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BENIGNI E IL CARDINALE
tratto dal n. 03 - 1998

La vita è proprio bella


Dedicato a chi sa ancora stupirsi. Ecco la trascrizione integrale del botta e risposta fra Roberto Benigni e il clero della diocesi di Firenze, intervenuto alla proiezione privata dell’ultimo film del comico toscano, organizzata dal cardinale Silvano Piovanelli


Dialogo tra R.Benigni e il clero di Firenze, organizzato dall’arcivescovo S.Piovanelli di L.Brunelli


Vedere un bel film è come ammirare un bel dipinto o essere sorpresi dai versi di una poesia. Prima d’ogni ragionamento il valore è nell’emozione o meno che ti suscita, nella segreta corrispondenza che ti riecheggia dentro (a pensarci bene è così anche di ogni incontro della vita). Il cattolico integrista, che non parte dallo stupore bensì dai pre-concetti, non può non guardare con sospetto il film di Benigni. Già il titolo, La vita è bella, è sospetto. Buonismo umanitario, ulivista. Alla larga…
Dal punto di vista dell’ideologia cattolica, l’integrista ha pure ragione. Perché è vero: la vita non è bella, non può essere davvero bella per chi non ha la fede. E poi è sospetto l’autore: non è forse costui il Benignaccio che dava del Wojtylaccio al Papa, il Toscanaccio dalla Battutaccia dissacratoria e scurrile?
Nulla è più lontano dal cattolico integrista dell’effetto sorpresa, lo stupore di fronte alla cosa-che-non-ti-aspetti. Ma è proprio questo stupore l’esperienza che tanti italiani, cattolici e non, hanno fatto guardando il film La vita è bella. Che non ti colpisce per il messaggio “impegnato”, ma semplicemente per la sua poesia. Tanti trattati, tanti articoli di teologia non comunicano il puro sentimento della Gratuità, che comunica questo film. Tutto ha inizio da quella donna piovuta letteralmente dal cielo fra le braccia dello scatenato Benigni in bicicletta: Buongiorno principessa! Il resto: le esibizioni più esilaranti per le stradine e nella scuola di Arezzo allo scopo di conquistarne il cuore, e poi le incredibili trovate per proteggere il figlio nel campo di concentramento, sono solo conseguenze di quel primo dono… del cielo. E i cristiani che hanno fatto esperienza della grazia di Dio, sentono quasi d’istinto che non c’è analogia umanamente più vicina fra quanto è capitato nella loro vita e l’esperienza di un innamoramento così. Con quella totale Gratuità, con quella lievità, che ti consente un ultimo sorriso anche nelle situazioni più tragiche: l’indicibile iniquità dell’Olocausto.
E la sorpresa continua. In molti, lo scorso 9 marzo, avranno appreso, dalla televisione o dai giornali, della simpatica idea del cardinale di Firenze, Silvano Piovanelli, di una proiezione speciale di La vita è bella per il clero e gli operatori pastorali della sua diocesi. E del dialogo senza rete con Benigni che ne è seguito. Solo poche battute sono trapelate all’esterno. Ecco la trascrizione, letterale e pressoché integrale, del botta e risposta fra il comico toscano e i preti di Firenze. Divertente. E sorprendente. Dedicato: a chi sa ancora stupirsi…

ROBERTO BENIGNI: Prendo la parola per… prima di tutto perché non posso esimermi, come si usa dire, dal ringraziare, dal manifestare l’emozione di questo incontro al quale ho immantinentemente detto di sì quando mi è stata ventilata…, diciamo, questa possibilità di fare un incontro con tutta la religiosità toscana, e con il cardinale, vero, al quale mando un omaggio d’amore, un abbraccio affettuoso, un bacio a distanza eh… un inghippo, insomma, di gioia. Lo ringrazio tanto d’avermi dato la possibilità di far vedere il film a tutta questa straordinaria platea e di avermi dato la possibilità di essere qua, fisicamente, a manifestare questa gioia che spero contraccambiata.
Ecco, a questo punto io… eh eh. A questo punto mi fermo… Come va?

