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ELEZIONI DEL 18 APRILE 1948
tratto dal n. 03 - 1998

Altro che spot e sondaggi


Gedda affidò a Vasile il compito di curare l’Ufficio psicologico per lo studio e l’applicazione della propaganda. Una campagna che, per quanto spontanea e improvvisata, fece epoca


di Turi Vasile


A noi superstiti dei Comitati civici il cinquantenario del 18 aprile 1948 porta una definitiva rivincita che ci ripaga in parte dell’amarezza provocata dal cattivo uso della libertà democratica alla cui vittoria avevamo dato un contributo determinante. La recente pubblicazione del Libro nero ci riscatta infatti dall’accusa di anticomunismo viscerale a noi rivolta anche da parecchi politici naturaliter amici. Questi per anni ci hanno considerati parenti poveri di cui vergognarsi – impresentabili.
Le nostre denunce dei crimini e degli stermini perpetrati dai sovietici erano talmente raccapriccianti da apparire incredibili e da noi inventate a bassi fini elettorali. Esse derivavano invece da informazioni di prima mano fornite dalle “Chiese del silenzio” attraverso canali particolari. Quelle denunce furono confermate da Krusciov nel suo rapporto al XX Congresso del Pcus (1956) e la pubblicazione degli scritti di Solzenicyn rivelò orrori ancora più efferati di quelli da noi denunciati.
Fummo così i primi ad addebitare ai sovietici la responsabilità delle fosse di Katyn dove vennero trucidati 4.500 ufficiali polacchi. La versione che attribuiva ai nazisti l’eccidio resistette a lungo; così come le affermazioni di Krusciov e di Solzenicyn non ebbero influenza alcuna sulla crescita elettorale del Partito comunista italiano in grado, per colpevole inerzia altrui, di esercitare egemonia e censura sul mondo della cultura e dei mezzi di comunicazione.
La schiacciante documentazione del Libro nero del comunismo ha risvegliato molte coscienze e ha indotto parecchi a vantarsi di sagaci preveggenze, come al tempo del fascismo coloro che accamparono, postumi, meriti antemarcia. Ma per quanti sforzi facciano – Indro Montanelli, per esempio, afferma di avere aperto gli occhi negli anni Settanta – nessuno può competere con noi in questa graduatoria delle precedenze.
Non è per gloriarcene a nostra volta, ma solo per confermare che la nostra propaganda contro la ferocia sovietica non scaturiva da una partigiana immaginazione, era bensì basata su una terribile realtà ispiratrice della nostra iconografia propagandistica. I messaggi provenienti dalle nuove catacombe dei cristiani dell’Est, tradotti dal professor Napolitano, profondo conoscitore delle lingue slave, furono da noi pubblicati senza subire alterazione alcuna suscitando, come si è detto, incredulità e sarcasmo.
Dispiace solo che a distanza di mezzo secolo molti di quelli che lottarono per salvare l’Italia dal moloch del comunismo non possono, perché scomparsi, assistere al pubblico riconoscimento della giustezza delle loro convinzioni.


