filosofica d’oltralpe, intellettuale ebreo che scrive su Libération e Le Monde e i cui libri vengono adottati come testi di studio nelle università francesi, diventa un’avventura. La conversazione prende le mosse da Péguy. Péguy è una grande passione di questo raffinato intellettuale ebreo: «Lo tirerò fuori dal ghetto» ci aveva promesso qualche anno fa Finkielkraut (cfr. 30Giorni, n. 6, giugno 1992), sconcertato dal fatto che colui che aveva scoperto essere «uno dei più grandi pensatori del mondo moderno, senza alcun dubbio della statura di Nietzsche, di Benjamin, di Heidegger» non avesse diritto di cittadinanza nella città intellettuale. Quello che più lo aveva colpito, ci disse, era la riflessione di Péguy sull’avvenimento: «Un avvenimento è qualcosa che irrompe dall’esterno. Un qualcosa di imprevisto. Ed è questo il metodo supremo di conoscenza». «La cosa più straordinaria» aveva continuato Finkielkraut «è che se non si salva l’avvenimento si perde completamente il contatto con la realtà. Se una bestemmia o un sacrilegio è stato commesso dallo spirito moderno, è nella sua arroganza di fronte alla realtà. C’è un carattere improgrammabile del dato, un volto che le cose presentano da sé. Péguy parla di un rispetto assoluto che si deve alla realtà e ai suoi misteri, “il rispetto religioso della realtà sovrana e maestra assoluta, del reale come viene, come ci è dato, dell’avvenimento come ci è dato”. Per l’uomo moderno, invece, la rivelazione – il fatto di darsi, di apparire – non è più il modo secondo il quale accade la verità del reale. E così l’uomo, rifiutando la realtà come si offre ai nostri occhi di carne, non tenta più di formarsi una ragione modellata sull’immagine del mondo, ma di costruire un mondo sull’immagine della ragione. L’esperienza viene abolita: il reale viene padroneggiato e la natura, invece di essere ascoltata, viene forzata a rispondere alle esigenze dell’uomo e a modellarsi al suo volere. All’esperienza che, come dice Péguy, “nasce dal ventre della natura, la terrestre esperienza ancora piena delle scorie e del fango” l’uomo moderno ha sostituito “l’esperienza come dovrebbe essere”. E questa sostituzione è una vera rivoluzione ontologica».

Cosa intende Péguy per avvenimento?
FINKIELKRAUT: Una cosa molto semplice: l’avvenimento è ciò che accade. Tutto qui. Bisogna fare molta attenzione a non dare una definizione “mistica” di avvenimento. Avvenimento è ciò che accade, precisamente nel senso che non lo si può completamente prevedere. È quello che dice Hanna Arendt quando afferma che «noi viviamo nel mondo della pluralità umana». Se non è più l’uomo concreto che abita la terra, l’uomo con un nome e un cognome nato in un preciso punto dello spazio e del tempo, ma l’Umanità nella sua astrazione, vuol dire che noi non abbiamo più i mezzi per incontrare gli avvenimenti. Gli avvenimenti, le cose come avvengono, accadono sempre un po’ per sorpresa. Bisogna accettare questa sorpresa piuttosto che credere che si possa, con il solo esercizio dell’intelligenza, fissare la storia in leggi inesorabili.
Tra i cattolici c’è il rischio di annullare con progetti culturali la sorpresa destata da avvenimenti…
FINKIELKRAUT: Non credo affatto alla possibilità che risorga la cultura cattolica oggi. Certo, c’è un forte bisogno di senso in una società retta dalla tecnica e dalla ragione strumentale. Ma credo che la cultura cattolica non abbia alcuna possibilità, come tale, di affascinare di nuovo i comportamenti. Basta guardare il contrasto addirittura stupefacente tra l’estrema popolarità del Papa e l’estrema marginalità dei suoi discorsi. Non hanno nessunissimo impatto. Basta vedere tutto l’impegno che Giovanni Paolo II pone negli aspetti di morale, che paiono diventati il nucleo della proposta cristiana, e l’indifferenza con cui vengono in realtà accolti. Giovanni Paolo II è popolare non per i suoi discorsi, ma “malgrado” i suoi discorsi. È questa la questione fondamentale che deve porsi oggi il cattolicesimo: vengono organizzate grandi manifestazioni, vengono mobilitate folle, si esibiscono presenze numericamente incredibili, ma nello stesso tempo la Chiesa ha sempre più difficoltà a trasmettere la sua eredità, ciò di cui è depositaria. Il mondo cattolico rischia di rimanere accecato da questa popolarità planetaria concessa a Giovanni Paolo II scambiandola per un consenso alla Chiesa cattolica tout court. Non è così, è un inganno prospettico.