Il protagonista di questo ultimo film si chiama Guido. Vedendo diversi film e assistendo ai suoi sketch, mi domando: chi è Guido? Può essere una mia idea e basta, ma ricordo che in uno sketch lei disse che questo Dio, che si fa chiamare Dio, non dovrebbe far così. Si dovrebbe chiamar Guido. Perché l’è più alla bona, ’nsomma, e si potrebbe trattar meglio con lui. Ho ritrovato questo nome in un altro film, Il mostro, che è dedicato a Guido. A questo punto c’ho la curiosità di sapere chi è Guido…
BENIGNI: Eh eh... Una domanda curiosa... Guido… Beh, prima di tutto, sono tre casi differenti. Perché uno ha a che vedere, diciamo così, con l’aspetto più buffonesco, cialtrone, allegro e gioioso dei vernescanti, quello del primo sketch al quale lei si riferisce, nel quale io volevo che Dio fosse alla mano. Che poi è una cosa… più alla mano di com’è non si può essere! Essendo da tutte le parti e in ogni luogo!… Più alla mano di così… Però lì era una specie di improvvisazione… Sul palcoscenico siamo posseduti o dagli angeli o dai demoni che ci fanno fare dei voli altissimi e qualche volta ci lasciano cadere a terra, si batte una musata, poi ti ripigliano. Allora… quello era un pezzo particolarmente ispirato… Avevo scelto Guido, diciamo, il nome più comune, che non aveva niente di particolare. Non c’è un gran segreto su questo Guido. Invece ne Il mostro, era una dedica proprio a una persona a cui ero molto attaccato e che era venuta a mancare; diciamo una dedica classica a una persona che durante le riprese del film… la combinazione ha voluto che si chiamasse Guido. E in questo film ho scelto questo nome, Guido, proprio perché oramai avevo quella specie di… [«sintonia», gli suggeriscono dalla platea] Ecco, ecco, oramai mi sentivo legato. In più Guido è anche il protagonista del film 8 e mezzo di Fellini, e poi Guido Gozzano, Guido Guinizelli, Guido Calvalcanti. E allora ho detto: buttiamoci con questo Guido che è un nome poetico, bellissimo. Ho voluto fare un omaggio così, istintivamente. Non c’è niente, non c’è un segreto. Però effettivamente queste tre combinazioni potevano far pensare a chissà che cosa.
Innanzitutto, grazie per questo bel film. Abbiamo assistito in questi ultimi tempi a questa gara piuttosto deprimente fra te e Pieraccioni. Chi guadagna di più, chi fa più miliardi. Tu sei arrivato secondo, mi pare, vedendo le statistiche. Non te la prendere, perché anche se non sei arrivato primo il film è bellissimo perché è un film che fa pensare. E di questo oggi abbiamo bisogno. Grazie, Roberto.
BENIGNI: Io ti ringrazio, però hai fatto una precisazione sulla quale, volevo dire, si può passare oltre. Cerchiamo di fare un volo. Certamente oggi siamo abituati alle statistiche. Però l’idea di questo film da quando è nato a quando è stato sviluppato, a quando proprio è rinato, è uscito fuori col su’ cordone ombelicale, non c’è mai passato per la testa... – e questo lo dico proprio col cuore ’gnudo, e siccome qui il nostro Signore ci è testimone non oserei mai dire una bugia visto che è alla mano –. Questo film è nato col fatto di dire: questa è una cosa che gli voglio bene. E la sua strada, ora che ha imparato a camminare, la trova da sé, diciamo; e chi gli ha voluto bene gli ha voluto bene, senza vedere classifiche. Quindi per me è un regalo. È un Ma qui, Roberto, una cosa la posso dire, che non è un giudicare ma un dato di fatto. Fra tre anni del film di Pieraccioni non ne parla più nessuno…
BENIGNI: No, no, i film sua son freschi, belli, fanno parte della storia del cinema. Uno va là, si beve un bel bicchier d’acqua, e che c’è di più bello? [voce dalla platea: «Ecco il poeta!»] Un bicchier d’acqua può essere una cosa strepitosa, oh. Madonna, quante volte l’ho voluto bere io… e ’un l’ho trovato. E allora, ci mancherebbe altro. E poi sono cose immediate, quando uno va là vole senti’ la battuta. Sono stili diversi. E poi io son contento perché porta bene al cinema. Gente nelle sale, ha fatto una cosa fresca, nova. E la gente ride. E come dice Giovanni XXIII: «Una giornata senza una risata è una giornata perduta», vero? E noi seguiamo il papa… Sono in un ambiente, eh, cavolo… eh!
D’altronde, anche nella parte più tragica del tuo stesso film, c’è sempre il fatto della fantasia, del divertimento.
BENIGNI: Per quello si dice: quando il riso sgorga dalle lacrime si spalanca il cielo. Tu hai nominato la poesia. La poesia è, diciamo, il punto di arrivo di qualsiasi opera, di qualsiasi creazione. Cosa c’è di più poetico di vedere un tramonto? Eh, come si fa… E allora qualsiasi cosa tende alla poesia. E allora quando i due opposti si uniscono – se ci si riesce, se, diciamo, il cielo ci dà questo regalo d’arrivare a questa cosa qua – è la cosa più bella e più alta che ci possa essere.