I Comitati civici furono costituiti l’8 febbraio del 1948 a sessantotto giorni dalla data della consultazione popolare. Ottennero clamorosi risultati in così breve tempo grazie al genio di Luigi Gedda, uomo di incrollabile fede, scienziato illuminato, organizzatore eccezionale. Egli aveva avuto da Pio XII l’incarico di improvvisare, su scala nazionale, un comitato che potesse svolgere quella attività elettorale all’Azione cattolica negata dai Patti Lateranensi. La sua campagna era indirizzata su due fronti: contro il paventato astensionismo e contro il comunismo, in assoluta indipendenza dai partiti.
Gedda affidò a me il compito di curare, alle sue dipendenze, l’Ufficio psicologico preposto allo studio e alla applicazione della propaganda. È giusto ricordare e nominare i più stretti collaboratori che da tempo non sono più: Dino Bertolotti, dalla fervidissima fantasia creativa e dalla straripante comunicativa e Marcello Vazio, positivo per ragionamento e brillante per temperamento. Ci assisteva spiritualmente, fornendoci inoltre un contributo di idee, padre Lucio Migliaccio, oggi il più esauriente custode e il più fedele testimone delle prodigiose imprese.
Ma emergono dalla penombra della memoria i molti altri che si prodigarono in vari settori: Marcello Baldi, che mise a disposizione la sua vocazione cinematografica, Alberto Perrini, reduce dall’esperienza radiofonica acquisita in guerra seguendo gli Alleati da Bari a Napoli; e poi il folto stuolo dei bozzettisti, disegnatori, pittori, tra i quali Grilli, Galli, Marsico, Barbagallo, Attalo, Jacovitti… Tutti insieme, galvanizzati dal carisma di Gedda, trascorremmo lunghe febbrili giornate a inventare tecniche e tattiche di cui eravamo stati fino allora all’oscuro.
Non disponendo dei media odierni, ci affidammo principalmente ai manifesti murali, in gara con quelli del potente Fronte popolare socialcomunista e della Democrazia cristiana. Con i primi ci misurammo aspramente; con i secondi, che facevano capo alla Spes diretta da Giorgio Tupini, osservammo un rapporto di assoluta autonomia, talvolta di reciproca ignoranza.
Nella guerra dei manifesti i Comitati civici risultarono trionfatori. Qualche anno dopo un agente italoamericano di nome Orlando si attribuì la paternità delle nostre immagini e le usò in campagne elettorali di altri Paesi, usurpando la nostra originalità che non ebbe ideatori né esecutori al di fuori di noi. I manifesti, stampati a tempo di record a Roma e a Firenze, raggiungevano capillarmente tutte le parrocchie d’Italia attraverso un ufficio tecnico molto efficiente.
Contemporaneamente ci dedicammo a numerose altre iniziative per ottenere l’attenzione, spesso divertita, della gente con giochi, oggetti, figurine. Stampammo cartoline con il simbolo elettorale del Fronte: l’effigie di Garibaldi che, capovolta, diventava Stalin. Distribuimmo su facsimile di biglietti da diecimila lire, banconote da L. 00-000= che avrebbero avuto libero corso subito dopo l’eventuale vittoria del Fronte. Con esse anticipammo profeticamente il destino del comunismo reale, distruttore non solo delle libertà dei cittadini ma anche delle economie dei Paesi dove giunge al potere.
Queste prospettive francamente ci angosciavano. Il Pci sembrava poter contare su un largo consenso popolare, anche perché aveva attratto nella sua orbita partiti minori da stritolare e dissolvere dopo la vittoria secondo una tattica già sperimentata dai bolscevichi. La maggiore preoccupazione era provocata dall’adesione del Partito socialista di Pietro Nenni, uomo politico animato da sincero spirito democratico ma accecato dal livore anticlericale. Solo l’invasione dell’Ungheria doveva restituire a lui la vista degli occhi e ai mandanti smascherati il premio Lenin. Progettammo dunque un manifesto per ricordare a Nenni che durante l’occupazione tedesca di Roma egli aveva trovato rifugio e protezione presso un collegio pontificio, sotto l’abito talare di un immaginario monsignor Emiliani. Non si voleva con ciò rinfacciargli l’uso di quell’accogliente asilo che la Chiesa riconosce ai perseguitati, ma sottolineare che i cattolici erano del tutto credibili come difensori delle libertà, al contrario dei suoi dispotici compagni di cordata. Gedda trovò divertente ed efficace il bozzetto che raffigurava il tribuno con la berretta da prete e ne consentì la più larga diffusione.
Ma nell’imminenza del 18 aprile due particolari i avversari stessi: con la loro sicumera trionfalistica avevano risvegliato il “bastian contrario” generalmente in agguato nel cuore di ogni italiano e con la volgare promessa di Togliatti – poi non tanto “Migliore” – avrebbero scatenato la naturale reazione avversa all’arroganza.
I risultati superiori alle nostre aspettative, dovevano premiare il nostro appassionato impegno teso ad evitare che l’Italia seguisse la sorte della Jugoslavia, o diventasse terreno di preoccupanti contese fra le grandi potenze per avere alterato l’equilibrio stabilito a Yalta. Sebbene la nostra fosse stata una battaglia di cattolici a favore di tutti gli uomini di buona volontà senza distinzione di partito, l’esito delle votazioni favorì clamorosamente la Democrazia cristiana. Augurandoci che ne facesse buon uso, moltissimi di noi tornarono alle loro professioni abituali; pochi cedettero alle lusinghe di una carriera politica. E oggi, decimati dagli anni e sparsi nel Paese, ci unisce più che mai il ricordo irriducibile di quei sessantotto giorni più esaltanti della nostra vita. Per tutto ciò non ricevemmo, e ne meniamo vanto, speciali compensi, solo qualche riconoscimento morale e qualche piccolo premio. A me toccarono una onorificenza pontificia e una Cinquecento. Poiché avevo già moglie e figli la convertii con una più capace Millecento usata. E quella fu la mia prima indimenticabile automobile.


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