Si può applaudire papa Wojtyla come un grande maestro di etica, ma nessuno tenta di mettere in pratica i suoi insegnamenti…
FINKIELKRAUT: Anche per Emmanuel Levinas l’etica è innanzitutto un avvenimento. Anche lui ha vissuto esperienze dolorose: detenuto in Germania in un kommando per prigionieri israeliti, la sua riflessione filosofica è interamente dominata dal ricordo dell’orrore nazista. Per lui, bisogna che qualcosa avvenga nell’io perché questo cessi di essere una “forza che va” e si desti. Questo colpo di scena è l’incontro con un altro, la rivelazione di un “volto”. È come l’esperienza fatta durante la prima guerra mondiale dall’ufficiale italiano Emilio Lussu e descritta in Un anno sull’altipiano. Lussu si era avventurato fuori dalla trincea per individuare un cannone austriaco che da giorni li bombardava. Quando intravvede la trincea nemica, gli si offre uno spettacolo stranamente familiare. Vede uomini che chiacchierano e prendono il caffè, come stanno facendo i suoi compagni, e un ufficiale austriaco che si accende una sigaretta. «Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Fu un attimo. L’indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo, ero obbligato a pensare. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Tirare così, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale». Lussu è colpito dal fulmine dell’evidenza. Quel volto non è riducibile alla sua apparenza. Voglio farle notare che l’interesse che Lussu prova per l’ufficiale austriaco non deriva da una sua buona intenzione, anzi. La sua coscienza di soldato che rischia la vita per difendere la patria e degli ideali viene turbata da uno sconcertante ultimatum, da una sollecitazione venuta da altrove e sulla quale non ha potestà. Lui non ha preso l’iniziativa del cambiamento che lo colpisce. Quel cambiamento radicale è un avvenimento, cioè qualcosa che gli si para davanti improvviso.
Il secolo che sta per finire ha visto l’orrore nazista e insieme anche l’impero comunista, che, pur avendo combattuto il nazismo, si è macchiato di crimini feroci. A lei, che fa parte di una generazione di filosofi nati nella sinistra, chiedo: come è stato possibile?
FINKIELKRAUT: Vede, anche se appaiono evidenti le differenze tra lo Stato delle SS e il regime sovietico, entrambi hanno un nucleo ontologico comune. Si tratti di guerra di razze o guerra di classi, entrambi, convinti come sono di navigare verso il progresso al di là della differenza dei valori, mostrano la stessa vertiginosa assenza di scrupoli nei confronti del “dato”, che può essere piegato secondo i propri interessi. Tutti e due hanno un’idea della politica fondata sulla stessa concezione paranoica che nulla esista indipendentemente dal conflitto delle volontà. La ragione viene distorta, e non è la bestialità a spingere entrambi al egrave; nascosta dietro le cose percettibili dominandole tutte, e che si avverte soltanto disponendo di un sesto senso». Ed è a questo pensiero, a questo “sesto senso” che si è affrancato da ogni esperienza in nome del suo presunto potere di spiegare tutto, che la Arendt ha dato il nome di ideologia. Per lei l’ideologia non è la menzogna delle apparenze, ma il sospetto gettato su di esse e la sistematica rappresentazione della realtà che abbiamo sotto gli occhi come uno schermo superficiale e ingannatore.
L’uomo concreto è inevitabilmente destinato a dissolversi in questa astrazione?