Secondo me Fellini ride di questo film, è contento. Ho pensato: forse Fellini avrebbe voluto esser dietro lui alla regia di questo film.
BENIGNI: Quando si sta sotto una quercia, magari una ghiandettina uno la raccoglie. Quando sono stato vicino a lui, magari un po’ con la corteccia mi ha sporcato qui, ecco. Quella pulce che mi ha lasciato… Ci sono degli omaggi magari indiretti perché quando si ha di fronte un genio come Fellini, veramente lo ripeto, è come veder nascere un cipresso. L’è veramente un mistero, non si capisce da dove nascono le opere. Sant’Agostino, quando gli chiedevano del tempo, cosa è il tempo, rispondeva: se non me lo chiedete lo so, se me lo chiedete lo ignoro. E allora io riesco a capire la grandezza di Fellini, ma se dovessi dire dove sta, io lo ignoro.
Il tuo film mi ha commosso. Come hai fatto a immaginarlo e a renderlo così bello?
BENIGNI: Grazie, sento che lei è sincero, che le è piaciuto tanto e ricambio questo affetto con tutto il cuore. Quello che voglio dire è che ha fatto una domanda semplicissima e difficilissima al tempo stesso. Perché dire come nascono queste cose qua è un po’, eh… Io quando mi son innamorato della mi’ moglie... come è venuta fuori ’st’ amore non riesco a dirlo. Ma davvero! Le cose più potenti, più strepitose del mondo non le si riesce a spiegare. Io… se mi dicono facci capì come si apre un frigorifero, glielo dico, ma come mi so’ innamorato della mi’ moglie, non mi riesce. Ora, non per dire che quest’idea è una cosa straordinaria come l’amore per la mi’ moglie. Però, ecco, questo film è nato più che altro da un paradosso. Quando, diciamo, – se mi posso permettere, senza passare da megalomane, perché li abbiamo scritti insieme questi tre film, una specie di “piccola trilogia”, o come la si vuol chiamare – era come concluso un ciclo stilistico – ora faccio un discorso quasi antipatico perché quasi serio: “Stilistico”! Mi viene quasi da ’mbarazzarmi a me. Ah, ah, ah – a un certo punto avevamo sentito, ma non per una ragione, piuttosto istintivamente, entrambi, il desiderio di andare su dei territori meno calpestati (o, stilisticamente, con delle foglioline che non avevamo mai visto), di vedere qualche albero differente. Ma non perché avevamo deciso. Perché è proprio… è come quando la melodia ti viene a trovare. Non che tu vai a trovare la melodia. E questo è bello quando accade. E quando accade non si può che seguire questa cosa qua. E allora abbiamo detto: se dobbiamo fare una cosa un pochino, ripeto, stilisticamente diversa, andiamo fino in fondo. Non dobbiamo aver paura perché il tema… Voglio dire: fare i campi di concentramento, l’incommensurabile ingiustizia di questa cosa qua e tutto quello che nel nostro film si rivela, senza poi tradire il nostro stile, è un tema delicato, una ferita ancora aperta e quindi il dolore per questa cosa poteva farci recedere. Poteva essere una sfida, insomma, un po’ pericolosa. Però ci siamo lasciati andare. Non abbiamo più dormito la notte, insomma, letteralmente da quando c’è venuta questa idea che, ripeto, non so come è venuta, quasi per paradosso, buttata là. Vuol dire che avevamo dentro, un po’ simbolicamente, questo momento storico. Questo momento storico è, dico, un po’ la summa di tutte le più grandi ingiustizie di tutti i tempi… Insomma ci siamo lasciati andare e quando ci si lascia andare le si dedica tutto questo amore a una cosa.
…Ma trattare i campi di concentramento dopo Schindler’s list, era una grossa cosa. E poi di fronte ai campi di concentramento è facilissimo mettersi dalla parte dei vendicatori. O meglio dalla parte delle vittime e quindi come vendicatori. Invece in tutto il campo di concentramento domina il rapporto tra te e tuo figlio, tra te e tua moglie. Quindi ha vinto l’amore. Non c’è nessun senso di vendetta dentro.
BENIGNI: La seconda parte del film (quella ambientata nel campo di concentramento) nasce dalla prima parte, dalla storia d’amore. È l’altra faccia. E, come dice Dante nel V canto, “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria”. E quindi bisogna ricordarsi tutte le cose che legano la prima alla seconda parte. In più c’è l’amore per il bambino, che credo sia la cosa più alta e più nobile dell’umanità. Sia istintiva e primordiale, diciamo dall’uomo di Neanderthal, sia culturale, che è proteggere la purezza, i bambini dal trauma. Questo credo che sia il nocciolo centrale del film: proteggere la purezza dal trauma [applauso della platea]. Vi ringrazio. Nella ex Jugoslavia c’è stato un convegno di psichiatri che hanno fatto un referto su tutti i bambini che hanno assistito agli orrori che sono quasi pari a questo, e ai bambini gli è scoppiato letteralmente il cervello. Sono o violenti, o infelici, o addirittura impazziti. Quindi, proteggere la purezza – perché ognuno di noi che abbia un minimo di ragione tende a proteggere la purezza – è una cosa culturale e ancestrale. Perché è la cosa più primitiva e istintiva. Quando si ha un pargolo tra le braccia e si vede una cosa orrenda, la prima cosa istintiva è dire: no, stanno scherzando, non è niente, non è vero. È proprio l’istinto e la cultura insieme. Quindi è la cosa più alta, nobile. Allo stesso tempo non dimentichiamoci che nel film il rapporto con mio figlio è fondato sul gioco, sulla fantasia che ci salva (e io continuo a vivere nel mio bambino, se vogliamo fare un po’ di simbolismo alla spicciola), ma soprattutto io muoio per mia moglie. Io penso a lei, penso che ho voglia di fare all’amore ancora con lei, di stare con lei. Io effettivamente alla fine muoio (il bambino l’ho sistemato), però non dimentichiamoci che muoio per andare a cercare lei. Perché io non sono né politicamente impegnato, nel film, né un ebreo praticante. Sono un assimilato totale… Addirittura chiamo la Madonna per tre o quattro volte nel film, quindi, è un personaggio totalmente libero. Diciamo, se è antifascista o antidispotico lo è fisicamente, quasi il mio corpo sia antifascista, naturalmente…
L’altro punto fondamentale è questa famiglia, totalmente libera, gioiosa, felice, che magari ha voglia di vivere le vicissitudini della vita, magari i dolori, e che viene tranciata, con un colpo di follia inspiegabile, assolutamente. Questi sono i due punti, diciamo, della spiegazione del film.
Vorrei portare una piccola testimonianza. Sono una insegnante di religione. Io ho dato come compito che i ragazzi andassero a vedere il film. Ed è stato molto bello perché hanno capito. Avevo letto critiche di tutti i generi sui giornali. Ma le critiche dei ragazzi sono state superiori e più profonde di quanto avessero detto i critici. Sono quindi venuta qui per ringraziare…
BENIGNI: Lei è venuta a ringraziare me, ma io ringrazio lei, sia per essere andata a vedere il film sia per averci mandato i bambini. Questo è un regalo straordinario, al quale non so come reagire. Lei addirittura mi ringrazia. Sono io che ringrazio lei sentitamente e con grande affetto.
Come ha capito che il gioco è tanto importante a quell’età lì?
BENIGNI: Questa è una domanda difficilissima… Il gioco! Dell’attività ludica, diciamo, nella vita, io sono un esperto. Nel senso che tutta la vita è un gioco, per fare una grande metafora. Ma il gioco l’è proprio la maniera… c’è un saggio sul gioco di un olandese, si chiama Huizinga, l’Homo ludens. Si potrebbe star qui settimane… Però il gioco non è solo con il bambino ma è anche con mia moglie. Quindi il gioco è sull’amore filiale, materno, verso la mamma e il babbo, gli animali, verso Dio, verso gli uomini, le scarpe, i frigoriferi, che ho già citato, eccetera. È il gioco della vita e anche il cinema stesso è il grande gioco. Gli