FINKIELKRAUT: Dal punto di vista personale no, perché la può giudicare e opporvisi. Renan, in quella bibbia del progresso che è L’avenir de la science, diceva: «Che mi importa di quest’uomo che viene a porsi tra l’umanità e me? Che mi importano le insignificanti sillabe del suo nome? Questo stesso nome è una menzogna. L’anonimo è assai più espressivo e più vero. La vera nobiltà non consiste nell’avere un proprio nome, un proprio genio, ma nel far parte della nobile razza dei figli di Dio, nell’essere un soldato perduto nell’immensa armata che avanza alla conquista del perfetto». Ancora una volta un’astrazione. Ma in Stella della redenzione, un’opera scritta su cartoline postali durante la seconda guerra mondiale sul fronte dei Balcani, Franz Rosenzweig si trova davanti all’avvenimento della guerra. E grida di essere un io concreto. «L’uomo urli con tutta la voce che gli resta in gola, urli ancora il suo io in faccia all’implacabile che lo minaccia di un così inconcepibile annientamento. Dopo che la ragione ha tutto assorbito e ha proclamato che essa sola esiste, l’uomo scopre improvvisamente che, sebbene sia stato da lungo tempo digerito dalla filosofia, continua a esistere. “Io che sono soltanto cenere e polvere”, io semplice soggetto privato, un nome e un cognome... io esisto ancora».
Ma ora il tempo dei regimi totalitari sembra destinato a finire. Lei crede che si apra un’era di per sé più umana?
FINKIELKRAUT: No. Naturalmente no. Credo che ci siano nuovi pericoli. La riduzione degli uomini all’Uomo è la tentazione permanente del pensiero. E questa tentazione, che ieri aveva il volto dell’ideologia, oggi trionfa nella “sollecitudine”. La nostra è una generazione “umanitaria”: non crede più nell’umanità in marcia, ora si occupa dell’umanità sofferente. Ma non accetta, proprio come faceva l’ideologia, di esporsi a quello che la Arendt definiva «l’infinitamente improbabile che costituisce la trama stessa del reale». Non ama gli uomini, che sono troppo sconcertanti: ama occuparsi di loro. E se sono liberi, ne ha paura: meglio handicappati, così da sfogare su di essi il proprio istinto materno. Ma chi è per la nostra generazione quest’uomo, questa vittima da salvare «sia essa terremotata dalla terra o dalla società», come dice André Glucksmann? Nessuno di preciso. Non è l’uomo al singolare vivente sulla terra, non è il povero Rosenzweig che trema di spavento e di orrore e grida «io, io, io», ma gli uomini nella loro infinita pluralità. Di nuovo, un’astrazione. E per questa generazione che preferisce i corpi alle cause, dopo l’ubriacatura della Storia nessuna causa sembra più universalizzabile. Finita la guerra fredda è iniziata quella dei campanili, delle identità nazionali. E in nome di cosa si dovrebbe scegliere il campo di un’identità contro quello di un’altra? Ecco da cosa è nata la lunga prostrazione dell’opinione pubblica di fronte all’ultima guerra europea di questo secolo, quella della ex Jugoslavia. Ormai viviamo nei tempi di Internet, di un’unica rete mondiale che rende (e renderà sempre più) l’uomo planetario. E per quest’uomo, la violenza è l’appartenenza. Il Male è la dittatura esercitata dai cognomi sui nomi, il Male è quando lo spirito, invece di involarsi, si spezza e si fa carne, il Male è l’incarnazione. Mi permetta di citarle ancora una volta Hanna Arendt, che diceva che la disposizione affettiva caratteristica dell’uomo moderno è il risentimento. Risentimento «contro tutto ciò che è dato, anche contro la propria esistenza, contro il fatto che egli non è il creatore dell’universo, né di se stesso».
C’è un’alternativa a questo risentimento?
FINKIELKRAUT: Sì, c’è. Ed è la stessa Arendt a indicarla. «Una gratitudine fondamentale per le poche cose elementari che ci sono invariabilmente date» spiega «come la vita stessa, l’esistenza dell’uomo e il mondo». Ancora una volta, dei dati sensibili e sperimentabili. «Intessuti con la carne della realtà», avrebbe detto Péguy.


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