americani fanno gli effetti speciali. Ma l’effetto speciale è proprio il cinema in sé: quando si proietta è il più grande effetto speciale che si può fare. Questo gioco è quasi l’immagine di Dio, mi sembra a me, ma non vorrei essere blasfemo. È questo gioco, ma in tutte le civiltà e i miti dell’Occidente e Oriente c’è come punto fondamentale: il gioco. Addirittura nella mitologia mistica indiana, tutta la creazione del mondo comincia con una partita a dadi tra du’ grandi dei. Quindi il gioco è un’immagine... – ora a parlare del gioco si va a finire al manicomio perché io mi aspettavo di tutto fuorché una domanda sul gioco – quando abbiamo avuto l’idea del gioco mi sembrava che la fantasia… e il sogno… l’immagine, e l’invenzione, e tutto ciò che avviene indirettamente… ecco, è tutto un regalo. È un dono. E il gioco credo che sia il dono più bello. Nel gioco c’è sempre uno scatto. Come se si dovesse andare avanti. Un incitamento divino. È l’imitazione della realtà. Quando si dirigeva il bambino, era come dirigere la cascata delle Marmore. Vallo a dirigere un bambino di cinque anni. È come quando c’hai davanti una giraffa, una tigre. Che gli fai? Gli metti davanti la macchina da presa. Il bambino lavorava solo se giocava, e pensava che a girare un film ci volesse quanto a guardarlo: du’ ore. E allora passate le due ore del primo giorno, ha detto: «Ma quanto dura questo film?!». E io: «E ora chi glielo dice a questo che dura quattro o cinque mesi?». Io m’ero impaurito. Infatti il bambino ha avuto dei momenti di crisi profondissima. Dopo una settimana ho provato a convincerlo: «Ci vuole un po’ di più perché dura più di du’ ore questo film» [ridono]. Dopo ho cominciato a raccontargli la storia, come una favola. E lui ha preso i cattivi e i boni, come i manichei. . È entrato dentro come s’entra dentro un gioco di dimensioni mastodontiche, perché era coinvolta la su’ mamma, tutti i su’ parenti, sentiva che c’era una cosa, insomma, molto potente. E lui quando lavorava, lavorava molto bene imitandomi. Perché il bambino è come l’“animale”, una belvona, è come il mare. Chi lo regge? E come tutte le scimmie (i bambini sono scimmie) lui da solo non recitava, ma a me mi imitava alla perfezione. Per questo io non riuscivo mai a girare il master, come si dice nel cinema, ovvero tutta la scena intera perché non lo potevo dirigere. Era lui che dirigeva me. M’ha messo anche in difficoltà, m’ha condizionato la regia. Quindi mi ha dato dei regali enormi. M’ha portato lui a dirigere lui stesso. Naturalmente più di tre secondi non stava concentrato, non sapeva leggere e non poteva imparare la parte a memoria, sempre le mani sul pisello, continuamente le mani sul pisello, si voleva proteggere da qualcosa, chissà. Quando uno entra in un territorio misterioso, la prima cosa è proteggere la vita e allora… gli organi genitali. C’aveva sempre le mani qui, sempre [risata dalla platea]. Una cosa impressionante. Giuro che avevo difficoltà nel montaggio: perché aveva sempre le mani sul pisellino… nella vita normalmente non lo faceva. Quindi era un istinto… vallo a spiegare. Qui ci vuole uno psicanalista, vero, si fa per dire. Però mi sembrava una cosa molto sana, a me, tra l’altro.
E alla fine devo dire, si è liberato, in una maniera… Questo film l’ha cambiato. È diventato una farfalla, ha fatto proprio dei voli. Io son rimasto impressionato da questo bambino. Mi è piaciuta la faccia perché non era televisiva, carosellistica, era una faccia antica, una faccia che, insomma, era poco vista che mi ha immediatamente…
Con la scusa del gioco, un gioco che portava però in sé una parte oscura – e questo bambino l’ha capito – ha affrontato questa cosa in una maniera straordinaria, proprio giocando. Era un gioco nel gioco. Comunque la ringrazio della domanda. La prossima volta mi devo preparare queste cose.
Quando uscì il film, qualche giornalista cattolico disse: bello, questo film, ma certo, come si fa a pensare a un film bello così dopo quelli che aveva fatto Benigni. Invece io come cattolico ho sentito estremamente consequenziale questo film a tutti quelli che avevi fatto. Non ho sentito per niente il contrasto, non mi sono mai sentito turbato dagli altri film un po’ “blasfemi” che qualcuno, non toscano, giudicava dall’esterno. L’ho trovato come conseguenza di un discorso tutto toscano, ma anche di formazione personale, popolare, familiare. Una volta trovai a ballare il tu’ babbo e la tu’ mamma. Si fece un’intervista. Mi raccontarono di te cose straordinarie dal punto di vista cattolico. Non dico in senso esplicito. Ma come formazione popolare, di fondo. Per questo l’ho sentito consequenziale. Persino Johnny Stecchino è un film pieno di grandissimi valori. Quindi grazie. Non so se forzo la tua intenzione o ti ritrovi in questo…
BENIGNI: Mi stai dicendo delle cose straordinarie, mi ci ritrovo benissimo anche perché sono cose che abbiamo fatto a brevissima distanza di tempo quasi con le stesse persone e gli stessi autori. Quindi posso dire che questo film sia la diretta conseguenza, ma anche gli altri sono la diretta conseguenza. Un film si crea anche i suoi predecessori. Agli altri film voglio bene alla stessa maniera. Non per dire che la mamma vo’ bene a tutti i bambini allo stesso modo, ma sono dei film di grandi difficoltà, nei quali, onestamente, credo di avere sempre messo perlomeno dentro la stessa carica emotiva e creativa che credo ci potessimo avere. E con lo stesso impegno e profondità. Tra l’altro, sono quasi tutti sempre intrisi, diciamo, di religiosità, i film. Ah, ah. E infatti, le opere che durano tanto o sono erotiche o sono religiose, non c’è niente da fare. Sennò muoiono subito. Quindi… O tutte e due insieme. No, dico erotico nel senso alto del termine. Nella cabala si dice che tutti e due gli organi genitali sono la cosa più pudica, più generosa, più straordinaria, che il nostro Creatore ha fatto e sono quindi quasi l’immagine del divino stesso, nella cabala. E lo dico nel senso nobile e alto del termine, che sono legati alla natura, anche al gioco. Nei miei film c’è sempre stato: anche perché sono un po’ zuppo di religione, fin da bambino. Il primo mestiere che volevo fare era il santo, da quando son bambino. E quindi mi informavo su come si faceva, perché la mi’ mamma andava in chiesa e la cosa che le piaceva di più erano i santi. Dicevo: pensa che sorpresa se alla mi’ mamma gli dicessi «son santo», Madonna, si sarebbe innamorata di me. E allora prendevo informazioni se c’era una scuola o qualcosa per diventare santo. Ma davvero! E gli chiedevo anche al mi’ babbo: «Ma secondo te, o babbo, Dio c’è o non c’è?». E lui mi diceva: «C’è sì!». E io: «E perché?». «Se ci siamo noi, figurati se ’un c’è lui!», diceva.
Addirittura la manifestazione della religiosità toscana si evidenzia a volte nelle bestemmie, che sono tutto l’opposto del blasfemo, diciamo. Diventano, a volte, a dimostrazione dell’esistenza. Io sono inzuppato… è come a dire che ’un credo al tramonto. L’ho sempre visto da quando son cresciuto e Gesù Cristo l’ho sempre visto da quando son nato, diciamo, e ’un ce la fo a dire che…
E quindi in tutti i miei film viene fori, per forza. Ma viene fori quello che uno come ’na spugna ha preso e poi viene strizzato e butta fuori tutto. E dentro credo che ci sia lo stesso tipo di cosa bella…
Vedendo il film mi veniva spesso in mente un bellissimo tuo film, Berlinguer ti voglio bene, in cui c’era questa capacità di raccontare l’uomo là dov’è. Lì c’era il dramma della periferia e questo ottimismo – c’erano delle scene squallide dal punto di vista della quotidianità faticosa di quel giovane –, e c’è la stessa ricerca di questa bellezza della vita e della passione per l’uomo, no? Ecco, da dove è che son venuti a te questi valori, questa passione per l’uomo e la ricerca della vita?
BENIGNI: Bah, credo che sia la cosa insomma più normale. Se non c’è l’amore verso la vita o perlomeno una cosa che riguarda la vita, perché solo quella abbiamo, non abbiamo niente altro! Quindi, non si può che parlare di ciò che abbiamo: non abbiamo nient’altro che la vita, insomma. La ringrazio anzi di aver citato Berlinguer ti voglio bene, che è un po’ il figlio che è stato un po’ maltrattato, venuto un po’ storpio, all’inizio, ma gli voglio bene. E anche lì c’era tutta una discussione sull’esistenza di Dio. E quella era forse l’opera più tormentata, tragica. Non posso dire da dove mi nasce questa… Se sapessi rispondere a questa domanda insegnerei teologia a Parigi [risate]. Magari potessi rispondere. Mi nasce proprio dalla bellezza, e da un tuffarsi in quella che è… Questo momento qui, ad esempio, è un momento in cui c’è la vita. ’Un c’è un momento ’ndo’ ’un c’è la vita. Anche quando si more, perché anche la morte è vita stessa…
Oggi qui in grande si riproduce la situazione della cena insieme a don Maurizio nel film Il piccolo diavolo, solo che oggi i sacerdoti sono veri. Allora lei rifarebbe Giuditta allo stesso modo o ha trovato degli spunti per farla in maniera diversa?
BENIGNI: Ah, ah, ah. Giacomo (l’è il mi’ cugino). Ogni volta che c’è un incontro mi fa questa domanda [risate]. La ringrazio tanto. Vedi, in tutti i film c’è una cosa religiosa: in Berlinguer ti voglio bene c’era tutta la discussione sull’esistenza di Dio; nel Piccolo diavolo c’era il rapporto con il monsignore e il diavoletto che sembrava uscito da un racconto di Isaac Singer, di quei diavoletti che escono per dare noia ma sono affascinati dalla vita e dall’amore. E io nel Piccolo diavolo mi ci son tuffato alla ’gnuda, perché era una cosa ghiotta. Presentare il film qua è come la cena del Piccolo diavolo. Però, credo, siamo un po’ tutti piccoli diavoli, quasi mi sento io un po’ il monsignore. Caro Giacomo…
Dopo l’esperienza di questo film di cosa si è arricchito Benigni dentro?
BENIGNI: Prima di tutto di questo film. Perché questi son regali, perché non si sa, quando si comincia, che cosa viene fuori. Perché il film… è come fare un viaggio su una rotta un po’ sconosciuta. Tracciata dall’inizio, perché le nostre sceneggiature per fortuna, grazie al nostro sceneggiatore [accanto a Benigni siede Vincenzo Cerami], sono dettagliatissime: ma poi bisogna sempre lasciare la porta aperta perché, come diceva Rossellini, può anche passare un cagnolino, può sempre arrivare qualche regalo. Il grande regalo che mi ha dato questo film, l’epifania, diciamo, di questo film, siccome sono un comico, un commediante, un buffone, un burlone, è il fatto che alla prima proiezione che ho fatto, alla fine, in un silenzio di tomba si sono alzati, hanno fatto un applauso e quasi tutti piangevano, a Milano. Mi ha dato quel tipo di emozione che dà solo la risata sgangherata. Gli opposti si uniscono. Quando c’è quella risata corporale… Nel pianto è come se si ergesse lo spirito, nella risata si abbassa sulla carne. Ma è un abbassamento-alzamento che si bilanciano, tutti e due. Son due cose altissime perché vanno ai due estremi. Tutti i film arricchiscono. Qualsiasi momento della giornata arricchisce. Prima siamo stati a prendere un caffé al bar con Giacomo e pure in quell’incontro al bar sono successe delle cose che... siamo usciti e s’era già più contenti. Anche dopo quest’incontro sarà così...
L’emozione e in più la gratitudine. La gratitudine negli sguardi, nelle parole e nelle lettere che ricevo. Perché il film tocca, si vede, delle note, qualche parte del pensiero e del corpo che gli altri film toccavano in maniera più velata. Ma la prima lettura del film è quella diretta, che è proprio la storia che il film racconta, senza secondi fini.
Devo dire la verità, anche durante le riprese sono stato toccato dal film. Durante la sceneggiatura, quando scrivevamo le parti più liriche, come quella del messaggio o della mia morte, queste ci hanno condizionato psicologicamente. Siamo stati male fisicamente. Come se non volessimo staccarci da questo folletto, da questo personaggino, da quello che rappresenta quel personaggio. Ma senza la morte questo film non potrebbe assolutamente vivere.
Questo sentimento e dolore che ha sentito per la morte del protagonista, non ha forse un nome, la speranza? È tutto basato su una speranza da realizzare. E mi ha colpito perché è avvenuto in un luogo senza speranza. In un lager. La speranza contro ogni speranza, come dice la Bibbia. Ed è quello che i giovani vogliono.
BENIGNI: È un’interpretazione della quale sono fiero anche perché la speranza, tra le virtù teologali è quella più bambina, la più semplice, la più infantile delle virtù e quindi la più giocosa. La quale senza la fede non vive e senza la carità non muore.
Il padre, ed è una cosa che a me piace molto nel film, ci crede fin dall’inizio. Anche se è incredibile. Come quando gli dice che c’è un carro armato in gioco. Ma non cede mai, anche quando vede una montagna di cadaveri… è stato toccato dalla beatitudine. Il rapporto fra queste due persone e il fatto della speranza è proprio l’inno del film. È dalla leggerezza di questa virtù, la speranza, che parte tutto. Non solo. È quasi facile far credere a un bambino che è un gioco, quando si arriva a dei paradossi abnormi come quello dei campi di concentramento. Uno dice: non può essere vero. Addirittura quando si legge Primo Levi, quando racconta che li portavano fuori tutti ’gnudi scheletriti per fare l’appello, improvvisamente suonavano Rosamunda, e lui stesso dice: «E ci guardavamo l’un l’altro dicendo: ma non sarà che ora viene fuori uno con uno sghignazzo che dice: ma era tutto uno scherzo», come se fosse una grossa presa in giro teutonica, una beffa. E così nel film. È un gioco a cui il bambino deve credere per forza: come si fa a fare dei bottoni, dei saponi… Non ci crederei neppure io se non sapessi che è storicamente vero. È un paradosso. Va bene, questo non ha niente a che vedere con la speranza però, insomma…
Hai detto tanto sull’amore, ma non tutto. C’è un amore che si offre per i figli e la moglie. Ma siccome io sono prete… Gesù dice che c’è un amore anche per i nemici. E don Cuva sa che viviamo in una società giustizialista dove si preferisce vedere il nemico in croce, a morte.
BENIGNI: Gesù credo sia stato ucciso perché ha detto: «Ama il tuo nemico». A quell’epoca là, dire ama il tuo nemico, insomma, era una cosa… Porgi l’altra guancia, o anche ama il prossimo tuo come te stesso sono delle cose spaventose. Ora, noi le abbiamo prese così, ma quando io le leggo, sobbalzo perché dico: ma chi l’ha detta questa cosa? Chi? Gesù, può essere solo Gesù. A dire una cosa del genere, si capisce perché uno possa venire ammazzato. Ha scardinato tutta la morale dell’umanità, l’ha proprio “sdrivincollata”. Fa ’mpressione! Da solo uno si dice che la mente umana non è l’organo per capire queste cose qua. E allora… dimostrare l’esistenza di Dio con la testa è come sentire il sapore del sale con il naso. Non ci s’arriva, non è l’organo suo. E allora c’è un altro organo che determina… Voi conoscerete senz’altro Pascal. Tutte le sue pagine sono zeppe del contrasto fra il dubbio e la fede, fra la religione e la razionalità e la scienza. Credo, dal mi’ punto di vista (per entrare in una discussioncella così, tanto per fare, che mi garbano tanto) che il fatto che non son mai riuscito – ovviamente credo qualcuno di voi sì, ci sia riuscito – a dimostrare che Dio esista veramente o che Dio non ci sia veramente, questo equilibrio del dubbio sia quasi la dimostrazione stessa dell’esistenza di Dio. Questo equilibrio tremendo… Io a volte ho la certezza assoluta, proprio dico: c’è per forza, ma proprio non me lo leverebbe di testa nessuno. E delle volte dico: ’un c’è verso ci sia. E passo continuamente tra queste du’ cose, e sto sempre lì nel mezzo.
E ripensavo, se a me, a uno di noi ci apparisse Dio, e dicesse: ci sono. Oh, ’ndò si va? È la fine del mondo. Uno ’un campa mica più, perché oh, ’ndò si va?!
[Voce dalla platea] La Bibbia dice: quando si vede Iddio, uno more
BENIGNI: Come se vede Iddio uno more? Eh no, no, no, qui mi permetto di dissentire. Non so se il cardinal Piovanelli è d’accordo, ma io questo sulla Bibbia non me lo ricordo. Ha detto che sulla Bibbia c’è scritto proprio così, in toscano: se uno vede Iddio, uno more? Questa frase sulla Bibbia non me la ricordo [ride]. Eminenza, eminenza…

SILVANO PIOVANELLI: A me dispiace che si debba chiudere questo incontro: anche perché Roberto ha detto che nei suoi film lui si è come strizzato e ha dato tutto quello che c’era dentro. Ma con queste domande e con queste risposte ci se ne accorge ancora di più, perciò mi dispiace che si debba finire.
Quello che mi è venuto in mente guardando il film e salutando lui, non era se non il «Si figuri» del santo del Manzoni. Cioè a dire, il film: «bello bello»; e l’attore: «bravo bravo». Cioè a dire: le parole che si usano di più. E che davvero mi sento di ripetere sul film e sull’attore e su quelli che hanno collaborato.
Il messaggio che ne vien fuori è un messaggio molto positivo. Che dà speranza. Si capisce che con l’amore, con i bambini che sono il segno che Dio ’un s’è stancato degli uomini, vero?, credo si possa andare incontro al futuro. Sono felicissimo che i nostri giovani possano godere di questo film. Devo sottolineare un’altra cosa che mi ha colpito negli interventi di Roberto. Molte volte ha detto: «Voi siete un dono per me». Questo è un regalo! Io dico che potremo godere davvero delle cose quando ci si accorgerà che tutto quello che ci capita tutto sommato è un dono, un regalo. Lo è stato per noi il film e lo è stato ancor di più Roberto Benigni. Grazie, grazie…


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